Una ventata di Africa nera a Napoli. È quello che si propone di portare la mostra inaugurata il 18 maggio a Castel dell’Ovo, ultimo in ordine cronologico tra quegli eventi che si pongono come obiettivo quello di gettare uno sguardo ai linguaggi artistici extraeuropei, in linea con alcune delle tendenze curatoriali del momento. Africa nera, Africa sub-sahariana. E ventidue artisti provenienti da realtà diverse tra loro, ognuno con un’esperienza differente nei confronti dei modi “occidentali”, che mettono in campo linguaggi artistici eterogenei accomunati da un unico denominatore; il continente di provenienza. Il titolo della mostra, Hic sunt leones, prende spunto da un’espressione in uso presso gli antichi Romani, che stava ad indicare quelle terre sconosciute (e pericolose) nelle quali ci si doveva addentrare con attenzione. È dunque con attenzione critica che ci si rapporta agli artisti in mostra, messaggeri di una cultura artistica per molti versi ancora “sconosciuta”. Ad un primo colpo d’occhio la mostra appare vivace, estremamente colorata e con un quid di ornamentale, secondo dei caratteri che indubbiamente fanno capo ad una tradizione decorativa, non solo per quanto concerne le espressioni prettamente artistiche (nella nostra accezione di pratica artistica), ma anche per quel che riguarda il corpo e l’estrema cura che alcune culture dedicano ad esso. Ai colori della pittura corrispondono però le linee essenziali, geometricamente ben definite, “primitive”, di alcune opere scultoree, in un binomio tra eccesso ed astrazione che già conferisce alla visione d’insieme un carattere del tutto particolare. Gettare uno sguardo sull’arte africana contemporanea vuol dire anche questo; ritrovarsi faccia a faccia con un repertorio figurativo (nel senso più ampio del termine) dai caratteri più vari, dove è difficile servirsi delle chiavi di lettura cui siamo abituati. Ma anche “riscoprire” alcuni materiali accantonati dalla cultura artistica occidentale, o utilizzati senza un preciso riferimento alla tradizione come accade invece in ambito africano; il legno, la terracotta, appaiono nella loro materialità, grezza o trattata, come espressione stessa di un’usanza sedimentata, dalle radici profonde. Arte africana contemporanea; già una dicitura così ampia pone un certo numero di interrogativi, alcuni destinati a restare senza risposta. Innanzitutto ci si chiede quanto è possibile parlare di un’arte africana tout court; per l’arte “europea” o “americana” un’etichetta del genere ci suona improponibile, consci come siamo della varietà di soluzioni adottate dagli artisti, tanto più nell’ arco temporale che investe gli ultimi cinquant’anni di storia. Mostre come Les Magiciens de la terre (Parigi, 1989) o Africa Remix (Parigi, 2005) hanno messo in luce una delle culture artistiche più distanti da noi e, per questo, “sconosciute”; ciò pone sicuramente dei problemi di definizione e circoscrizione geografica ancora non pienamente risolti. Sicuramente fare “di tutta l’arte africana un fascio” appare riduttivo e rischia di accomunare realtà politiche, sociali e dunque artistiche che tra loro non sono affatto così vicine. C’è poi il problema del “contemporaneo” e del “tradizionale”, quest’ultimo spesso accostato al concetto di “autenticità”. Probabilmente si conosce ancora troppo poco dell’arte africana “non-contemporanea” per designare delle opere autentiche, per stabilire dove c’è innovazione e dove invece continuità con la tradizione. Sicuro è che ogni artista affonda le proprie radici in un contesto da cui trae linfa vitale per le sue opere; l’artista africano trae stimolo da una tradizione figurativa impregnata di cultura locale ma che si caratterizza per una grande contemporaneità nei temi trattati. Basti pensare alle opere di Almighty God (nome d’arte di Kwame Akoto), sicuramente tra le più evocative dal punto di vista storico-sociale o a quelle di Jean-Baptiste Ngnetchopa, che sceglie la tecnica tradizionale dell’intaglio del legno ma per scolpire enormi banconote, quasi a dimostrare come il denaro sia stato eletto a nuova divinità. Altra questione che si fa strada è il possibile scambio tra la cultura artistica “occidentale” e quella africana; e questo è strettamente legato alla percezione che l’una ha dell’altra, percezione che è andata cambiando nel