Dove risiede oggi il senso della critica? E di quale criterio critico stiamo parlando? Chi e cosa incarna oggi il pensiero reale della critica? Ci si è abituati a vivere in una condizione acritica, talmente assordante, nel suo chiaro messaggio funzionale, che la voce della critica si è spenta. Certo, si dirà, sin dalle avvisaglie del postmoderno, negli anni in cui Szeemann dichiarava l’esistenza in essere dell’azione critica attraverso il suo farsi opera curatoriale, l’azione discorsiva e dialettica dela critica è andata azzerandosi. Al suo posto e per lunghi anni anni si è levata la psicoanalisi induttiva, della circoscrizione al dettaglio di eventi consapevoli dell’arte. Il singolo ciclo di lavori, la costituzione della piega personalista, la comprensione del ruolo sociale dell’emarginato di lusso rappresentato dall’artista. La critica concettuale d’altra parte sminuiva qualsiasi segno che non fosse idealemente connesso al valore stesso dell’arte. Una critica senza parole e con fatti concreti fa da corredo ad un’arte spogliata dai suoi artifici.
Per tutti gli anni Ottanta il corredo testimoniale della critica ha fatto da spartiacque all’ideologia della critica, o a quel che ne rimaneva. Ai nostri giorni infine il silenzio. Si parla di storia o di microstorie, ma non si parla di critica nel senso complesso. Si scrivono e si pubblicano libri in cui il valore è dato soltanto dalla riproduzione e dalla sua qualità, in cui l’identità grafica ha la meglio sui contenuti. Il senso della critica nei nostri anni è nel suo sparire eclissandosi nell’immagine. Al rapporto fattuale fra testo e oggetto si è sostituito un rapporto sequenziale fra immagine e scrittura. Quella scrittura funziona soltanto in quanto descrizione e commento all’immagine e non c’è critica, non c’è pensiero che vada letto e interpretato per quello che è, ovvero idee e congetture su un’ipotesi del mondo. Mancando l’analisi la critica viene sommersa dall’immagine e lamenta la sua frustrazione in calce alla grafica o al design. Il valore dell’uomo, si dice, è nei suoi beni, nel potere d’acquisto potenzialmente acquisito, e nessuno che possa alzare il tiro, sollevare la cappa d’autentica tirannide costituita dal girovagare impazzito del libero mercato. Libero mercato di che? Per favorire cosa? E per soddisfare quali bisogni? La critica a questo non risponde eclissandosi dal centro del potere intellettuale e abdicando in favore di chiacchere politiche, al meglio osservando i tipi umani che queste politiche le interpretano. Alla critica manca la consapevolezza di agire per corripondere ad un desiderio di chiarezza di cui l’arte è segno esplicito e non prodotto di stile. Una differenza abnorme separa la condizione di plauso cui è preda l’arte mondana dal suo significato. Quando questo c’è viene sepolto dalla sovrastruttura che vi si costruisce intorno. La grande casa di moda che finanzia e sponsorizza l’evento non è in sé soltanto un partner economico ma diviene il messaggio esso stesso, qualcosa che elimina ogni intenzionalità dell’arte facendone uno strumento di consenso e di rappresentanza. Tutto questo potrebbe andare bene se alla base ci fosse il discorso della critica, ma questa ha abiurato in favore di un suo spessore economico. La realizzazione economica della critica è però soltanto il segno che qualcosa di grave è avvenuto. Ci dice infatti che la constatazione d’esistenza dell’arte avviene attraverso l’omologazione alle dinamiche macropolitiche sia in ordine alla sua rappresentanza, in quanto accademia formale, sia perché avviene all’interno di un consenso di cui non è possibile disconoscere la portata.
Si dirà che difficilmente il discorso critico potrà raggiungere un obiettivo funzionale, e sappiamo bene quali distorsioni produca uno scopo funzionale nell’ambito sociale. E poi dove sono oggi i critici del sistema, dove si celano e quali vite conducono se ci sono? Dove risiedono oggi i Sartre dei nostri gionri, dov’è Camus? Dove sono Gramsci, Marcuse, dov’è l’intellettuale militante?
