L’arte abita la città, sorprende, stimola, provoca e – perché no? – disturba i suoi abitanti; li cerca, si fa trovare. Written city è un progetto che mira a inserire nel tradizionale tessuto urbano della cittadina di Frascati l’arte contemporanea, intesa non soltanto come strumento che sappia valorizzare gli spazi pubblici, ma come elemento che vuol dialogare con essi, ridiscuterli e portare riflessioni forse inedite in tali contesti, stabilendo un rapporto con i suoi abitanti che, se non è possibile considerare del tutto pacifico, non si potrà in alcun modo definire sterile. Il mio itinerario ha inizio di fronte al Palazzo Comunale, presso il quale è situata l’installazione fotografica di Gea Casolaro; l’artista fa rivivere sulla facciata dell’edificio dei graffiti provenienti dalla periferia di Roma. Il cortocircuito dato dalla sovrapposizione – sottolineo sovrapposizione, non imposizione violenta – di questi tipici segnali metropolitani su una parete ad essi non originariamente destinata, suscita un moto di dilatazione spaziale che mette in relazione la cittadina con la città e le sue periferie, suggerendone il complesso quanto imprescindibile dialogo storico e insieme sociale. Nella fruizione dell’opera si rivela determinante l’allusività del suo titolo, Il centro della periferia. Proseguendo sul tracciato di scritte che disegna il percorso della mostra sul manto stradale e sui marciapiedi – scritte che vanno dalla vivacità e dal non sense di uno sfrenato paroliberismo alla semplice riproduzione dei nomi delle insegne di vie, negozi e locali da esse costeggiati -, sono giunta in un luogo chiave di questa graziosa cittadina, la Passeggiata Fuoriporta, che ospita ben due installazioni di due differenti artisti. Luca Vitone propone il suo Panorama, tre cannocchiali posizionati in una zona di grande rilievo panoramico, che disorientano l’osservatore con immagini fotografiche provenienti da contesti altri e spuri, disattendendo il normale orizzonte d’attesa che l’uso di tali strumenti normalmente prevede. Lì dove il cannocchiale dovrebbe avvicinare qualcosa che l’occhio nudo percepisce in lontananza, come un dato reale, troviamo invece tre immagini che, fra ricordo, allegoria e citazione – il poeta dialettale Cesare Pascarella, che a Frascati compì i suoi studi in seminario, il canarino in gabbia, figura di un dialetto destinato, nella sua fragilità, a svanire, e l’uomo che scava, tratto dal film di Pasolini Accattone – al dato reale si sostituiscono e sovrappongono, senza cessare di alludervi (le tre immagini costituiscono un richiamo simbolico a Roma e alla romanità, ed è proprio Roma che si scorge, in lontananza, dalla Passeggiata). Nella seconda opera esposta in questo luogo di incontri e viavai, Welcome, alone in public, riscontriamo, con modalità, strategie ed accenti tematici diversi, un’affine logica di straniamento, scanzonata ma non priva di amarezza. Il comune zerbino Welcome, che invita ad entrare nell’intimità delle case, dunque nello spazio privato, si fa rivestimento di alcune panchine, oggetti per antonomasia dello spazio pubblico, ed un frammento di scrittura – la scrittura marginale degli inserti e annunci di cuori solitari in cerca di un’anima gemella, che troviamo alle ultime pagine dei quotidiani – si converte e cristallizza nell’oralità recitata di un assurdo e cantilenante monologare, per mezzo di altoparlanti installati sulle prime due panchine che inaugurano la Passeggiata: nel ripetersi di questa insistita, quasi commovente banalità, intravediamo un desolato appello ad un dialogo mancato, ad un incontro anelato e mai avvenuto. Continuo a seguire la variopinta segnaletica orizzontale, che mi conduce alla stazione e ad una nuova opera, di sicuro impatto visivo e spaziale. Si tratta dell’ Untitled di Domenico Antonio Mancini, un progetto site-specific che propone una riflessione sulla storia di un luogo, la stazione, forgiato, segnato e costantemente rimodellato dall’azione umana. Il timbro gigante che imprime la scritta “tombato” in corrispondenza di un binario morto, vuole sottolineare questo inarrestabile processo di costruzione, decostruzione e ricostruzione che l’uomo pone in atto, senza sosta, in ogni ambito della sua esistenza. Un’importanza fondamentale è attribuita a quel che resta di questo elaborarsi, mutarsi, distruggersi senza mai cancellarsi del tutto, che in fondo è la Storia stessa. Un “resto”, il binario morto, che l’opera di cui si parla vuol trascinare fuori dalle dinamiche della rimozione, per riportare all’evidenza di chi la fruisce; l’arte si fa testimone del binario sotterrato, medita sulla permanenza di ciò che, nella sua attuale inutilità, non si lascia dimenticare.