corso degli anni e che Franco Riccardo, Enrico Mascelloni e Sarenco riconducono a tre fattori fondamentali: l’immigrazione, il terrorismo, il turismo. L’arte europea, già dalla fine dell”800, guarda con curiosità ed interesse all’aspetto “esotico” dei Paesi altri; esempio eclatante è il trasferimento di Gauguin a Tahiti ma, se vogliamo circoscrivere questo interesse alla cultura africana, è d’obbligo il riferimento alle prime Avanguardie e quindi a Picasso, Brancusi ma anche Modigliani e Giacometti, fino ad arrivare ad alcune esperienze dell’Informale europeo ed americano. Questo ricercato “primitivismo” non costituisce però quasi mai un’adozione degli elementi fondanti delle culture tribali, quanto più un’adozione di forme e schemi, incastonate in poetiche che le piegano alla propria assertiva visione del mondo. L’artista europeo guarda alla bellezza delle forme proprie del retaggio africano ma non se ne impossessa del tutto; guarda a queste come un qualcosa di puro, di incontaminato, di “autentico”, ma non ne indaga gli aspetti più nascosti. La percezione dell’arte africana da parte dell’europeo viene mediata da un filtro storico-culturale che, inconsciamente o meno, ripropone il modello colonizzatore-colonizzato. Da qui il dibattito apertosi in occasione di Les Magiciens de la terre, per certi versi ancora attuale e pronto a fare la sua comparsa in occasione di eventi che nascono e si configurano come “etnici”. Come appare chiaro, i temi di riflessione non mancano; ma, smessi i panni dello studioso e accantonate per un attimo le categorie mentali con le quali spesso ci si approccia alle opere, è sicuramente suggestivo posare lo sguardo su pitture naif che evocano un immaginario vivacissimo, fatto di luci e colori, ma non per questo privo di significati e riferimenti a situazioni reali (emblematiche le opere di Mikidadi Bush o Maurus M. Malikita, entrambi provenienti dalla Tanzania). Sono affascinanti le foto di Ousmane Ndiaye Dago, ritratti di donne che portano in scena il connubio tra corpo femminile, spogliato di un volto e quindi della propria identità, e la terra, madre di tutte le cose, in una preparazione che racchiude un atto performativo incentrato sul mito della fertilità. Ancora pittura, potremmo dire con un accento iperrealista, nelle opere di Richard Onyango e David Ochieng; anche qui le immagini si caricano di un forte significato, nel loro riferirsi al turismo occidentale, uno di quei fattori che fa da fisarmonica tra i due continenti, in un continuo incontro e scontro. Georges Lilanga, forse il più conosciuto in Italia tra gli artisti in mostra, si presenta con opere pittoriche e scultoree, dove protagonisti sono “genietti estroversi e dispettosi”, dalla linea grafica tanto marcata da richiamare Keith Haring e la cultura graffitara (Martina Corgnati nel testo in catalogo). L’uso della terracotta accomuna tre artiste, Seni Camara Amedekpemoulou e Reinata Sadimba, l’uso del cemento caratterizza invece le sculture di Sunday Jack Akpan, ritratti della società nigeriana contemporanea. Di notevole interesse sono le opere di Margaret Majo, realizzate con tappi di bottiglia su tela, uguali nella loro successione seriale ma caratterizzati da un mini-dipinto che si ripete sulla loro superficie in moduli simili, mai identici. Una sorta di Pop che fa uso del riciclaggio, ma con una componente, ancora una volta, intimamente decorativa. Fa capolino con la sua originalità Paa Joe, “inventore di bare a soggetto”, simulacri trash che ripropongono però la forma di sarcofagi antichi. La collezione è ampia, e ci si muove con instancabile attenzione. Mettere insieme “l’arte africana contemporanea” è sicuramente un’operazione problematica e complessa; ma il proposito è affascinante, e può costituire un buon punto di partenza per un’apertura totale all’arte extraeuropea, priva di preconcetti e occasione di dialogo e di confronto su temi storici quanto contemporanei. La “riscoperta” dell’arte africana può ripartire da questo. Hic erant leones.

Dall’alto:

Almighty God, Senza Titolo

George Lilanga, Lilanga anahangalia, smalto su compensato

Jean-Baptiste Ngnetchopa, Reunion cumbre, legno intagliato

Maurus M.Malikita, Senza Titolo, olio su masonite

Ousmane Ndiaye Dago, Femme Terre, foto su PVC

Paa Joe, Bare di petrolio, Legno intagliato e dipinto