Liliana Moro è nata nel 1961 a Milano, dove vive e lavora. Ha esposto in numerose sedi e manifestazioni di grande rilevanza, da Documenta di Kassel (1992) alla Biennale di Venezia (Aperto, 1993), all’Institute for Contemporary Arts di Londra (Made in Italy, 1997). Le opere di Liliana Moro sono presenti nelle più importanti collezioni: Castello di Rivoli, Museo Pecci di Prato, Fonds National pour l’Arte Contemporain di Parigi.

Giorgia Calò: Vorrei che iniziassi a parlarmi di due lavori realizzati nel 1992, Carne e Abbassamento. In quest’ultimo centinaia di bamboline di carta alte 20 cm si contrappongono ad una sorta di città in miniatura. Come si evince dal titolo che chiarisce il senso del lavoro, lo spettatore è “costretto” ad abbassarsi per vedere meglio.
Anche in Carne,13 vasi di vetro tondi sparsi sul pavimento, ciascuno dei quali contenente piccoli giocattoli, viene sottolineato il comportamento del fruitore. Lo spostamento dello sguardo dall’alto verso il basso è un’azione non solo fisica, ma anche una sollecitazione a porre l’attenzione su ciò che è rimasto fuori.
Liliana Moro: Abbassamento, presentato nel 1992 nello Spazio di Via Lazzaro Palazzi, consisteva in più di un migliaio di bamboline scelte per essere caratterizzate da grandi occhi; gli originali erano a colori, io li ho stampati in bianco e nero con l’intenzione di creare una massa anonima che potesse dare l’idea di tutti noi, senza conferirgli un ulteriore commento personale. Di fronte alle bamboline c’erano architetture di carta prese da libri per ragazzi che ho ritagliato e costruito. Abbassamento è una richiesta di sguardo verso il basso con l’intento di creare un rapporto con il mondo; come se gli oggetti a terra dovessero entrare in relazione con lo spettatore mediante l’azione di quest’ultimo che è invitato a chinarsi per guardare sia negli occhi di queste bamboline sia le costruzioni.

G. C.: La favola, la maschera e il gioco sono elementi centrali del tuo lavoro…
L. M.: Sono elementi che in realtà fanno parte di una fase del mio lavoro. Dapprima ho lavorato molto usando anche i giocattoli e le miniature, come ti dicevo prima partendo da un iniziale rapporto con il mondo. Ora i miei lavori “sono cresciuti”, anche di dimensioni, sono più in relazione con l’esterno, con le persone e con ciò che ho intorno.

G. C.: Nel 2004 è stata pubblicata una tua monografia a cura di Loredana Parmesani e Cecilia Casorati (Liliana Moro. La fidanzata di Zorro, Skira, Milano 2004, n.d.r.) Lo stesso anno proprio Loredana Parmesani ha curato una tua antologica alla Fondazione Ambrosetti a Brescia in cui sono state esposte sette installazioni realizzate a partire dal 1992. La curatrice ha voluto documentare la tua ricerca artistica o tu hai deciso di creare questo excursus ?
L. M.: La scelta di portare sette installazioni realizzate a partire dal ’92 è stata la mia, Loredana mi ha lasciato libera di decidere i lavori. Chiaramente abbiamo parlato, le ho spiegato che mi sarebbe piaciuto creare un percorso di visione e di conoscenza del mio lavoro e lei si è trovata d’accordo con me. Il percorso cominciava con Abbassamento fino ad arrivare all’installazione del 2001 che non ha un titolo espresso a parole (il titolo appare così in catalogo: “…” , n.d.r). Si tratta di un lettino di cristallo con un pavimento di vetri rotti che ho presentato per la prima volta nella galleria di Emi Fontana a Milano. Era un’installazione anche sonora in quanto le persone che entravano nello spazio calpestando i vetri generavano un rumore particolare, poi si accorgevano del prezioso lettino di cristallo che era nella seconda sala della galleria e che poteva essere visto dal buco nel muro tra le due stanze.
Infine ho creato un lavoro ad hoc per la mostra dal titolo This is the end , avevo chiuso un angolo dello spazio con delle strisce bianche e rosse che si usano per delimitare i cantieri stradali o situazioni di non attraversamento, per cui di fatto questo spazio era negato. Da dietro queste strisce provenivano suoni di scimmie urlanti e potenti luci rosse che caratterizzavano l’ambiente.

