NOTE:

 [1] D. W. Winnicott, La distorsione dell’Io in rapporto al vero ed al falso Sé, in D. W. Winnicott (1965), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma 1970, pag. 180.

[2] D. W. Winnicott, La distorsione dell’Io in rapporto al vero ed al falso Sé, op. cit., pag. 188.

[3] ibid., pag. 186.

[4]J. Le Goff (1999), Francesco d’Assisi, Laterza, Bari 2000, pag. 29.

[5] Tommaso da Celano, Vita seconda di San Francesco d’Assisi, in E. Caroli (a cura di), Fonti Francescane, Ed. Messaggero, Padova 1999, pag. 556.

[6] Bonaventura (san) da Bagnoregio, Leggenda maggiore, in E. Caroli (a cura di), Fonti Francescane, Ed. Messaggero, Padova 1999, pag. 834.

[7] Matteo 17, 11-13; vedi anche Marco 9, 12-13.

[8] C. Frugoni, Francesco e l’invenzione delle stimmate, Einaudi, Torino 1993, pag.30.

[9] Francesco d’Assisi (1226), Testamento, in E. Caroli (a cura di),Fonti Francescane, Ed. Messaggero, Padova 1999, pag. 131.

[10] Anonimo, Leggenda dei tre compagni, in E. Caroli (a cura di),Fonti Francescane, Ed. Messaggero, Padova 1999, pag. 1074-1075.

[11] Matteo 11, 7-11; Luca 7, 24-28.

[12] In termini analitici si parla di “ritiro della proiezione”. Lo stesso Francesco nelle sue Ammonizioni afferma: “Ci sono molti che, mentre peccano o ricevono un’ingiuria, spesso incolpano il nemico e il prossimo. Ma non è così: poiché ognuno ha in sua podestà il nemico, cioè il corpo, per mezzo del quale pecca. Perciò è beato quel servo che terrà sempre prigioniero il nemico affidato alla sua podestà e sapientemente si custodirà dal medesimo; poiché, finché farà questo, nessun altro nemico visibile o invisibile gli potrà nuocere.” (Francesco d’Assisi, Ammonizioni, in E. Caroli (a cura di), Fonti Francescane, Ed. Messaggero, Padova 1999, pag.142.

[13] Tommaso da Celano, Vita prima di San Francesco d’Assisi, in E. Caroli (a cura di), Fonti Francescane, Ed. Messaggero, Padova 1999, pag.415.

[14 ] Tommaso da Celano, Vita seconda di San Francesco d’Assisi, in E. Caroli (a cura di), Fonti Francescane, Ed. Messaggero, Padova 1999, pag. 557.

[15] Anonimo, Leggenda dei tre compagni, in E. Caroli (a cura di), Fonti Francescane, Ed. Messaggero, Padova 1999, pag. 557.

[16] San Bonaventura da Bagnoregio, Leggenda maggiore, in E. Caroli (a cura di), Fonti Francescane, Ed. Messaggero, Padova 1999, pag. 841. Bonaventura si riferisce ad un episodio accaduto il giorno precedente che vide Francesco regalare i propri vestiti ad un cavaliere nobile ma caduto in disgrazia. Nella Leggenda minore di San Bonaventura la versione del sogno sostanzialmente non cambia.

[17] Angelo, Leone, che avevano conosciuto molto bene Francesco. La Leggenda dei tre compagni che noi conosciamo “non è probabilmente l’originale indirizzato a Tommaso da Celano, ma verosimilmente una compilazione del principio del XIV secolo..” J. Le Goff (1999), San Francesco d’Assisi, Laterza, Bari 2000, pag. 27.

[18] Tommaso da Celano, Vita seconda di San Francesco d’Assisi, in E. Caroli (a cura di), Fonti Francescane, Ed. Messaggero, Padova 1999, pag. 558.

[19] Ricordo che secondo Freud l’elaborazione secondaria del sogno è il procedimento mentale diretto a dare al sogno una trama ed una forma ai pensieri onirici tali che siano più coerenti e comprensibili da parte della coscienza.

[20] Tommaso da Celano, Vita prima di San Francesco d’Assisi, in E. Caroli (a cura di), Fonti Francescane, Ed. Messaggero, Padova 1999, pag. 422. A dire il vero la cronologia degli eventi raccontata dai biografi è incerta. Nella Vita prima di Tommaso da Celano l’incontro di Francesco con i lebbrosi avviene dopo l’atto di svestizione davanti al vescovo. Negli altri racconti la sequenza degli eventi è invertita. Questa seconda ipotesi è la ritengo più plausibile non solo perché più consona alla tesi da me sostenuta in questo scritto, ma soprattutto perché è proprio Francesco che nel suo Testamento pone gli eventi in questa successione. Lì afferma, infatti, che “uscì dal mondo” dopo essersi allontanato dai lebbrosi. Vedi il testo citato nelle pagine precedenti.

[21] Utilizzo in questo scritto il termine “Persona” con il significato che Jung ha dato a questo termine. La “Persona”, secondo Jung, è un segmento della psiche collettiva, una maschera che simula l’individualità. È, in altre parole, ciò che un individuo appare nella società: “L’individuo prende un nome, acquista un titolo, occupa un impiego, ed è questa o quella cosa. In un certo senso ciò è reale, ma in rapporto all’individualità di un soggetto in questione è come una realtà secondaria, un mero compromesso, a cui talvolta altri partecipano ancor più di lui. La Persona è un’apparenza, una realtà bidimensionale…”. G. Jung (1928), L’Io e l’inconscio, in Opere Vol. VII, Boringhieri, Torino 1983, pag. 155-156.) La “Persona” è, dunque, quel tratto di personalità mediante il quale, in senso positivo, l’individuo stabilisce le sue relazioni sociali. Inizialmente la coscienza dell’Io si identifica con la Persona, ma difficoltà nascono quando l’identificazione con il ruolo fa perdere il contatto con la realtà interiore ed esterna. Quando, ad esempio, un capoufficio continua a svolgere il suo ruolo in tutte le situazioni. Una parte adatta sul lavoro, ma che inficia le capacità relazionali con gli amici, con la famiglia, e infine con sé stesso. Non è da escludere che la deformazione dell’Io-Persona sia anche da rintracciare nella eventualità che l’individuo subisca una “proiezione d’Ombra” da parte delle figure parentali. In questo caso sono i lati oscuri e negativi della personalità dei genitori che distorcono la personalità del bambino che cresce come una pianta all’ombra di altre più grandi. Il suo tenero fusto si contorce in cerca della luce. In tal senso il concetto di Persona è da porsi in relazione al teorema del “falso Sé” di Winnicott. Afferma Jung: “Sebbene la coscienza dell’Io si identifichi inizialmente con la Persona, cioè quella figura di compromesso sotto la quale ciascuno appare di fronte alla collettività e rappresenta la sua parte, tuttavia il Sé inconscio non può venire talmente rimosso da non farsi notare. L’atteggiamento puramente personale della coscienza provoca reazioni da parte dell’inconscio, le quali contengono, accanto alle rimozioni personali, appigli per lo sviluppo individuale, sotto l’involucro di fantasie collettive…” (C. G. Jung (1928). L’Io e l’inconscio, in Opere Vol. VII, Boringhieri, Torino 1983, pag. 156.) È quanto stiamo cercando di dimostrare in questo lavoro.

[22] Tommaso da Celano, Vita prima di San Francesco d’Assisi, in E. Caroli (a cura di), Fonti Francescane, Ed. Messaggero, Padova 1999, pag. 429.

[23] Matteo 10, 5-15.

[24] Francesco d’Assisi, Testamento, in E. Caroli (a cura di), Fonti Francescane, Ed. Messaggero, Padova 1999, pag. 132.

