Spazi Atti/Fitting Spaces

7 artisti italiani alle prese con la trasformazione dei luoghi.
a cura di Jean-Hubert Martin e Roberto Pinto
12 novembre 2004 – 20 febbraio 2005
PAC Padiglione d’Arte Contemporanea – Via Palestro 14 – Milano
tel 02 76009085 fax 02 783330 – www.pac-milano.org
Orari: 9.30 – 17.30 mar/mer/ven/sab – giovedì 9.30-21.00 – domenica 9.30-19.30 – chiuso lunedì, Natale e il 1° gennaio.
Ingresso: € 5,20 intero – € 2,60 ridotti

Roberto Pinto è curatore, insieme a Jean-Hubert Martin, della mostra Spazi/Fitting Spaces visibile al PAC di Milano fino al 20 Febbraio. Romano di nascita e milanese d’adozione, Pinto ha curato anche importanti mostre ed eventi nazionali ed internazionali, dalla Biennale di Gwangju in Corea a progetti milanesi, come Subway e La generazione delle immagini. Lo abbiamo incontrato a Milano, in una gelida giornata di gennaio, per fargli alcune domande sulla mostra.

Silvia Biagi: Mi ha colpito la scelta di inserire, all’interno di una mostra così focalizzata sul rapporto con lo spazio, ed in particolare con lo spazio del museo, anche installazioni che non sono state concepite appositamente per PAC…
Roberto Pinto: In effetti alcuni dei lavori in mostra erano già stati prodotti e presentati altrove. Non credo che un lavoro che nasce in un luogo e per un luogo non possa essere “riutilizzato” in un altro luogo. Il dato importante, da rispettare, è invece l’aderenza al tema della mostra… si possono riadattare e reinventare i lavori, piegandoli verso lo spazio e non viceversa.
Ad esempio, il lavoro di Massimo Bartolini Mixing Parfums, è già stato presentato al MAXXI di Roma, così come le colonne dell’installazione di Luca Pancrazzi sono state in realtà concepite per un altro spazio.
In effetti, quello che mi interessava soprattutto era proprio concentrarmi sugli spazi interni del PAC, presentarli in un modo nuovo rispetto alle modalità classiche delle collettive. L’edificio attuale del PAC è di per sé fortemente caratterizzato, in fondo non è altro che il “calco” di uno spazio che non esiste più, ricostruito nel 1997 in maniera perfettamente identica all’edificio originale, distrutto nel 1993. Eppure, pochissime delle mostre che vi vengono organizzate sembrano tenere conto di questi aspetti, o cercare un reale dialogo con gli spazi museali.
Mi interessava molto anche creare un dialogo fra le diverse opere, una sorta di doppio sguardo, che coinvolge luoghi e tempi diversi: l’opera di Alberto Garutti, ad esempio, Che cosa succede nelle stanze quando gli uomini se ne vanno? è in realtà invisibile, o meglio, è visibile solo quando il museo è chiuso, mentre T(h)ree di Patrick Tuttofuoco è collocata fuori dal PAC, nei giardini pubblici, ed entra in funzione solo alle 16, poco prima della chiusura del museo… in questo modo si mettono anche in relazione interno ed esterno, visibile e invisibile, in un gioco di ribaltamento e spiazzamento.
In questa direzione cercavo anche un legame con la città di Milano, con la sua storia, con le esperienze artistiche che in questa città si sono sviluppate (e penso ad esempio a Fontana, ad Alviani): era importante per me evidenziare i legami temporali e storici con l’ambiente e gli ambienti nei quali collocata la mostra.
In questo modo si instaura anche un legame diverso con gli spettatori: nelle collettive in genere o si spiega tutto, lasciando poco spazio per l’indagine personale dello spettatore, o si spiega troppo poco, impedendo una reale comprensione del significato della mostra stessa. Io ho cercato in questa mostra di offrire al pubblico una esperienza libera, fornendo allo stesso tempo alcuni elementi di spiegazione sulle modalità di lavoro degli artisti (per questo ho voluto aggiungere una presentazione di alcuni altri lavori degli artisti in mostra, ed ho fatto realizzare le video interviste ai vari artisti).
Anche il catalogo obbedisce a questa stessa logica: i testi relativi ai singoli artisti sono stati realizzati da critici che gli artisti stessi mi hanno indicato. In questo modo non viene offerta un’unica ottica, un’unica lettura, quella del curatore, ma una varietà di punti di vista: mi sembra questo quasi un obbligo nei confronti del pubblico, un’assunzione di responsabilità a cui un curatore non può sottrarsi, soprattutto quando lavora in uno spazio ad ampia fruizione come il PAC.