G. C.: Il sonoro è un elemento-chiave del tuo lavoro, non è mai didascalico tanto meno accessorio…
L. M.: Il sonoro è un materiale di lavoro; non è né la voce del lavoro né come giustamente hai detto tu didascalico. Nella prima mostra che ho realizzato da Emi Fontana nel 1993 ho presentato il lavoro Nessuno in cui c’era esclusivamente un’acustica: la mia voce che leggeva le note al testo di “Giorni felici” di Beckett, ossia le indicazioni dell’autore delle azioni che doveva compiere l’attore in scena.

G. C.: Negli anni Ottanta e Novanta l’arte ha allargato il suo ambito attraversando con disinvoltura i confini con il design, l’architettura, la moda, i media, la pubblicità, il cinema, il teatri, la musica, la danza. L’arte può avere una finalità sociale così come può essere considerata una forma di comunicazione. Come reputi i tuoi lavori?
L. M.: Ho sempre pensato ai miei lavori come a delle possibilità di riflessione, di momenti, di pause che possono aprire a delle emozioni e a delle considerazioni; però non penso che siano mai stati portatori di messaggi.

G. C.: Nel 1989, insieme ad altri giovani artisti residenti a Milano hai dato vita allo spazio espositivo di Via Lazzaro Palazzi e alla rivista “Tiracorrendo”, le cui pagine ospitavano vivaci dibattiti…
L. M.: Eravamo 9 artisti quando abbiamo deciso nel 1989 di aprire questo spazio che era una galleria a tutti gli effetti. Non è mai stato pensato come uno spazio alternativo, non abbiamo mai voluto lavorare agli estremi del sistema, semmai abbiamo voluto lavorarci dall’interno. Una parte degli artisti di Via Palazzi lo stesso anno ha fondato “Tiracorrendo”, una piccola rivista autofinanziata che veniva spedita in tutta Italia. All’inizio non facevo parte della redazione, più avanti ho cominciato a fare alcune apparizioni. Era una rivista importante in quanto era scritta da artisti: potevi trovare il loro pensiero e le recensioni sulle mostre viste. Gli artisti esterni erano invitati a partecipare sia con degli interventi sulla rivista che realizzando esposizioni in galleria. Avevamo quindi un’attività frenetica, abbiamo realizzato una mostra al mese per quattro anni, dal 1989 fino al 1993, anno di chiusura. Sono stati anni molto belli e molto importanti in cui.

G. C.: I tuoi lavori risentono di un oggettualismo consistente. Utilizzi spesso oggetti di uso comune, di tipo industriale, con una volontà di “ritualizzazione” che si verifica mediante una frequente ripetitività degli stessi oggetti che diventano parte integrante del tuo lavoro. Questo ti accomuna ad altri artisti neo-oggettuali degli anni Ottanta-Novanta.
L. M.: All’inizio è stato molto importante l’uso degli oggetti, le miniature in modo particolare ma anche oggetti di uso comune. Nel 1990 per esempio, ho realizzato No Frost , un frigorifero (il frigorifero di casa di cui mi sono privata per un mese!) che ho rivestito con della plastica adesiva colorata raffigurante i personaggi di Walt Disney e che ho chiuso con una sbarra e un lucchetto malgrado continuasse ad essere funzionante, per cui avevi questo continuo sonoro. Sempre del 1990 è il lavoro Svegliatevi presentato in occasione della mostra collettiva degli artisti di Via Lazzaro Palazzi, Avanblob , tenutasi nella galleria di Massimo De Carlo a Milano. Per questo lavoro ho usato la scrivania del gallerista De Carlo, l’ho girata ho aperto un cassetto mettendoci dentro duecento termometri clinici illuminati da una lampadina. Sempre per restare nel tema degli oggetti al Pecci nel 1991 ho usato le palette con il manico per la spazzatura e ho messo all’interno delle lampade che illuminavano ciò che non c’era. Ho dato al lavoro un titolo molto ironico che era Che idea!

