Non esiste persona che non riconosca che la capitale della Germania è la città più all’avanguardia del momento, la nuova Londra, con enormi prospettive di sviluppo in ogni settore, dall’arte all’economia. Negli ultimi tempi Berlino si distingue nel campo artistico grazie ad un evento di grande risonanza: la IV Biennale Arte Contemporanea. Il nome che più si sente mormorare per le vie di Berlino e tra i luoghi d’arte italiani è quello di Maurizio Cattelan, il padovano che aveva anche curato la VI Biennale dei Caraibi (che consisteva nel regalare agli artisti partecipanti un soggiorno “all-inclusive” appunto ai Caraibi. Nessuno esponeva opere d’arte e soprattutto non c’erano state passate Biennali). Se non ci si limita ad ascoltare le voci della strada, si scoprirà che il successo della mostra va attribuito anche ad un altro italiano, Massimiliano Gioni, il curatore della Fondazione Trussardi a Milano e ad Ali Subotnick, una scrittrice americana. Così, a guidare la scena di Berlino dal 24 marzo al 28 maggio del 2006 saranno un artista, un curatore ed una scrittrice, che negli ultimi quattro anni hanno vissuto proprio a Berlino per prepararsi alla manifestazione. Un’americana in mezzo a due italiani; nessun tedesco. Un artista, Cattelan, a cui spetta, insieme ad altre due menti, di curare una mostra. Una scrittrice, Ali Subotnick, che non scrive, ma che si occupa di allestire una mostra. E infine, un curatore di professione, M.Gioni. Il trio è riuscito a farsi conoscere grazie agli anni trascorsi in città, alle interviste agli artisti comparse sulla rivista bisettimanale “Zitty” e alla pubblicazione di un libro, “Checkpoint Charley”, in cui figurano più di 700 maestri, che durante la fase di ricerca dell’evento hanno mandato ai curatori qualsiasi materiale ritenessero opportuno per presentarsi. Ma forse Cattelan era già conosciuto: come artista, senza dubbio e come fidanzato della bella Victoria, che nei giorni d’inaugurazione della Biennale è stata avvistata al dodicesimo piano di un grattacielo dove si trova una discoteca di grande tendenza. Se già la bandiera tedesca con i suoi colori aggressivi spaventa i nuovi arrivati, il titolo della IV Biennale non avrebbe dovuto avvicinare nemmeno un visitatore perchè l’associazione tra topi e uomini non è delle più attraenti. Ma stavolta pare che “Von Mäusen und Menschen” fosse argomento di gran moda. È forse l’uomo per certi versi un topo che si nasconde? O magari la vita dell’uomo è grigia come il colore dell’animaletto? Non sarà allora il topo che si intrufola ovunque, come l’uomo? Chissà che invece non si faccia riferimento ai tanti topi che assediavano Berlino negli anni peggiori. È probabile. Ogni domanda potrebbe essere l’interpretazione giusta. Quel che è certo è che il titolo è ripreso da un’opera di Steinbeck, che a sua volta lo rubò ad una di Robert Burns. Il catalogo è anonimo, con una copertina rossa, le foto rigorosamente in bianco e nero e l’inchiostro utilizzato rosso e nero. Nessun richiamo preciso a qualcosa. Si percepisce sempre un senso di malessere, che risuona negli spazi scelti per l’esposizione. C’è una grande varietà di ambienti e di esperienze: si aprono porte su un passato dimenticato e si vede l’arte in luoghi dove di norma si mangia, si prega, si gioca, si lavora, si riposa in eterno: appartamenti privati, una chiesa, una scuola dismessa, uffici e anche un cimitero. I tre curatori hanno scelto di ambientare la IV Biennale di Arte Contemporanea di Berlino in un’unica strada, AUGUSTRASSE, in edifici scelti solo per la manifestazione e normalmente destinati ad altri scopi. Stavolta ciò che strania lo spettatore è il luogo, non solo l’opera. Si passeggia per una delle vie più centrali di MITTE, della Berlino Est, dove ogni mese sorgono nuovi bar e ristoranti e dove, soprattutto, si trovano le più note gallerie di arte contemporanea, e non si sa bene se la fila di persone fuori da un locale sia dovuta a un’installazione da vedere o se invece si aspetti di entrare in un negozio piuttosto che in un caffè. Nei primi giorni dell’inaugurazione il pubblico freme, gente di tutti i tipi assedia i luoghi deputati alla Biennale. Fermento e un pò di tensione per la strada, per i bar, nelle gallerie, nel cimitero, nella scuola, negli appartamenti privati, nella Ballhaus. Si rispettano le file in maniera rigorosa e si aspetta di entrare nell’appartamento al numero 23, a due a due, per visitare le opere di Damian Ortega, che propone un letto ed una sedia che vibrano, grazie ad un marchingegno posizionato al di sotto di questi; altrimenti si può sfogliare l’album di fotografie della polacca Aneta Grzeszykowska, che è appoggiato su un tavolo e dove l’artista ha deciso di cancellare in maniera digitale se stessa dalle immagini. Straniamento una volta entrati in questo piccolo loft: difficile capire cosa sia in esposizione per la Biennale e cosa invece faccia parte dell’arredamento originale della casa. Accanto all’appartamento si trova la cosiddetta BALLHAUS, cioè un ex salone da ballo, mal tenuto, dove due attori professionisti si esibiscono in un bacio plateale che dura quanto basta per suscitare