Abbandonata la stazione m’incammino verso Via Picara, dove lo sguardo incontra un’altra opera di sapore memoriale, Senza Titolo, di Andrea Liberati. Si tratta di tre pelli affisse sulla superficie irregolare del muro di questa via, le quali riportano a quella originaria dimensione rurale che è la matrice primordiale di Frascati, una matrice ormai difficile a rintracciarsi in quanto prossima alla scomparsa, ma che l’artista riesce, con il suo gesto, a riaffermare. Nel fluire della storia è l’attuale a sovrapporsi all’arcaico: qui l’arcaico, quel che siamo soliti denominare come radici, si fa ricordo visibile, per sovrapporsi all’attualità del luogo civilizzato. Una sovrapposizione indubbiamente forte ed in certo qual modo, forse, provocatoria, ma non violenta. Proseguendo sul sentiero di scritte mi imbatto in Ascolto, di Liliana Moro. L’opera consiste in un’insegna al neon blu fluorescente che rappresenta, in maniera stilizzata ed efficace, un orecchio, installata sulla facciata di un edificio sito in Piazza Bambocci. Con grande finezza evocativa e semantica si vuol dare al palazzo la facoltà umana dell’ascolto, disautomatizzando quella che è la comune percezione di un luogo inanimato, reso attraverso questo artificio retorico in grado, se non di parlare, di recepire i suoni che lo circondano. Mi avvicino alla fine di questo itinerario nell’affrontare l’ultima opera, Mamma non piangere (Appunti per caso #5) , in cui a dominare è proprio il tema della scrittura, della sua valenza catartica impulsiva. Lo sfogo liberatorio a tratti pungente ed ironico, a tratti banale e vivace, raccolto da Stefania Galegati nel corso dei suoi viaggi in Italia e all’estero, in particolare negli Stati Uniti, è oggetto delle proiezioni dislocate in tre diverse zone di Frascati. La prima la troviamo in un luogo di passaggio, il vecchio lavatoio situato nei paraggi della suggestiva San Rocco. Il secondo proiettore è collocato su una mensola nell’Osteria dell’olmo: possiamo vedere le immagini susseguirsi sulla parete retrostante la cassa. Il gabinetto pubblico, luogo inevitabilmente connesso alla quotidianità più “bassa”, ospita il terzo proiettore, suscitando il riso di molti visitatori, i quali si accalcano nel bagno con una curiosità divertita verso ciò che è percepito come insolito, “strano”. Il materiale proiettato amalgama molteplici espressioni dell’esigenza, da parte del singolo individuo, di interpretare la società nella quale vive, con vena spesso deliziosamente polemica, a volte sarcastica ed amara, a volte contrassegnata da una disincantata ilarità. Tali scritte ci narrano storie che esulano dagli stretti confini geografici nostrani coinvolgendo, in una visione critica del presente, riflessioni concernenti la politica contemporanea internazionale; riflessioni che spesso irridono se non apertamente contestano determinate scelte, compiute in ambito internazionale, da alcuni paesi occidentali; il mio viaggio si conclude qui, alla soglia di problemi da discutere e dibattere in altra e differente sede.