G. C.: In un’intervista hai dichiarato di essere sempre stata interessata alla forma della casa perché ritrovi in questa la struttura dell’uomo. Nel 1993 hai partecipato alla Biennale di Venezia (XLV Biennale, Mostra Aperto ‘93 a cura di Achille Bonito Oliva, n.d.r) presentando un lavoro a quattro mani con Bernhard Rüdiger dal titolo La casa . Nel 2001 hai condotto per il progetto Arte e integrazione multiculturale a Zingonia un laboratorio in collaborazione con i bambini, chiamati a scegliere di arredare la propria casa. Per portare un altro esempio, nel 2002 hai realizzato una mostra presso la galleria di Valentina Bonomo a Roma in cui lo spazio della galleria ha ospitato il tuo spazio: una casa di piccole dimensioni ma abbastanza grande da essere visitabile all’interno ed interamene costruita con biscotti. Infine, lo scorso anno hai presentato per la mostra Written City a Frascati il lavoro Ascolto , si tratta di un neon a forma di orecchio installato sulla facciata di un palazzo a Piazza Bambocci. Perché la casa? È un’icona che rimanda molto all’immaginario infantile: la casa è una delle prime immagini che il bambino riesce a disegnare, è il primo luogo che conosce e riconosce e da cui muove i primi passi.
L. M.: La casa è il contenitore, la struttura, la rappresentazione di noi, a volte anche fisicamente rimandando all’immagine del corpo umano; però è anche quel luogo che ci contiene, è il luogo privato, a volte scenario di grandi tragedie. Nei miei lavori metto spesso l’accento sul nostro lato oscuro, la zona d’ombra che spesso rimane dentro le mura domestiche così come rimane dentro di noi. Quasi tutto il mio lavoro tende a mettere in evidenza il rapporto tra l’interno e l’esterno. Per la Biennale di Venezia abbiamo realizzato una “casa” con un tetto ribaltato che spezzava in due lo spazio. Lo spettatore, attraversando la casa, poteva ascoltare due voci: Bernhard recitava una parte degli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini, io ho usato il primo capitolo tratto da L’ambulante di Peter Handke. Mi interessava usare quel pezzo perché parla di tutto ciò che avviane prima di un fatto delittuoso. Il lavoro Dumme Gans , la casa di biscotti presentato dalla Bonomo, parte da una favola che è quella di Hansel e Gretel dove in realtà avviene una tragedia: la casa invitante e profumata in realtà ospita una strega che mangia i bambini. In tutte le favole c’è sempre un atto violentissimo, per cui il lavoro dalla Bonomo metteva luce proprio su questo aspetto. Dall’interno della casa il pubblico poteva vedere sette immagini raffiguranti Gretel che mette nel forno la strega. L’azione è stata scelta in quanto spiega la morale della favola: per liberarsi dal male, per assurdo, devi compiere un atto violento proprio come atto di vittoria. Il lavoro a Zingonia è invece un confronto tra i propri desideri e ciò che il mondo offre. Zingonia è un quartiere in provincia di Bergamo che ha avuto negli anni Settanta grandi ambizioni in quanto polo industriale, è in realtà diventato un quartiere dormitorio. Negli ultimi anni ha una presenza per l’80% di stranieri. Il laboratorio è stato gestito per circa un anno da sei artisti al fine di realizzare un lavoro con i cittadini immigrati residenti. Io ho condotto un lavoro con 6 bambini, cinque senegalesi e un rumeno. Gli ho invitati a trasformare delle casette di cartone nelle loro case. Il lavoro, intitolato Ognuno ha una casa , è volutamente concentrato sull’atto della scelta in quanto ho chiesto ai partecipanti di scegliere tra un campionario di oggetti per realizzare la propria stanza. Mi faceva piacere capire che tipo di condizionamenti avessero già dall’esterno.

G. C.: Vorrei che concludessi questa intervista parlandomi di due lavori estremamente suggestivi dedicati ad Anna Frank. Si tratta di Sono una boa nella bufera presentato al FRAC di Montpellier nel 1994 e di Diario esposto alla Fondazione De Appel, ad Amsterdam nel 1999.
L. M.: Come avvengono spesso le cose avevo letto Il diario di Anna Frank alle scuole medie, poi ho voluto rileggerlo, non so esattamente perché, ma rivedendolo sono rimasta colpita dall’inno alla vita che trapela da queste parole scritte. In Sono una boa nella bufera ho usato un telone con delle maschere di animali e di clown disegnate sopra (mi viene in mente Maus di Spiegelman, n.d.r.) e ho fatto leggere in francese le ultime pagine del Diario . Per l’installazione alla Fondazione De Appel invece ho ricostruito, evidentemente seguendo una mia elaborazione, la stanza di Anna Frank. La casa di Anna Frank è praticamente attaccata alla Fondazione per cui c’era questa sorta di comunicazione tra l’installazione e quella che oggi è la sua casa/museo.

 

Dall’alto:
Liliana Moro, ‘…’ 2001, mixed media, installazione galleria emi fontana
Liliana Moro, Carne, 1992
liliana moro, clown, 1999
liliana moro, la casa, 1993
Liliana Moro, La fidanzata di zorro, 1999, installazione
Liliana Moro, no frost, 1990
Liliana Moro, svegliatevi, 1990
Liliana Moro, Dumme Gans, 2004 ,Struttura in legno,Biscotti Gentilini, caramelle, Courtesy dell’artista
Liliana Moro, Abbassamento, bamboline e costruzioni in carta, dimensioni variabili, 1995