Note:
(1) Alexander Hamilton Auriema

La Berlino del muro
Associazione culturale Wunderkammern

Via Gabrio Serbelloni 124, Roma

Dal 14 al 21 novembre 2009

www.wunderkammern.net

Artisti: Kinga Araya, Petra Arndt, Alexander Hamilton Auriema, Jürgen Böttcher, Peter Fend, Frank Motz, Günther Schaefer

A vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, numerose mostre ed eventi ne celebrano la ricorrenza all’interno di Venti di Libertà, la manifestazione del Comune di Roma.

Molti cambiamenti si sono succeduti in questi due decenni, equilibri e influenze internazionali ne hanno risentito e nuovi scenari si sono definiti, oltre che sul piano politico, economico e sociale, anche su quello artistico. E nel frattempo nuovi muri sono sorti tra Padova, Israele e Stati Uniti.

La mostra che ci propone Wunderkammern, in collaborazione con il Goethe Institute e realizzata con il contributo critico di Alan Jones, non ci parla di un muro, bensì di un luogo: Berlino: La Berlino del Muro appunto.

La Berlino del Muro, trasformata in un gioco di parole, come ci suggerisce Alan Jones, da “il Muro di Berlino” al Burro di Merlino. La Berlino dell’assurdo, tra controlli e divisioni; la Berlino della speranza, tra le atmosfere gioiose del crollo epocale e i passaggi della Wende.

La Berlino del Muro è un flusso di idee e associazioni che, attraversando i confini della logica, ci introducono e ci guidano nel percorso della mostra, dedicata alla città emblema della divisione geopolitica del XX secolo. Una mostra, questa, che non ci restituisce solo uno scenario, ma il paradigma di una contemporaneità proiettata nel secolo nuovo, eppure tuttora giocata su frontiere e confini immateriali.

Se Frank Motz, con Smelled (2009), ci restituisce una felicissima interpretazione dei raffinati e deliranti metodi di controllo della Stasi, Peter Fend con Regulation (not rule) of a world, sottolinea gli aspetti illogici dei confini territoriali applicati ad una scala naturale. Il primo ricorda un episodio autobiografico, che lo portò a scoprire l’esistenza di un consistente archivio di «odori». In particolare gli venne chiesto di collaborare ad individuare il proprietario di una certa carta da parati che era stata usata per una scritta contro il regime. Rifiutandosi, i suoi dati personali furono estratti e archiviati. Non solo le impronte digitali anche il suo specifico odore. Il secondo, Peter Fend, immagina invece la costruzione di un muro subacqueo alludendo alla necessità degli interessi economici e politici di creare degli elementi di separazione, per sopravvivere, fino ad immaginare un muro che possa dividere “l’autorità più profonda: il mare” (Fend).

Dai tentativi di sottolineare la natura illogica di certe imposizioni umane, dettate più da esigenze economiche che democratiche, il giovanissimo Alexander Hamilton Auriema (Regaining Paradise, 2009), con fare poetico e con uno sguardo lucido sui flussi contemporanei, ci rimanda con freschezza ai nuovi equilibri internazionali, quotidianamente espressi nelle metropoli attuali: non più l’Est Europeo e Socialista, blocco unitario, contrapposto e chiuso in sé stesso, ma l’Est Sudorientale. Migranti Bengalesi offrono delle rose rosse, ciascuna emblema di singole storie, alle donne in sala. Un dono galante che si apre a diversi livelli di lettura e ci ricorda la permanenza di categorie mentali, che tutt’oggi costituiscono degli elementi di separazione, come la distinzione dei ruoli sociali a partire dal genere o dalla provenienza etnica.

La Berlino del Muro ci rimanda quindi a una Berlino attraversata da una frontiera che separa, prima, e successivamente si apre e genera flussi: ciò che era luogo di separazione è diventato luogo di incontro. Così nel celebre Die Mauer, lungometraggio di Bottcher, immancabile protagonista per una mostra a tema, e che ci offre un prezioso documento sulle giornate storiche della caduta del muro. Curiosità, tensione emotiva, gioia, speranze rimandano immediatamente agli scatti fotografici di Günther Schaefer (Pictures from two Millennia, 1989-2004), che si precipitò a Berlino da New York non appena sentita la notizia e che in queste fotografie ci restituisce il senso dello scambio che si genera a partire da un limite. Un soldato americano che si accanisce con picchetto e mazzetta sul lato orientale del muro rimanda al soldato orientale, felice di parlare per la prima volta con un altro soldato al di là della frontiera. Il confine, la separazione, quei pochi metri, privati, diventano luogo di passaggio e di incontro, di conciliazione, dove si riversano le emozioni represse e le speranze per il futuro.

Un futuro che oggi è l’attualità che ci viene invece narrata da Petra Arndt e da Kinga Araya. Artista tedesca la prima, di origini polacche la seconda, entrambe seguono il percorso del muro, oggi.

La prima accosta ad un episodio di vita privata (13th of august 1961, 2007, fotografie) un piccolo documentario (Here was the wall, here is the wall, 2007, videoinstallazione), dove vengono narrate le esperienze intime e collettive da chi il muro l’ha vissuto, da chi l’ha visto erigere e poi crollare. Una gioia agrodolce, che contrappone all’entusiasmo per l’indipendenza conseguita, l’amarezza per dei risultati mancati, sul piano dell’equità sociale.

La seconda ne ripercorre lo snodarsi nei luoghi della città, evocando molteplici attraversamenti.

Il muro diventa quindi una frontiera che attraversa un luogo e successivamente si fa attraversare. Ma è in questo passaggio significativo che il muro ancora vive. È per la sua pregressa presenza che il passaggio e la frontiera sono entrambi visibili.

Ed è infine con un’uscita dalla galleria che si conclude questa mostra. Una performance a San Lorenzo in Lucina di Auriema dal titolo Aiuta a costruire un muro. Perché se lucidi un sasso scopri un rubino, apre un dialogo tra Tor Pignattara, quartiere dove ha sede lo spazio di Wunderkammern, e il centro di Roma, di nuovo a sottolineare l’attraversabilità dei confini: “Propongo di costruire un muro in Piazza San Lorenzo in Lucina. Con l’aiuto di alcuni migranti originari dell’Africa Centrale e dell’Asia Occidentale, vorrei che il muro esistesse come testamento alle tensioni, tutt’ora permanendo le questioni dell’immigrazione, i confini nazionali, e le differenze locali che furono sopraffatti dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989, vent’anni fa” (1).

Ed è con queste esperienze di ricerca e di passione, felici espressioni visive e interventi sul reale, più o meno duraturi, che il processo artistico ancora sente il desiderio di prendere parola e di scavalcare la propria autoreferenzialità, non tanto attraverso forzate interpretazioni critiche, piuttosto attraverso la semplicità delle proprie forme. Per cui è l’esperienza estetica stessa che ci pone un interrogativo rispetto alla natura di un muro, come luogo di separazione o di confine attraversabile, ancora tangibile nella sua immaterialità.

Da sopra:

Peter Fend, Regulation (not rule) of a world, 2009, disegno a matita e colori su carta, cm. 160×90,

Frank Motz Smelled, 2009, installazione, carta da parati e testo The Smell Test Container: How a part of me became a part of a permanent collection without even having been asked.

Frank Motz Smelled, 2009, testo The Smell Test Container: How a part of me became a part of a permanent collection without even having been asked.

Günther Schaefer, Pictures from two Millennia, 1989-2004, fotografia su tessuto.

Fotografie di Roberto Poggi – courtesy of Wunderkammern