[25] Matteo 3, 7-10.

[26] J. Le Goff (1999), San Francesco d’Assisi, Laterza, Bari 2000, pag. 42.

[27] C. Frugoni, Francesco e l’invenzione delle stimmate, Einaudi, Torino 1993, pag. 20.

[28] Regola non Bollata, in E. Caroli (a cura di), Fonti Francescane, Ed. Messaggero, Padova 1999, pag. 103.

[29] J. Le Goff (1999), San Francesco d’Assisi, Laterza, Bari 2000, pag. 52.

[30] Dal punto di vista del disegno archetipo che mira a chiudere l’esperienza, affinché “tutto sia compiuto”, la sostanza non cambia anche se prendessimo in considerazione l’opportunità di una tendenza inconscia di frate Elia ad andare incontro alla scomunica. Proprio perché, in quanto archetipo, si tratta di una determinazione sovrapersonale, che riguarda la trasformazione della coscienza non solo individuale ma collettiva. In tal senso, con la “scomunica” le forze ctonie e distruttive hanno trovato una via simbolica di soddisfacimento.

[31] Teresa Macrì, Il corpo postorganico, Costa & Nolan, Milano 1996, pag. 13.     

[32] Ho discusso di questo argomento nel capitolo Il processo creativo nel mio saggio Il cavallo di Ulisse, tra Freud e Jung un progetto per la psicologia dell’arte, Franco Angeli Ed., Milano 2000. 

Winnicott ha coniato l’espressione “falso Sé” per definire quelle personalità che sviluppano un adattamento alle richieste ambientali per difendere il “vero Sé” dal pericolo di distruzione. Ne risulta una distorsione dell’Io che porta l’individuo a vivere un’esistenza falsa, come un attore che indossa la maschera che caratterizza il suo ruolo. Fino a quando queste persone riescono a recitare la parte appaiono agli altri come individui abbastanza integrati. Non possono poi che suscitare scalpore e meraviglia quando, pur essendo magari persone di successo nella società, cambiano rotta e disattendono quanto sembravano promettere determinando a volte la propria distruzione. Le personalità con un “falso Sé” hanno la sensazione di non esistere, di essere irreali e percepiscono la loro vita come futile ed inutile. Esse permangono in quello stato di “identità familiare” che non permette loro di nascere come persone libere e capaci di amare. Secondo Winnicott il “falso Sé” ha la funzione di “nascondere e proteggere il vero Sé, qualunque sia.” [1] Il “falso Sé”, inoltre, ha come preoccupazione principale quella di cercare le condizioni che permettano al “vero Sé” di manifestarsi:“Il falso Sé, se ha successo nella sua funzione, nasconde il vero Sé, oppure trova un modo per permettere al vero Sé di cominciare a vivere.”[2] È su questo piano che possiamo comprendere l’importanza che il “falso Sé/Francesco” ha dato allo scopo di “imitare Cristo”: 

Nei casi di estremo sviluppo del falso Sé, il vero Sé è così ben nascosto che la spontaneità non è un aspetto delle esperienze vitali dell’infante, bensì la compiacenza domina la scena e l’imitazione diventa una specialità. Quando non è presente un eccessivo grado di scissione nella persona dell’infante, questo può avere una vita quasi personale tramite l’imitazione e, una volta bambino, può perfino recitare un ruolo speciale, quello del vero Sé come sarebbe se fosse esistito veramente. [3] 

Si potrebbe allora pensare che la “imitazione di Cristo” sia stata la modalità attraverso la quale il “falso Sé/Francesco” abbia dato al “vero Sé/Giovanni Battista” l’opportunità di emergere. Si narra che Giovanni Battista Bernardone (1181-1226) nacque mentre suo padre, un ricco mercante di stoffe in Assisi, era in Francia per un viaggio d’affari. In sua assenza, Giovanni Battista fu il nome impostogli dalla madre. Sul cambiamento del nome in “Francesco” sono state avanzate diverse ipotesi: la modifica del nome da parte del padre al suo ritorno dalla Francia, paese di cui avrebbe dato il nome al neonato; l’omaggio reso a sua madre che sarebbe stata francese o, il soprannome che gli sarebbe stato dato in giovinezza a causa del suo entusiasmo per la lingua francese. Quest’ultima, secondo Le Goff, sembra l’ipotesi più verosimile: “il francese, che Francesco aveva appreso prima della conversione, in quanto lingua per eccellenza della poesia e dei sentimenti cavallereschi, continuò ad essere la lingua delle sue intime effusioni.” [4] In ogni caso siamo di fronte ad una “doppia identità”, i nomi Francesco e Giovanni Battista identificano lo stesso corpo e la stessa mente e, dal punto di vista psicologico, si potrebbe avanzare l’ipotesi di due “personalità” che abitano lo stesso individuo. Ipotesi che potrebbe darci una importante chiave di lettura sulle vicissitudini interiori e del comportamento del poverello di Assisi. Sappiamo che Francesco ebbe una particolare devozione per Giovanni Battista, il santo del deserto, della predicazione e dell’annunciazione. L’ac­costamento di Francesco d’Assisi al profeta Giovanni Battista non è certo nuovo e probabilmente non è dovuto soltanto all’omonimia. È che quel nome, Giovanni Battista, deve aver avuto per Francesco una rilevante funzione interiore. E, ricordiamolo ancora, per la psicologia inconscia il nome non è soltanto un’etichetta di uso e consumo sociale, ma è l’essenza della personalità. Anche per gli scritti biblici il nome non è soltanto una convenzione, ma esprime la funzione di un essere nell’universo e la segreta vocazione di una persona. Già Tommaso da Celano nella sua Vita seconda di San Francesco d’Assisi fece della madre di Francesco una seconda Elisabetta, e di lui scrisse che “…il nome di Giovanni conviene alla missione che poi svolse, quello invece di Francesco alla sua fama, che ben presto si diffuse ovunque, dopo la sua piena conversione a Dio. Al di sopra della festa di ogni altro santo, riteneva solennissima quella di Giovanni Battista, il cui nome insigne gli aveva impresso nell’animo un segno di arcana potenza.”[5] Una coincidenza, Celano aggiunse, degna di essere sottolineata. Anche San Bonaventura da Bagnoregio nella Leggenda maggiore fa di Francesco il nuovo Battista, e nel Prologo scrive che “egli è stato inviato fra noi con lo spirito e la potenza di Elia.”[6] Dai Vangeli apprendiamo, infatti, che Gesù parlando di Giovanni Battista lo apostrofò come il nuovo Elia: “Tutti i profeti e tutta la legge di Mosè hanno parlato del regno di Dio, fino al tempo di Giovanni. E se volete credermi, è Giovanni quel profeta Elia che deve tornare. Chi ha orecchi, cerchi di capire!” E più oltre Gesù afferma: “È vero che deve venire Elia per mettere ordine in ogni cosa. Vi assicuro però che Elia è già venuto, ma non l’hanno riconosciuto e gli hanno fatto quel che hanno voluto. Perciò faranno soffrire anche il Figlio dell’uomo. Allora i discepoli capirono che aveva parlato di Giovanni il Battezzatore.”[7] La relazione di vicinanza tra Francesco d’Assisi ed il profeta Giovanni Battista la ritroviamo anche, come fa notare Chiara Frugoni, nelle immagini più antiche che ritraggono Francesco:

…nelle immagini Francesco è spesso accostato al Battista: cito ad esempio un pannello frammentario appartenente alla collezione Alwick del duca di Northumberland dell’inizio del Trecento, diviso in una serie di riquadri con protagonisti alcuni santi ed episodi della loro vita; Francesco è rappresentato sulla Verna mentre appare nel cielo il Serafino; assiste alla scena il Battista con il suo cartiglio su cui è scritto: “Ecce qui tollit peccata mundi”. Ancora sono uniti l’uno accanto all’altro, Francesco inginocchiato davanti al Serafino e il Battista con il suo cartiglio, nella pala di Giuliano da Rimini, datata 1307, conservata all’Isabelle Stewart Gardner Museum di Boston. [8]

Se consideriamo queste labili tracce come residui di una civiltà perduta potremmo forse ricostruire la figura di Francesco d’Assisi spogliato dal­l’alone cucitogli addosso dagli interessi secolari e dalle naturali coloriture che dipingono il volto di un mito. L’ipotesi è che la personalità di Francesco prima della conversione si sia sviluppata intorno ad un nucleo di identità che corrispondeva alle richieste familiari e collettive consone al­l’epoca ad un giovane brillante della cittadina di Assisi e figlio di un ricco mercante. Come “Francesco” non era il suo vero nome, allo stesso modo la personalità che appariva agli occhi del mondo era letteralmente un abito che copriva la sua vera natura. Dopotutto, il suo vero nome era “Giovanni Battista”, l’uomo del battesimo, figura che rimase sullo sfondo della psiche di Francesco e che probabilmente fece sentire il suo richiamo attraverso le vie che l’inconscio ha per accedere alla coscienza, e cioè i sogni, le visioni, le intuizioni, le “voci”. Sappiamo, infatti, che quanto più l’Io-coscienza si distacca dalle radici interiori, tanto più le richieste inconsce trovano altre strade per esprimersi: mediante “segni” e “sintomi” che parlano attraverso il corpo, i comportamenti, le immagini. L’ipotesi su cui stiamo lavorando è dunque la seguente: l’io di Francesco prima della conversione si è identificato con quei tratti di personalità parentali e collettivi che gli assegnavano un ruolo ed un disegno di vita che lo allontanavano dalle radici della sua vera natura interiore. Una condizione che ha fatto sì che si costellasse a livello inconscio un archetipo riconducibile alla figura di Giovanni Battista. Personaggio, quest’ultimo, associato nelle sacre scritture al profeta Elia. Di conseguenza la nostra ricerca è tesa a ritrovare e seguire, attraverso le fonti che sembrano più attendibili, le tracce di tale archetipo che hanno tratteggiato la vita e l’opera di Francesco d’Assisi, svelandone, fin dove è possibile, l’evoluzione dinamica e dialettica tra le istanze consce ed inconsce della personalità. Un altro punto credo sia importante ricordare, e cioè che ciò che è inconscio si presenta alla coscienza attraverso diverse forme, siano essi sogni, visioni, sintomi somatici, comportamenti, lapsus, motti di spirito, e così via. Di fondamentale importanza è dunque l’atteggiamento che la coscienza può assumere di fronte a tali “segni”, che può essere di apertura o di chiusura, provocandone perciò una differente evoluzione e maturazione. È lecito a questo punto domandarsi su quali basi fondiamo la nostra idea. La risposta è: sull’unico, e perciò principale, indizio biografico che ci è pervenuto attraverso gli scritti di Francesco e che riguarda la sua vocazione. Mi riferisco all’incipit del suo Testamento (1226) dove è scritto:

Il Signore concesse a me, frate Francesco, d’incominciare così a fare penitenza, poiché, essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo.[9]

L’incontro con i lebbrosi è, dunque, il momento “illuminante” per la sua vocazione e conversione. Ne è prova l’aver citato il fatto all’inizio del suo Testamentoe che rimane il solo che ci sia pervenuto direttamente da Francesco. La lebbra (o malattia di Hansen) è una malattia batterica (“My­cobatterium leprae” o “bacillo di Hansen”) e come tale, perciò, provoca alterazioni dei tessuti corporei. Le più visibili sono quelle che interessano le pelle, macchie, noduli, tubercoli, e altre lesioni cutanee che trasformano l’aspetto di chi si ammala. La lebbra non è soltanto una malattia dermatologica, ma una malattia sistemica che può provocare orribili conseguenze. L’interessamento dell’apparato nervoso, ad esempio, provoca dolori indescrivibili e poi deficit motori e sensitivi. Le dita della mano possono essere addirittura riassorbite, le secrezioni nasali diventano spesse, mucopurulente e a volte sanguinano. Il setto nasale si distrugge, la punta del naso cade a mò di proboscide. Le infezioni secondarie producono un odore fetido. Non è difficile perciò immaginare il senso di naturale repulsione che si può avere alla vista di tali “mostruosità”. Il medesimo invincibile ribrezzo che anche Francesco aveva provato. Allora che cosa è successo in lui di tanto importante da fargli cambiare atteggiamento? La pelle è l’organo più esteso del nostro corpo, è il “vestito” che il nostro corpo indossa, è il mezzo attraverso cui prendiamo contatto con la realtà esterna. È la parte fisica che più facilmente può alludere al tratto di personalità più visibile all’esterno e, quando questa è disturbata, al “falso Sé”. Mediante i lebbrosi Francesco prende contatto con la malattia della sua “pelle”, quell’esteriorità marcia dalla quale nasce il suo ribrezzo. Il lebbroso è stato probabilmente oggetto di una identificazione proiettiva attraverso cui Francesco si accorge della sua falsa esistenza. Si rende conto di quanto repellente fosse un lato della sua personalità, quel condurre un tenore di vita cavalleresca e di imitazione del comportamento dei nobili:

Un giorno che stava pregando fervidamente il Signore, sentì dirsi: “Francesco se vuoi conoscere la mia volontà, devi disprezzare e odiare tutto quello che mondanamente amavi e bramavi possedere. Quando avrai cominciato a fare così, ti parrà insopportabile e amaro quanto per l’innanzi ti era attraente e dolce; e dalle cose che una volta aborrivi, attingerai dolcezza grande e immensa soavità”.

Felice di questa rivelazione e divenuto forte nel Signore, Francesco, mentre un giorno cavalcava nei paraggi di Assisi, incontrò sulla strada un lebbroso. Di questi infelici egli provava un invincibile ribrezzo; ma stavolta, facendo violenza al proprio istinto, smontò da cavallo e offrì al lebbroso un denaro, baciandogli la mano. E ricevendo un bacio di pace, risalì a cavallo e seguitò il suo cammino. Da quel giorno cominciò a svincolarsi dal suo egoismo… [10]