S.B.: La mia seconda domanda voleva essere proprio sul rapporto fra spazio pubblico e spazio privato, tra l’esterno (la città) e l’interno (il museo)…
L’edificio stesso del PAC è una soglia tra pubblico e privato: da un lato affaccia sulla strada e sui giardini pubblici, dall’altro sul parco interno, chiuso. È uno spazio fortemente caratterizzato, invadente e invasivo, costruito su 3 livelli, con stanze molto alte, pareti ad angoli acuti…eppure, nella maggior parte delle collettive allestite al PAC lo spazio è stato ignorato, dimenticato…
R.P.: Le scelte artistiche effettuate, il testo introduttivo del catalogo, le sue stesse parole… mi sembra che questa mostra esprima un forte legame con la città di Milano, che pure non sta affrontando un momento particolarmente felice dal punto di vista della produzione e del mercato dell’arte.

S.B.: Come vede la situazione culturale ed artistica della città?
R.P.: Milano è oggi una città indubbiamente in decadenza dal punto di vista culturale. Chi amministra e governa la città a livello politico ha scelto di investire solo sui grandi simboli, come la Scala ad esempio. Credo che sia una politica profondamente miope, tanto più che all’estero Milano è conosciuta soprattutto come la città dell’immagine, della contemporaneità… eppure questi sono aspetti per cui oggi la pubblica amministrazione spende pochissimo, su cui non investe.
Milano è una città che ha sempre avuto realtà private e alternative (dalle gallerie di arte contemporanea ai centri sociali che oggi stanno diventando dei centri di cultura) radicate e vivaci…una politica culturale lungimirante dovrebbe sostenere queste realtà anziché contrastarle.

S.B.: Nel testo introduttivo del catalogo insiste molto sulla componente narrativa delle opere in mostra e della mostra stessa…a me è apparso più evidente invece l’aspetto “esperienziale”, mi è sembrato che i lavori proposti fossero piuttosto immersi e sospesi in una sorta di “eterno presente”…in che senso parla di “narrazione”?
R.P.: Tutta l’esperienza della mostra è narrativa, è condivisione, narrazione guidata dalle stesse persone che la visitano. La mostra stessa è un’esperienza che può essere raccontata…è narrativa proprio per la possibilità che è lasciata ad ogni visitatore di organizzarvi intorno dei racconti, di creare una propria storia ed una propria esperienza.
In questa direzione va anche il tentativo di creare anche un rapporto personale con lo spettatore, di fare in modo che ogni visita possa essere unica e condivisibile allo stesso tempo, alla ricerca di quella caratteristica di “relazionalità” che credo sia la cifra più evidente dell’arte degli anni ’90.

 

Spazi Atti/Fitting Spaces

7 artisti italiani alle prese con la trasformazione dei luoghi.
7 artisti italiani di provenienze e generazioni diverse, selezionati da Jean-Hubert Martin e Roberto Pinto, si confrontano con lo spazio e gli spazi del Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano.
Gli artisti scelti (Mario Airò – Massimo Bartolini – Loris Cecchini – Alberto Garutti – Marzia Migliora – Luca Pancrazzi – Patrick Tuttofuoco), pur provenendo da esperienze e contesti molto diversi far loro, hanno tutti in comune il fatto di lavorare con e sullo spazio, interpretandolo e modificandolo di volta in volta. In questo modo, gli spazi del Pac vengono trasformati radicalmente, rivissuti e rivisti, per creare una mostra che è, di per sé, l’attraversamento di molti luoghi.
C’è chi, come Alberto Garutti, sceglie di realizzare un’installazione “invisibile”, eppure profondamente lirica, chi invece, come Luca Pancrazzi agisce piuttosto sull’effetto di straniamento, di spiazzamento, duplicando alcuni elementi architettonici del Padiglione stesso. Ci sono lavori quasi immateriali, come quelli di Mario Airò, che utilizza luci e suoni, o di Massimo Bartolini, che gioca a mescolare profumi. C’è anche chi, come Loris Cecchini, costruisce moduli abitativi insoliti, creando uno “spazio nello spazio”. Marzia Migliora ricostruisce invece un ambiente quasi esclusivamente sonoro, mentre Patrick Tuttofuoco preferisce occupare gli spazi esterni al museo, collocando la sua installazione nei giardini pubblici immediatamente adiacenti al PAC.
Insomma, più che una mostra, un’esperienza, un modo diverso di vivere e conoscere lo spazio espositivo.

Dall’alto:

Massimo Bartolini, Mixing Parfums, 2000, Porta girevole luminosa, profumo

Mario Airo’, Il gioco delle perle di vetro – W, 2003, Ex. Unico, Proiettore, diapositiva, CD, impianto stereo, Dimensioni ambientali

Marzia Migliora, Open skill, 2004, fotografie di scena, Installazione sonora Dolby sorround e video, n. 2 video proiezioni speculari in ambiente oscurato, durata 6’20”
Spatial sound: Riccardo Mazza
fotografia e montaggio: Paolo Lavazza

Marzia Migliora, Crash Testing, 2003, fotografie di scena, dimensioni variabili