Ceal Floyer.
Works on Paper.

A cura di Sergio Edelsztein.
Febbraio – Aprile 2011.
The Center for Contemporary Art, 5 Kalisher St. Tel Aviv. www.cca.org.il Catalogo CCA.

Testi di riferimento:

Sergio Edelsztein, Ceal Floyer: The Prosaics and Poetics of Paper. Catalogo della mostra, ed. CCA, Tel Aviv 2011.

Vittoria Biasi, Architetture del bianco. Viaggio teorico-creativo attorno alle lingue del bianco, Gangemi Editore, Roma 2009.

Francesco Poli, Minimalismo, Arte Povera, Arte Concettuale, Laterza, Bari 1995.

Joseph Kosuth, L’arte dopo la filosofia. Il significato dell’arte concettuale, (1969), trad. it. Costa & Nolan, Genova 1987.

Roland Barthes, Elément de sémiologie, ed. du seuil, Paris 1964.
Ferdinand de Saussure, Cours de linguistique générale, ed. Payot, Paris 1916.

Il Center for Contemporary Art di Tel Aviv, una delle realtà espositive più all’avanguardia nella modernissima città israeliana, presenta una personale dell’artista di origine pakistana Ceal Floyer. La mostra a cura di Sergio Edelsztein, direttore del CCA nonché ideatore della biennale di videoarte israeliana Videozone, espone diversi lavori dell’artista dagli anni Novanta a oggi. Protagonista assoluto, come si evince dal titolo stesso della mostra, è la carta, rigorosamente bianca, presentata nelle sue diverse declinazioni, capace di animare gli spazi con occupazioni minime sul piano fisico, ma di vasto coinvolgimento negli effetti di smaterializzazione e rimaterializzazione dell’arte. La carta come mezzo e messaggio, simbolo codificato di un metalinguaggio fatto di immagini intersensoriali in cui il monocromo assume spesso un significato tautologico. La carta come simbolo della cultura moderna, pagina bianca su cui è stato cancellato qualcosa, o forse su cui si sta per incidere un capolavoro. Ad ogni modo, la carta richiede comunque un gesto che dovrebbe definire, o ridefinire, la sua funzione. Ed è proprio questo gesto che riassume tutto il lavoro di Ceal Floyer che sembra fare eco alle ricerche Fluxus, alla filosofia del linguaggio di de Saussure, ai ready-made duchampiani, alla Minimal Art e all’Arte Contettuale, nel suo tentativo di enfatizzare il processo di pensiero in modo quasi esclusivo.
Le sue installazioni, pur essendo minimali, pongono tutte l’attenzione sugli oggetti, i suoni, le luci, le immagini e i titoli, provocando interrogativi sull’assurdità della vita quotidiana. In Diptych (2011), Floyer traccia una linea perforata su un foglio di carta suggerendo allo spettatore il significato del lavoro: strappare la linea per trasformare l’opera in un dittico. Il titolo dunque non solo spinge all’azione ma sottolinea l’importanza del gesto performativo. Allo stesso modo, un altro lavoro, Ink on Paper, video del 1999, registra il gesto effettivo che consiste semplicemente nello scaricare un pennarello su un foglio di carta assorbente. Il titolo di per sé risulta essere un ossimoro, visto che un lavoro non può essere allo stesso tempo un video e un lavoro su carta. Ed è qui che il significante e il significato, le componenti del segno, assumono diversi gradi di realtà.
In Ongoing Projection (2001) le pagine di un taccuino girano da destra a sinistra, in accordo con la direzione di lettura della lingua ebraica. Questa proiezione video è posizionata nell’angolo in cui si incontrano i due muri della sala espositiva, facendo combaciare perfettamente la linea perpendicolare all’apertura del taccuino che diviene così architettura immateriale/reale di geometrie visive. Le pagine del libro sono vuote e questo provoca ancora una volta un cortocircuito nell’atteggiamento dello spettatore che non ha niente da leggere, né tantomeno da sfogliare, visto che si tratta di una proiezione. Succede allora che l’azione si riduce nel tempo che passa vedendo girare le pagine scandite dal rumore della stessa proiezione e nell’incontro tra la materia e la luce. Il lavoro si risolve nell’espressione del comportamento individuale, sia da parte dell’autore, sia da parte dell’osservatore, mentre il significato diviene rappresentazione psichica dell’oggetto riprodotto.
Con Monocrhrome Till Receipt (White), Floyer sposta il proprio obiettivo dalla forma del linguaggio a quanto viene detto. L’opera, la cui prima versione risale al 1999 con l’idea di essere prodotta in ogni paese in cui viene mostrata, consiste in uno scontrino che elenca diversi prodotti acquistati. La particolarità sta nel fatto che tutta la merce descritta è di colore bianco: farina, sale, latte, riso e così via. Anche in questo caso, dunque, il titolo è esplicativo ed introduce un’analisi della realtà che ha come fine quello di creare un’arte che sappia definirla, nelle sue esperienze di vita quotidiana, tanto concettualmente quanto linguisticamente. Floyer vuole dirci che quello non è un semplice scontrino, ma il risultato di una spedizione commerciale minimalista, una specie di performance in cui l’artista ha acquistato solo gli elementi che erano di colore bianco. Lo scontrino si presenta dunque come documento performativo, nero su bianco, che sono poi i colori minimal-concettualisti.
Mousehole (1994) è invece un’installazione caratterizzata da un foglio bianco con sopra disegnata l’entrata della tana di un topo. L’artista sembra voler rappresentare ancora una volta lo spazio in molteplici direzioni, giocando ironicamente sui differenti modi di percezione e non mostrando alcun tentativo di nascondere la natura illusoria di questa opera: il cartoncino su cui è disegnata la tana, benché sia bianco come la parete su cui è addossato, è tuttavia ben visibile. Floyer sembra voler chiedere al pubblico di prestare attenzione agli spazi e ai momenti che percepiamo come reali, rifiutando chiaramente un’idea di spettacolarità visuale. Ancora una volta l’artista rinegozia il rapporto col quotidiano, ne rivede le prospettive e riapre la questione dell’ovvio come avviene in Order (2007), dove l’artista posiziona delle schede in ordine alfabetico ma disposte in maniera diagonale, seguendo un’idea volutamente assurda di ordine formale che contrasta con il gioco linguistico Ceal Floyer crea opere-concetti che esprimono contemporaneamente la materialità dell’oggetto e l’immaterialità dell’idea. I suoi lavori minimalisti, composti da oggetti semplici, quotidiani e familiari, sottendono in realtà ad un significato più complicato ma sempre velato da una forte carica ironica costruita sulle parole e i loro significati.