Non c’è dubbio che si trattasse di una “presa di coscienza” tanto che Francesco raccontava ad un suo amico di avere scoperto un grande e prezioso tesoro. Prendendosi cura dei lebbrosi Francesco accudiva anche la parte della sua anima malata e sofferente. Si rese conto che l’abito che indossava era fasullo, marcio e soffocava la sua natura più profonda. Il parallelo inconscio della personalità di Francesco che cerca di farsi spazio lo ritroviamo nel Vangelo quando Gesù parlando del Battista afferma: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? una canna agitata dal vento? No. Che cosa allora? Un abito vestito con abiti di lusso? Ma quelli che portano abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, ve lo dico io, qualcosa di più di un profeta. Nella Bibbia Dio dice di lui: Io mando il mio messaggero davanti a te: egli ti preparerà la strada. Anzi vi assicuro che tra gli uomini nessuno è stato più grande di Giovanni il Battezzatore. Eppure il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui…” [11] È chiara ormai la tensione tra il “falso Sé/Francesco” che indossa abiti cuciti con le lussuose stoffe del padre e la voce interiore dell’archetipo del Battista che “vive nel deserto e indossa un vestito fatto di peli di cammello e una cintura di cuoio attorno i fianchi ”. A questo punto, se utilizzassimo il modello edipico di sviluppo psichico proposto da Freud, sarebbe il caso di introdurre l’idea di una “ambivalenza” dei sentimenti di Francesco nei confronti dell’imago paterna. L’odio inconscio diretto verso il genitore dello stesso sesso è indirizzato verso tutto ciò che il padre terreno rappresenta (“devi disprezzare e odiare tutto quello che mondanamente amavi e bramavi possedere”), compresa quella parte di sé che si è costruita attraverso i processi di identificazione col padre, quella parte che ad un certo punto l’io di Francesco percepisce come “falso Sé”, mentre tutto l’amore è trasferito sul Padre celeste. La stessa ambivalenza che perciò troviamo volta verso il proprio corpo, corpo che da un lato è l’origine del peccato e va disprezzato (falso Sé), perché la carne ci separa da Dio, mentre dall’altro è un dono di Dio e come tale va custodito e amato. In ogni caso, una volta che l’io di Francesco ha preso coscienza dei falsi ideali e dei falsi scopi che stava inseguendo, il processo di conversione rivelatosi attraverso l’esperienza di empatia avuta con i lebbrosi, dovrebbe essere visto come uno “spogliarsi”, una liberazione, una presa di distanza da quegli aspetti che lo allontanavano dal proprio mondo interiore. L’attenzione di Francesco è ormai volta alle voci che risuonano dal­l’interno e che lo spingono a ricercare un modello di vita che lo avvicini al disegno divino del Sé. L’imitazione di Cristo, il vivere il Vangelo alla lettera è un esercizio cosciente e volontario utile a costruire un’altra identità sociale, un’altra Persona per dirla con Jung, che più lo avvicina al complesso inconscio che gira intorno alla figura del suo vero nome, Giovanni Battista. È la modalità che l’io di Francesco trova per sanare la frattura tra l’uomo esteriore e l’uomo interiore. Se l’incontro con i lebbrosi è il momento in cui la coscienza di Francesco si illumina, è l’esperienza attraverso la quale egli si accorge che ciò di cui bisogna aver ribrezzo non è fuori di lui, ma dentro di lui[12], nelle notizie biografiche che riguardano la vita di Francesco troviamo alcune informazioni che chiariscono le tappe di avvicinamento a tale “presa di coscienza”. Nel 1204 Francesco si ammala per diversi mesi. Non sappiamo di che malattia si tratti, ma fino alla sua morte Francesco soffrirà di un male agli occhi e all’apparato digerente. Malattie che per Francesco diventeranno “sorelle”, proprio perché probabilmente capì che è attraverso la sofferenza fisica che noi conosciamo il “valore della nostra pelle”, del nostro corpo, di “sorella Morte”. E non è da escludere che la componente psichica (inconscia) della sofferenza fisica abbia trovato così il modo di bussare alle porte della sua coscienza. Si suppone che Francesco deve aver così cominciato a riflettere sul destino umano e sul “senso della vita”. All’anno seguente, il 1205, si fa risalire l’episodio che vede Francesco prepararsi a partire per la Puglia, accompagnandosi ad un nobile cavaliere assisano in cerca di fortuna. Prima di avviarsi Francesco ha un sogno. Nella prima versione biografica di Tommaso da Celano si legge:

Gli sembrò di vedere la casa tappezzata di armi: selle, scudi, lance e altri ordigni bellici, e se ne rallegrava grandemente, domandandosi stupito cosa fosse. Il suo sguardo infatti non era abituato alla visione di quegli strumenti in casa, ma piuttosto a cataste di panno da vendere.[13]

Nella seconda versione Tommaso da Celano scrive:

… gli appare in visione uno splendido palazzo, in cui scorge armi di ogni specie ed una bellissima sposa. Nel sonno, Francesco si sente chiamare per nome e lusingare con la promessa di tutti quei beni.[14]

Nella Leggenda dei tre compagni lo stesso sogno è raccontato così:

Stava dormendo quando gli apparve uno che, chiamatolo per nome, lo condusse in uno splendido solenne palazzo, in cui spiccavano, appese alle pareti, armature da cavaliere, splendidi scudi e simili oggetti di guerra. Francesco, incantato, pieno di felicità e di stupore, domandò a chi appartenessero quelle armi fulgenti e quel palazzo meraviglioso. Gli fu risposto che tutto quell’apparato insieme al palazzo era di proprietà sua e dei cavalieri.[15]

Nella Leggenda maggioreSan Bonaventura scrive la sua versione:

…mentre dormiva, la Bontà di Dio gli fece vedere un palazzo grande e bello, pieno di armi contrassegnate con la croce di Cristo, per dimostrargli in forma visiva come la misericordia da lui usata verso il cavaliere povero, per amore del sommo Re, stava per essergli ricambiata con una ricompensa impareggiabile.[16]

Ora, non dobbiamo meravigliarci che i racconti dello stesso sogno differiscano l’una dall’altra. Dopotutto anche se fosse il sognatore stesso a riscrivere più volte a distanza di tempo una propria visione notturna quasi certamente troveremmo delle variazioni che sarebbero interessanti da interpretare. Il fatto è che non siamo sicuri che tali modifiche provengano dal sognatore stesso, anzi più forte è il sospetto che gli elementi dissonanti nelle diverse versioni del sogno siano state introdotte dai biografi stessi, più o meno consapevoli di farlo. È vero che perdiamo delle informazioni che potrebbero essere importanti, ma se eliminiamo tutto ciò che non concorda nei racconti di questo sogno di Francesco nelle diverse stesure, ciò che resta è probabilmente il nucleo della visione notturna che possiamo ritenere più attendibile. Compiuta questa operazione, ci troviamo di fronte ad una situazione simile: Francesco è in una casa o un palazzo e vede attrezzatura di guerra. Limitiamoci ad analizzare questa condizione. In tutte le versioni Francesco vede delle armi. Il fatto che venga utilizzata l’azione del “vedere” è significativa perché la percezione visiva è lo strumento migliore che l’uomo ha per prendere contatto con la realtà che non è a portata di mano. Ciò significa che tra l’io del sognatore, Francesco, e gli oggetti di guerra si è creata una distanza. Francesco non indossa un’armatura, non impugna una spada, non si difende con uno scudo. Francesco guardando le armi comincia ad oggettivare quella parte di sé che esse rappresentano, la vita di cavaliere. Ciò che possiamo supporre è che nel sogno si è creato uno spazio che divide l’io di Francesco da quella parte ideale di sé che le armi rappresentano. A maggior ragione se è vero che si trattava di armature, l’abito del guerriero, non è difficile pensare che gli occhi di Francesco comincino a vedere quel guscio corazzato esterno di cui è fatta la sua vita, metallo che luccica, ma non è argento, non è oro, è “falso Sé”. Francesco, inoltre, si trova in una casa o in un palazzo. L’io di Francesco è contenuto in qualcosa di più grande, il Sé, la totalità della psiche, di cui non è ancora consapevole. Ora, se dal sogno possiamo dedurre che il sognatore a questo punto è letteralmente “in Sé”, e non “fuori di Sé”, adesso sarebbe proprio il caso di chiedersi: “l’io è padrone in casa sua?”.Sicuramente no, risponderebbe chi conosce la psicologia del profondo. È di questo che Francesco non è ancora consapevole. A parte la narrazione più tarda di San Bonaventura, sembra che Francesco nel sogno abbia un dubbio circa la proprietà di quel palazzo e di quelle armi. È certo che ogni elemento del sogno appartiene al sognatore stesso. Ma tra le diverse istanze che governano la nostra vita psichica chi è il padrone? È questo il dilemma che il sogno lascia in sospeso. Francesco è ancora incerto, ma la sua titubanza si risolve nel sogno successivo dove la questione si fa più chiara. Secondo quanto apprendiamo dalla storia, la descrizione di questo secondo sogno più vicina al vero dovrebbe essere quella riportata da Tommaso da Celano nella Vita seconda raccontatagli dai “tre compagni”[17]:

E infatti un’altra notte, mentre dorme, sente di nuovo una voce, che gli chiede premurosa dove intenda recarsi. Francesco espone il suo proposito, e dice di volersi recare in Puglia per combattere. Ma la voce insiste e gli domanda chi ritiene possa essergli più utile, il servo o il padrone.