qualche imbarazzo. I due sono abbigliati in maniera semplice, come se fossero i primi venuti e si rotolano per la stanza guardandosi e rincorrendosi. È un’idea di Tino Sehgal, l’artista inglese che cerca di depistare lo spettatore che, entrato nella stanza affollata di gente, non sa se i due “innamorati” siano veri o giunti per l’occasione. Augustrasse è lunga e non troppo larga, con tanti edifici, che sono case, uffici, negozietti, bar, gallerie d’arte, panetterie. Non è particolarmente bella e col cattivo tempo, che di norma regna a Berlino, appare anche molto triste. Ci sono ancora cantieri e container, alcuni di questi usati per proiettare video della Biennale. C’è una scuola abbandonata e nelle aule si trovano vari tipi di opere. Un’aula è completamente riempita di terra. È l’opera di un americano che si chiama Bouchet e che replica la “The New York Earth Room” di Walter De Maria. In un’altra Tadeus Kantor porta avanti il motivo della morte che gli è tanto caro: “The boy in the bench” è un manichino della misura di un bambino, seduto al banco di scuola, con un libro aperto; è un’immagine in azione. Christopher Knowles usa il testo nelle sue opere e così offre una registrazione sorprendente del mondo. I disegni battuti a macchina documentano la vita quotidiana e includono liste di canzoni o di parole in rima “disegnate” in inchiostro rosso, nero e verde. Dipinge sistemi di classificazione. Alla Biennale ha proposto “Untitled (Top of 50 of 1967)”, ossia una lista delle 50 canzoni migliori del 1967, col nome dell’artista al lato, in minuscolo. Nella scuola femminile si trovano anche numerosi video: tra questi salta all’occhio il filmato di T.Dean “Presentation Sisters”, che cattura la vita di un gruppo di suore che vivono in un monastero in Irlanda: si vedono le sorelle mentre mangiano, mentre stirano, mentre guardano la televisione. Diverso invece il video di Nathalie Djurberg che punta a scoprire il lato oscuro della vita, l’istinto crudo, la falsità e il male degli esseri umani. In “The tiger licking girl’s butt” compare una tigre che sembra uscita da “Il libro della giungla” che fa esattamente ciò che descrive il titolo dell’opera. Non si può non menzionare l’opera di un artista nostrano quale Diego Perrone, che si è presentato a Berlino con un video molto crudo, “Angela e Alfonso”, dove in una macchina una donna, Angela, permette al presunto fidanzato, Alfonso, di tagliarle l’orecchio. Pare che ci sia un richiamo alle tradizioni rurali italiane che alludono al ciclo della vita dalla nascita alla morte. Domina l’idea della vita e della morte: si nasce, si vive e poi si muore. È un ciclo. È la natura. Ma la vita non ha un corso lineare e semplice: bisogna correre, fuggire, saltare. Si crolla, si sbaglia, si riparte. L’atmosfera che si respira in tutti i luoghi dell’esposizione è un pò sinistra, un pò tetra, un pò grigia, come il colore del topo. Le opere in generale sono tendenti al macabro: c’è sangue, come nelle foto che rappresentano il parto di una donna: “Spiritual Midwifery rush” di C. McCorkle, esposte al KW Institute for Contemporary Art. L’artista esplora il miracolo della nascita del bambino documentando il momento della separazione tra mamma e figlio. Sono foto a colori, esplicite, di grande impatto. C’è tensione. Come ad esempio nel video di M. Cantor, “Deeparture”: un lupo ed un cervo sono chiusi in una stanza e si guardano, si studiano, si confrontano. Lo schermo è enorme, il lupo è bianchissimo, la sala circostante buia. Si aspetta che il lupo mangi il cervo e invece non avviene. Si soffre perché non succede niente. Gli animali sono rinchiusi in un luogo costruito dall’uomo e stavolta la naturale lotta bestiale termina in maniera quasi razionale: il lupo non mangia il cervo; anzi, ci convive nella stessa stanza. Viene subito in mente la galleria riempita di cavalli da Kounellis. Un grande equivoco in ogni sala della Biennale. Come un teatro dell’assurdo: morte e sopravvivenza, nostalgia e dolore. Nella Chiesa Evangelica all’inizio di Augustrasse si trova appeso dalla parte normalmente deputata all’organo un tabellone da aeroporto, ma senza indicazione alcuna. Un oggetto spostato dal luogo tipico, che fa riflettere sull’assenza di confini fissi. Questa l’idea di Kris Martin, che mette anche in relazione la morte e la rinascita con la partenza e l’arrivo. Nonostante i luoghi siano quindi lugubri, spesso ancora da ristrutturare, o magari sporchi, si torna a casa sereni e soprattutto soddisfatti del lavoro compiuto in terra straniera dai due curatori nostrani, coadiuvati da un tocco di femminilità made in U.S.A. Come gli stessi ideatori affermano, non c’è un credo, ma il solo adattarsi a ciò che già esiste riciclando, talvolta copiando o prendendo a prestito. “L’importante è non essere troppo accademici”. Così Berlino quest’anno sarà sotto i riflettori per due motivi: il mondiale di calcio e la Biennale di Arte Contemporanea. La scommessa sarà quindi su chi porterà a casa il risultato migliore: l’Italia del pallone o quella degli appassionati dell’arte?! Affidiamoci al tempo, passeggiando frattanto per le vie berlinesi tra caffè e arte.