Ceal Floyer, nasce in Pakistan nel 1968, vive e lavora a Berlino. Diplomata in Fine Art al BA Goldsmiths College di Londra. Sue mostre personali sono state presentate alla Kunsthalle di Berna (1999); all’Ikon Gallery di Birmingham (2001); alla Contemporary Art Gallery di Vancouver (2005); allo Swiss Institute di New York (2006); al MADRE di Napoli (2008); al Palais de Tokyo di Parigi (2009) e al MOCA di Miami (2010). Nel 1997 espone per la prima volta alla Lisson Gallery, seguiranno le mostre del 2002 e del 2006, entrando così definitivamente a far parte della scuderia degli artisti della prestigiosa galleria londinese. Nel 2007 è la vincitrice del Nationalgalerie Prize for Young Art, prestigioso premio per giovani artisti. Nel 2009 ha partecipato alla 53. Biennale di Venezia.

Dall’alto:

Ink on Paper, 1999. Video, DVD on monitor

Ongoing Projection
, 2001. Installazione video


Monochrome Till Receipt (White)
, 1999. Inchiostro su carta, spray applicato su muro


Monochrome Till Receipt (White)
, 2011. Inchiostro su carta, spray applicato su muro


Mousehole
, 1994. Installazione, inchiostro su carta


Order,
2007. Assemblage


Trash
, 2005. Proiezione video