“Il padrone”, risponde Francesco.

“E allora – riprende la voce – perché cerchi il servo in luogo del padrone?”.

E Francesco: “Cosa vuoi che faccia, o Signore?”.

Ritorna – gli risponde il Signore – alla tua terra natale, perché per opera mia si adempirà spiritualmente la tua visione”.[18]

Ciò che possiamo notare nella narrazione del sogno è che nella prima parte il dialogo è tra Francesco ed una “voce”, mentre nella seconda questa “voce” acquista un’identità: è quella del Signore. Non sapremo mai se effettivamente la scena completa del sogno sia stata quella su riportata. La perplessità è che il secondo frammento del sogno raccontato da Tommaso da Celano soddisfi l’esigenza di giustificare la “chiamata” di Francesco alla santità da parte del Signore e a dare una spiegazione divina della sua vocazione, ma questa è una questione che riguarda la fede religiosa e che esula dalla nostra indagine sulla psicologia della personalità di Francesco. Per questo motivo penso che sia sufficiente accontentarsi della prima porzione di sogno, anche perché il clima che si respira è più consono al pensiero onirico dove i significati delle immagini non appaiono poi così limpidi alla coscienza del sognatore. Si potrebbe considerare al massimo la seconda trance del sogno su citato come una elaborazione secondaria della visione notturna.[19] Fermiamoci dunque alla prima frazione, quella in cui Francesco dialoga con una voce. A differenza del primo sogno di Francesco che abbiamo commentato, qui la funzione sensoriale interessata non è più il “vedere”, ma il “sentire”, l’udire una voce. La visione del palazzo o della casa come simbolo del Sé non è stata sufficiente all’io-coscienza di Francesco per comprendere la sua relatività rispetto al Sé. Non dimentichiamo poi che quella di Giovanni Battista è “la voce di colui che grida nel deserto”. L’inconscio trova un’altra via per porre alla coscienza di Francesco la questione rimasta sospesa nel sogno precedente: chi è il servo? Chi è il padrone? Che strada seguire? Quella delle armi o quella del deserto? Quella dell’individuazione, della realizzazione del Sé o quella “mascherata” conforme alle richieste collettive? La via che Francesco sceglie non è quella che lo porta lontano da casa, e quindi da sé stesso, da Assisi. Egli decide di rimanere “in Sé” e su questo sentiero prosegue il suo cammino. Ma affinché questo tragitto si compia è necessario che Francesco acquisisca la piena coscienza della mostruosità della sua pelle, di quanto riluttante sia la “maschera” della commedia della sua vita. È per questo che l’incontro di Francesco con i lebbrosi deve essere stato così fecondo. Mettendosi nei loro panni egli ha potuto odorare il fetore della sua esteriorità e trovare il coraggio per liberarsene. Convivendo con i lebbrosi l’io di Francesco accresce la sua lontananza dal “falso Sé” e può cominciare ad odiarlo, a sentirlo riluttante e a mettere in atto nei confronti del “falso Sé” un meccanismo psicologico di “espulsione” dalla sua personalità simile a quello di una cellula che evacua dal suo citoplasma le sostanze tossiche attraverso la membrana. Un’eliminazione che costa energia e fatica. Togliendosi la corazza protettiva la personalità di Francesco rimane letteralmente a nudo. È un momento pericoloso non dissimile da un’esplosione psicotica perché comporta una destrutturazione della personalità. Il nuovo Francesco ancora non c’è. Agli occhi della coscienza collettiva si è ormai folli e pazzi. Si è esposti alla derisione degli altri. In questa fase della vita in Francesco il simbolico si traduce in comportamenti e concretezza. Francesco si spoglia del suo “falso Sé” gettando dalla finestra ai poveri le stoffe di suo padre. Conclude questa operazione denudandosi letteralmente innanzi al vescovo della sua città. Ecco la scena nel racconto di Tommaso da Celano:

Comparso davanti al vescovo, Francesco non esita né indugia per nessun motivo: senza dire o aspettar parole, si toglie tutte le vesti e le getta tra le braccia di suo padre, restando nudo di fronte a tutti.[20]

L’identità familiare di Francesco, il nucleo d’identità fatto di madre e di padre, è perduta. La sua personalità è nuda come il suo corpo. È libero adesso da ogni filo che annoda l’individuo alle convenzioni che impediscono lo sviluppo verso mete migliori. Francesco è un rivoluzionario solo e cieco d’amore. Ora ha un altro Padre ed un’altra Madre, ma è come se fosse appena nato. Finora il compito più difficile è stato quello di distruggere una parte di Sé, fatto che ha richiesto coraggio e determinazione, e il rischio d’impazzire e perdersi per sempre se i sentimenti di odio avessero preso il sopravvento. Francesco, però, ha trovato una “base sicura” cogliendo nella vita religiosa il mezzo per cui riedificare sé stesso, un nuovo Io-Persona da modellare ad “imitazione” di Cristo e del Vangelo. Un nuovo Figlio, un nuovo Padre, un’altra Sposa. Una nuova identità da costruire, eco a questo punto della “voce” che risuona dalle profondità interiori. Francesco mette in pratica i suggerimenti interni che per il suo Sé sono metafora. Francesco intuisce che deve riparare la ferita apertasi con la frattura che ha creato tra lui ed il suo mondo. Una lacerazione che Francesco ricuce attraverso il lavoro manuale. Si arma di cazzuola e, orientativamente, tra il 1206 ed il 1209, si prodiga per “ristrutturare” la chiesa di San Damiano. È il tempo che serve a Francesco per riparare ai danni della sua “pelle”, ad indossare un nuovo abito e a vestire il ruolo che più si addice al personaggio interiore verso il quale ormai tende il suo orecchio attento. Francesco, riparando le chiese cadenti, ricostruisce le mura distrutte della sua “Persona”.[21] Un processo che si conclude con una nuova “illuminazione” e che apre ad un’altra fase della sua vita. Francesco è alla Porziuncola e ascolta lettura di un brano del Vangelo fatta dal sacerdote. È un colpo di fulmine che scuote Francesco nelle parti più intime della sua mente, tanto che Tommaso da Celano fa dire al poeta: ““Questo voglio, questo chiedo, questo bramo di fare con tutto il cuore!””[22]. Deve essere stato il 12 ottobre del 1208 o il 24 febbraio del 1209, perché sono i giorni nei quali si legge il brano del Vangelo che concerne la missione degli apostoli e che ha avuto, ora dovremmo capire perché, tanta risonanza in lui. Il testo evangelico in questione dovrebbe essere il seguente:

Gesù mandò questi dodici in missione dopo aver dato queste istruzioni: “Non andate fra gente straniera e non entrate nelle città della Samaria. Andate invece fra la gente smarrita del popolo d’Israele. Lungo il cammino, annunziate che il regno di Dio è vicino. Guarite i malati, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, scacciate i demoni. Come avete ricevuto gratuitamente, così date gratuitamente. Non procuratevi monete d’oro o argento o di rame da portare con voi. Non prendete borse per il viaggio, né un vestito di ricambio, né sandali, né bastone. Perché l’operaio ha diritto di ricevere quel che gli è necessario.Quando arrivate in una città o in un villaggio, informatevi se c’è qualcuno disposto ad ospitarvi e restate da lui fino a quando partirete da quel luogo. Entrando in una casa dite: La pace sia con voi! Se quelli che vi abitano vi accolgono bene, la pace che avete augurato venga su di loro; se invece non vi accolgono bene, il vostro augurio di pace rimanga senza effetto. Se qualcuno non vi accoglie e non ascolta le vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete via la polvere dai vostri piedi. Io vi assicuro che nel giorno del giudizio gli abitanti di Sodo­ma e Gomorra saranno trattati meno severamente degli abitanti di quelle città.”[23]

In realtà, non sappiamo se l’episodio della Porziuncola sia effettivamente accaduta così come è stata narrata da Tommaso da Celano. Giovanni Miccoli nel suo saggio dedicato a Francesco d’Assisi solleva dei seri dubbi a tale proposito ed è propenso a dare maggior credito alla versione riportata dall’Anonimo perugino. In questo caso la scelta della forma da dare a questo punto della sua vita Francesco deve averla compresa dopo l’arrivo dei primi compagni, Bernardo e Pietro. Con questi deve essersi recato in una chiesa di Assisi e aperto tre volte il Vangelo trovando i versi che avrebbero dato senso al loro stare insieme. I brani evangelici in questione sono:

  1. Se vuoi essere perfetto, va vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri, così avrai un tesoro in cielo. (Mt., 19, 21);

Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. (Mt., 16,24);

Non prendete niente per il viaggio, né bastone né bisaccia, né pane, né denaro, né abbiate due tuniche. (Lc., 9,3)

In ogni caso la sostanza non cambia. Il ruolo che Gesù dà ai suoi discepoli da svolgere è assimilabile alla funzione che il Battista ha nel racconto evangelico, e cioè quella di “annunziare” che il regno di Dio è vicino. Francesco scopre così il senso della sua vita e sa quale aspetto dare anche alla sua immagine esteriore, alla sua Persona. Senza scarpe o stracci di ricambio va come Giovanni a “predicare” la buona novella e a questa missione resterà sempre fedele. Francesco, infatti, non amministrerà mai i sacramenti aderendo così a quell’umile figura che il Battista dà di sé quando afferma di non essere degno di portare o allacciare neanche i sandali a Gesù. Da questo punto di vista non si dovrebbe intendere l’abbraccio di Francesco alla povertà e la sua umiltà come il risultato di un inconscio senso di colpa da espiare, quanto piuttosto l’accettazione da parte dell’Io del progetto inconscio che spinge verso l’autorealizzazione. Al senso di colpa inconscio lascerebbe invece pensare il male agli occhi di cui egli soffriva. Come l’eroe dal piede fesso (Edipo), alla fine della sua vita Francesco diverrà cieco, segno del superamento del bisogno d’incesto e capace ormai di guardare profeticamente la vita con gli occhi del Sé. Negli anni successivi Francesco adempie al suo ruolo in sintonia adesso con le fondamenta della sua personalità. L’atteggiamento della sua coscienza non è più frutto del terrorismo psicologico familiare pagato con una pace che soddisfa soltanto le richieste esterne spersonalizzanti. La pace ora è armonia con sé stesso e di conseguenza con l’universo intero. L’egocentrismo della sua psiche ha perso la sua unilateralità e s’abbandona ormai alle influenze del Sé, spostamento ravvisabile nelle parole che Francesco scrive nel suo Testamento: “E dopo che il Signore mi donò dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. Ed io con poche parole e semplicemente lo feci scrivere, e il signor Papa me lo confermò.”[24] Ora, non è tra gli obiettivi di questo scritto indagare i rapporti tra Francesco e le istituzioni ecclesiali del suo tempo, ma dal punto di vista psicologico ci sono alcuni fatti dei quali si deve tenere conto. In primo luogo che la “conferma” del Papa deve aver tolto a Francesco i dubbi che ancora lo assalivano circa il suo operato. Benedicendolo Francesco non era più socialmente folle ma santo. Ciò non toglie che Francesco con la sua semplicità e povertà, con il suo vivere alla lettera il Vangelo rappresentava un atto d’accusa per i ricchi abiti dei potenti della Chiesa. Non è difficile immaginare che i suoi comportamenti urlassero come il Battista nel deserto: “Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire al castigo, che ormai è vicino? Fate vedere con i fatti che avete cambiato vita e non fatevi illusioni dicendo dentro di voi: “Noi siamo discendenti di Abramo!”. Perché vi assicuro: Dio è capace di far sorgere veri figli di Abramo da queste pietre. La scure è già alla radice degli alberi, pronta per tagliare: ogni albero che non dà buoni frutti sarà tagliato e gettato nel fuoco…”.[25] Il persecutore per Francesco non è la Chiesa custode del Vangelo, ma il potere temporale che come Erode taglierà la testa a Giovanni, scomodo testimone di chi vive nel peccato. Secondo alcuni, infatti, Francesco non fu del tutto soddisfatto di ciò che aveva visto a Roma. Sembra che sulla strada del ritorno, nella valle di Spoleto, Francesco “esulcerato per l’accoglienza fattagli dai romani, i loro vizi e le loro turpitudini, avrebbe chiamato a raccolta gli uccelli, i più aggressivi tra essi, quelli dai becchi voraci, uccelli da preda e corvi, e a loro avrebbe insegnato, anziché ai miserabili romani, la buona novella.”[26] Un invito a mangiare la carne dei re. D’altro canto, la strategia adottata da Francesco deve essere stata quella stessa che egli consigliò ai suoi fratelli: quella, come Gesù, di ritenere amici i nemici e di amarli. Quella di avere un’obbedienza cerea come un cadavere che può assumere diverse posizioni. Fatto che non va inteso come la pura e semplice passività del burattino mosso dalla volontà altrui, ma che significa invece avere la capacità di adattarsi alle diverse situazioni al fine di sopravvivere. Francesco è l’uomo dell’obbedienza a sé stesso, al Vangelo entrato nella propria coscienza e che non disdegna di esortare i suoi a non eseguire ordini i cui effetti possono indurre al male e al peccato. Francesco è l’uomo dell’individuazione e non c’è nessuna legge umana che possa essere seguita se questa comporta il tradimento della propria Natura. Meglio predicare agli uccelli che vestono abiti che Dio gli ha dato! Intorno al 1220, di fronte alla crisi scoppiata tra i frati, divisi in fazioni, che cercavano di dare un’impronta diversa al movimento, Francesco, infatti, non esita a tornare dai suoi viaggi missionari e con il suo comportamento a dare il buon “esempio”. Scrive Frugoni a proposito: “Il santo, con la decisione di abbandonare la guida concreta dell’Ordine per rimanere solo capo spirituale e carismatico, offrendo con l’esempio un modo diverso di vita e di condotta che per il suo semplice esistere avesse un contenuto innovatore e dirompente, operò una scelta elitaria e in­di­vidualistica, ardua da trasformare in proposta seriale di comporta­mento.”[27] L’idiosincrasia tra Francesco ed il potere temporale è ravvisabile se confrontiamo le due Regole che organizzano il movimento francescano. La prima, la Regola non bollata, fu presentata nel Capitolo del 1221. Le norme contenute in questo documento non piacquero a molti frati, e la stessa Chiesa nella persona del cardinale Ugolino chiese a Francesco che il testo fosse modificato. Francesco lavorò ad una nuova Regola ma le pressioni esterne furono così forti che il testo subì modifiche persino a Roma quando fu spedito al Papa per essere approvato. La Regola Bollata (1223), quella approvata dal Papa, ha molte meno citazioni evangeliche e passi poetici rispetto alla prima. È un testo più breve e i tagli apportati devono aver pesato molto sull’animo di Francesco. Ad esempio, se confrontiamo l’ar­ticolo che nella prima e nella seconda Regola riguarda l’accettazione di nuovi frati nell’Ordine, notiamo che nella Regola Bollata il passo evangelico omesso rispetto alla Regola non Bollata riguarda proprio le parole del Battista quando denuncia quelli che indossano abiti preziosi e vivono in mezzo alle delizie e portano morbide vesti stanno nei palazzi dei re, e non, è sottinteso, nella casa di Dio. Lo stesso, se guar­diamo l’articolo che nelle due Regole si riferisce a coloro che desiderano svolgere la loro attività missionaria tra gli infedeli, troviamo che nella pri­ma l’accento è posto sul comportamento da mantenere da parte dei frati presso le popolazioni estranee alla religione cristiana, in conformità al mandato di Gesù di essere astuti come serpenti e semplici come colombe, testimoniando con la vita la fedeltà al Vangelo; mentre, nella Regola Bollata, l’accento è posto più sugli aspetti burocratici e di attestazione di fedeltà alla Chiesa. Non meno importante è la decurtazione del passo che nella Regola non Bollata normalizza i rapporti dei frati con i loro superiori quando si afferma che “se un ministro avrà comandato a un frate qualcosa contro la nostra vita o contro la sua anima, il frate non sia tenuto ad obbedirgli; poiché non è obbedienza quella in cui si commette delitto e peccato.”[28] Questo non è da poco, proprio perché ci informa del rispetto che Francesco aveva conquistato circa la libertà e l’amore dell’altro e della sua “natura”. Francesco accettò la Regola Bollata con la morte nell’animo: “I biografi hanno definito questo periodo della sua vita, verso la fine del 1223, l’epoca della “grande tentazione”. Tentazione cioè di abbandonare completamente il nuovo ordine, se non l’ortodossia. Poi si rassegnò e si calmò. “Povero piccolo uomo, gli disse il Signore, perché ti rattristi? Il tuo ordine non è il mio ordine? Non sono io ad essere il supremo pastore? Cessa dunque di affliggerti e prenditi cura piuttosto della tua salvezza”. Così Francesco giunse a considerare la propria salvezza come indipendente dall’ordine nato da lui, in definitiva suo malgrado. E si avviò serenamente alla morte.”[29] Francesco rischiò probabilmente di essere nuovamente risucchiato dal­l’ingorgo delle “cose del mondo” e la risposta la seppe trovare ancora una volta dentro di sé, trovando pace e proseguendo sulla strada del com­pimento della sua evoluzione psicologica e spirituale. Ciò non toglie che “Erode”, il potere temporale, non portasse a termine il suo disegno. Francesco, infatti, come abbiamo già accennato, negli ultimi anni soffrì anche di mal di testa, segno che il suo “Giovanni interiore” comunicava alla coscienza che il suo tempo stava per finire. Ora, se Francesco come il Battista fu intoccabile a causa della sua fama di profeta, questo non vuol dire che “Erode” non chiudesse il progetto archetipo, perché tutto sia compiuto, tagliando la testa di Giovanni. Alla morte di Francesco, infatti, a capo del­l’Ordine era frate Elia. E se i nomi, come abbiamo più volte sostenuto, sono una “coincidenza significativa”, fu proprio la testa di que­sto frate, alter ego di Francesco/Giovanni/Elia, ad essere servita, con la scomunica, su un piatto d’argento in onore del ventre di Salomè.[30] Ora, se la corrente psicologica sotterranea induce ad immaginare una simile lettura degli eventi, è chiaro che a questo punto entriamo in un campo che è più dello storico che non dello psicologo. Torniamo perciò a Francesco e ai suoi ultimi anni di vita. Siamo nel 1223, nonostante la Regola Bollata, qualcosa di nuovo e straordinario sta accadendo in lui. Lo sappiamo perché, come ormai abbiamo appreso, le sue trasformazioni interiori si traducono in fatti concreti e allo stesso tempo le sue azioni sono metafore psicologiche e spirituali. Interno ed esterno, in altre parole, coincidono. È Natale e Francesco è invitato a Greccio da un nobile del luogo. A quest’ultimo Francesco chiede di voler ricordare il bimbo nato a Betlemme, adagiato sul fieno tra il bue e l’asinello. È la ricostruzione rituale di un evento mitico che riattiva nelle coscienze l’archetipo della nascita e della rinascita, l’opportunità della trasformazione che porta alla luce una nuova vita, una nuova visone del mondo. Tra gli eremi e le grotte della montagna scoscesa di Greccio gli uomini e le donne in quella notte di Natale cantano ed illuminano i sentieri con torce e ceri accesi. Si celebra la messa e Greccio diventa la nuova Betlemme. L’happening, la per­for­mance, la body art, le contaminazioni tra le diverse arti, trovano in Fran­cesco un antico precursore se pur inconsapevole. Il presepe di Greccio, la svestizione pubblica di fronte al vescovo, il mettere a repentaglio la propria vita in terra straniera, l’idea delle stimmate, i canti poetici, trovano a distanza di secoli e di cultura, una, anche se minima, somiglianza con l’arte moderna e contemporanea. Gli happening degli artisti che lavorano intorno alla dimensione del corpo, Gina Pane che lascia scorrere il sangue dalle sue ferite battendosi contro l’anestesia morale e sociale, la ricerca della catarsi attraverso azioni ad alto rischio fisico dell’artista americano Chris Burden, il poeta Vito Acconci fattosi prendere dalle azioni comportamentali alla ricerca della sensibilità estrema, non sono che pochi esempi in cui si scoprono tracce delle opere di Francesco. Segni che pescano nel profondo mare della vita interiore umana e che riaffiorano per dare un nuovo orientamento alla nostra esistenza. Le “azioni” di France­sco, come per tali forme d’arte, mirano a “produrre sensibilità, umori, inquietudini e non oggetti…Non è più, infatti, la moltiplicazione di beni oggettuali ciò che interessa il performer, bensì la sua soggettività, il suo essere nel mondo.”[31] Da Francesco performer, però, apprendiamo che le “opere” sono tali quando riescono a comportarsi come catalizzatori, enzimi che aiutano a metabolizzare i componenti psichici della vita interiore, offrendo ai fruitori la possibilità di rievocare gli eventi, di riattivarli in ogni tempo ed in ogni luogo come per il presepe di Greccio. È la reale trasformazione di sé che produce artisticamente il cambiamento nella sfera della coscienza collettiva. La costruzione dei corpi ibridi realizzati attraverso la manipolazione tecnologica di oggi richiede perciò una nuova disponibilità dell’essere interiore: il corpo umano non è soltanto una macchina, ma anche un serbatoio di esperienze in grado di ricreare il mondo e se stesso. I segni esteriori sono una superficiale operazione deco­rativa e di maquillage se ad essi non corrisponde una altrettanto importante prova di cambiamento della personalità interna. L’episodio di Greccio evidenzia il tema intorno al quale la coscienza di Francesco stava meditando. La riproduzione teatrale e pittorica della nascita di Cristo mette in luce il mistero dell’incarnazione. Lo spirito si fa carne, un tuffo della luce nell’acqua della vita, un quadro leggibile dal punto di vista psicodinamico come la penetrazione della mente nel corpo, una unione degli opposti spiegabile perciò anche per via inversa, e cioè come una penetrazione degli elementi inconsci che accedono alla coscienza. Il mistero dell’incarnazione è il mistero del processo creativo, del partorire una nuova vita in grado di trasformare la coscienza collettiva e mostrare un’altra via che migliora l’uomo nel suo essere nel mondo. L’angelo inviato da Dio è l’intuizione che mette in crisi sia i valori della tradizione sia l’Io che guarda il mondo in maniera unilaterale. Gli orizzonti si presentano così in una più vantaggiosa prospettiva e l’individuo dona pace a quel desiderio, quella mancanza, quella ferita che ha motivato le sue azioni dal di dentro. L’inquietudine trova il suo sollievo e si trasforma in gioia perché il desiderio, che letteralmente significa “essere senza stelle”, ossia non avere punti di riferimento, non avere una casa, è appagato e la persona ha la percezione di aver trovato la sua dimora, di essere in armonia con se stesso e con l’universo intero. È in questa luce che possiamo comprendere un altro tassello della tela che Francesco ha disegnato con la sua vita. Mi riferisco all’episodio della Verna. Francesco, infatti, trascorse l’inverno e la primavera del 1224 a Greccio, in giugno si recò alla Porziuncola per assistere al capitolo generale e quindi si ritirò con pochi compagni su un eremo, quello della Verna. Si dedicò alla contemplazione ed ebbe una visione, quella di un uomo-Serafino con sei ali che provocò in lui una forte impressione. Come Maria, Francesco dialoga con l’Angelo, non sappiamo nulla del contenuto della conversazione, sappiamo però da frate Leone che Francesco compose le Lodi di Dio Altissimo in seguito a tale episodio. Lodipervase da un senso di gratitudine verso il Padre che è due volte santo, due volte unico, forte e fortezza, due volte grande, altissimo, due volte onnipotente, trino, tre volte bene, vivo, vero, amore, due volte carità, sapienza, umiltà, pazienza, due volte bellezza, sicurezza, pace, letizia, gaudio, due volte speranza, giustizia, temperanza, ricchezza, mitezza, protettore, custode, difensore, rifugio, fede, dolcezza, ammirabile e misericordioso. È innegabile la felicità da cui nascono tali parole. Francesco è baciato dalla grazia divina, come Maria la sua carne è pronta a ricevere la fecondazione dello spirito, a portare dentro di sé la concreta presenza di Cristo, presenza riconducibile all’idea delle stimmate. Non sappiamo se le stimmate ricevute da Francesco coincidano con l’apparizione dell’uomo-Serafino o se siano state riconosciute tali da Francesco in seguito, o se siano una proiezione degli astanti alla morte del santo, frate Elia per primo, che videro il suo corpo adornato come uno scrigno da cinque perle: le ferite della passione di Cristo, alle mani, al costato, ai piedi. Non c’è una verità storica certa, ma c’è una verità psicologica che possiamo intuire. L’apparizione dell’Angelo è la rivelazione del­l’archetipo alla coscienza passato attraverso il complesso personale. A questo punto è necessaria una breve digressione per spiegare la relazione che c’è tra il complesso e l’archetipo. Secondo la psicologia analitica, il “complesso” è paragonabile ad una personalità che si comporta in maniera autonoma ed è dotata di una carica affettiva ed emozionale. Di conseguenza, la totalità della psiche è costituita da differenti complessi o “personalità” che convivono nello stesso individuo. Una persona è in armonia con se stesso quando è riuscito a trovare una via di comunicazione, un dialogo tra queste parti differenti di sé. Al contrario, un individuo è letteralmente “dilaniato” quando queste differenti personalità che coabitano in noi spingono verso direzioni diverse come cavalli che smembrano chi è condannato a tale supplizio. Dal punto di vista psicodinamico una particolare importanza è la relazione che si stabilisce tra il complesso dell’Io-coscienza e gli altri complessi. I complessi rimossi, rifiutati, tenuti a bada da parte dell’Io-coscienza restano inconsci e fanno perciò sentire la loro voce attraverso i sintomi, gli atti mancati, i lapsus, i sogni, le visioni, trovando in tal guisa la maniera di presentare le loro richieste alla coscienza. Solo stabilendo dei ponti che uniscono tali differenti regioni della psiche è possibile parlare di una “personalità integrata”, di un individuo che non dissemina qui e là pezzi della propria personalità proiettandoli all’esterno alterando così il suo rapporto con la realtà; anzi, riconoscendo per questo la realtà e guardandola con occhi nuovi. I complessi traggono il loro materiale dalla storia personale de­l­l’in­dividuo. Nel caso di Francesco abbiamo ipotizzato che la personalità rimossa fosse quella riconducibile al suo vero nome, Giovanni, e che tale rimozione fosse legata in un certo qual modo alla figura paterna e alle sue richieste di vita da mercante del suo tempo. A tali richieste Francesco sembra avesse aderito fino ad un certo punto della sua esistenza vestendo un falso-sé di cui si è successivamente spogliato. Ascoltando la voce di Giovanni, Francesco entra in rotta con la figura del padre. Proseguendo sulla via dell’introversione e dell’individuazione, però, il conflitto che ha origini di natura storica e che prende piede dai complessi personali si amplia divenendo una questione che riguarda non solo il singolo individuo ma la collettività. In altre parole, al centro di un complesso personale troviamo un tema archetipo, un motivo che appartiene alla sfera di tutta l’umanità. Il conflitto col padre diventa allora il conflitto con i valori della coscienza collettiva di cui l’imago paterna è portatrice. La lotta col padre, la sua metaforica edipica uccisione, significa allora la distruzione dei principi che dominano la scena etica e morale collettiva. Il conflitto interiore, a questo punto, assume una connotazione di natura sovrapersonale ed il suo superamento passa inevitabilmente attraverso la riappacificazione con l’immagine archetipica di Padre. L’odio verso il “padre terreno” è così compensato dall’amore verso il “padre celeste” della cui volontà Francesco si fa testimone. L’incontro con l’uomo-Serafino ridona pace all’animo di Francesco perché così scopre d’essere nel suo corpo “figlio prediletto” del Padre. L’uomo-Serafino è il nocciolo archetipo che sboccia dal complesso personale del Battista e che avvicina l’uomo a Dio. Il particolare rapporto di Francesco con gli uccelli lascia intendere che si trattasse di una proiezione all’esterno di un contenuto inconscio riconducibile alla figura dell’angelo, l’essere con le ali, portatore di verità profonde lette direttamente sul volto di Dio. L’apparizione dell’uomo-Serafino rende perciò alla fine palese alla coscienza di Francesco tale contenuto. Come Maria[32] l’Io-coscienza di Francesco accoglie le richieste del Sé trovando poi nel corpo i segni di tale unione con Dio. È il matrimonio mistico tra la “psiche-mente”, che si è modellata intorno all’immagine di Cristo, e la “psiche-corpo”, radice della nostra vita e portatrice di un sapere naturale che appartiene perciò ad ogni essere umano. È il matrimonio tra Amore e Psiche che genera il piacere della bellezza. Eros è anch’esso, infatti, come l’angelo, un essere con le ali che penetrando nella mente di Francesco la feconda offrendogli l’opportunità di godere della bellezza del creato. Il Cantico delle Creature, o altrimenti detto Il Cantico di frate Sole, è la concreta attestazione della rinascita di un aspetto divino caduto in disgrazia. Dio torna ad essere ovunque, nelle cose animate come in quelle inanimate. Francesco, nelle sue lotte interiori, ha sottratto al diavolo quelle virtù di Pan che erano state attribuite al principe degli inferi. Francesco libera l’uomo dal disprezzo per la Natura riconducendolo a se stesso ed al proprio corpo. Non ci può allora sembrare strano che Francesco in punto di morte scriva ad una sua amica chiedendole un panno scuro in cui avvolgere il suo corpo per la sepoltura e di portargli i dolci che lei era solita preparargli quando era a Roma malato. Francesco, sino alla fine, nutre di miele il suo essere interiore che si annida nel corpo.

 

Riferimenti Bibliografici

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