L’arte della nostra società contemporanea si rifugia nel suo ruolo di rappresentanza, come testimoniano le miriadi di grandi celebrazioni acclamate da un vasto pubblico in ovazione calcolata. Questa rappresentanza non comunica il suo scopo. Non comunica la sua azione ma risiede all’interno degli sviluppi del sistema. Naturalmente l’arte non potrebbe essere che ciò che è, come dichiara la critica non avversa ai principi di regole mercanili, ovvero la realizzazione di profitti causati da una ragione non indomita alle strategie di potere e in quanto ciò simbolo stesso di quel potere. Un’arte che rappresenti però non è un’arte che critichi e sviluppi le sue ragioni intellettive, la sua ragione d’essere. Poiché infatti quest’arte rappresenta le dinamiche consapevoli del potere che in essa si specchia dichiara apertamente di non poter fare nulla per la comprensione di una prospettiva differente. Quale potere potrebbe essere rappresentato da un’arte che ne volesse modificare lo statuto? Il significato della critica assume connotati da accessorio intellettivo ma non costituisce parte del nucleo significante, anche perché questa è la pura consistenza d’esercizio della rappresentanza. La critica insomma per delucidare il suo discorso non può esistere in quanto accessorio dell’arte, d’altra parte senza di questa non avrebbe ragione d’esistere. Tutto ciò è in parte vero, ma l’unico valore intellettuale che possiamo declinare in funzione della critica è quello di descrivere le asperità dell’essere e di prospettare nuovi sviluppi. La critica quindi non può essere prona ai giudizi esterni o non è tale.
Si dimentica, in questo ciclo della critica, che lo spirito analitico, per comprendere il mondo e la sua circostanza è un esercizio dell’intelletto e che se questi non ha materia per giustificare la sua esistenza, se non come accessorio immobile, finisce con il tacere davvero. In questo silenzio risiede l’identità della critica oggi. Un silenzio che si sbaglia a credere immobile. Se la critica infatti ha smesso di parlare ha iniziato ad agire nei modi e nei luoghi in cui può esistere l’azione dell’arte. Il silenzio della critica si fa azione e l’azione diventa comune, poiché gli atti, diversamente dai pensieri possono comprendersi anche senza capirne l’azione. L’individuo sognante della critica si sedimenta nella massa e quantifica la sua inerenza all’ordine complesso del discorso. L’analisi della critica è nella critica al sistema e se questo ordine del discorso non viene recepito in parole allora si fa azione muta ma non silenziosa, non inerte.
Negli anni Settanta i cattivi maestri della critica parlavano della perfezione geometrica e sovversiva della traiettoria di uno sparo, di una grandinata di spari e delle conseguenti figure simboliche. Oggi parliamo dell’energia sovversiva di una pedalata che spezza le unilateralità di un sistema fondato sull’energia da scavo sottrattivo e sul consumo. All’astratta rarefazione discorsiva della critica di rappresentanza si contrappone l’azione fattuale dello strumento critico autarchico, la bicicletta e la sua poetica sovversiva nel mondo dell’automobile e della camera a scoppio quadrivalvore a iniezione elettronica. L’azione della critica si sfalda dal discorso individualizzato dalle tematiche dell’oggetto e si cala nella massa facendone parte. La massa critica vissuta nel disordine e nella sua casualità, patologica al sistema stesso e priva delle sue certezze. Una massa critica trasversale che vive i suoi raduni come esperienza estetica autorappresentativa ed anarchica. Il blocco temporaneo delle connessioni comunicative del sistema, attraversamenti fisici causati da masse reponsabilizzate allo scopo di agire in maniera critica e senza gli strumenti violenti del sistema. Alla violenza passiva e fatalista del motore a scoppio si sovrappone la pacifica e radicale pedalata che produce energia pulita e ristabilisce il contatto umano nello sviluppo sociale. Il gesto del blocco attraversa lo stupore al suo passaggio e come simbolo alza in alto lo strumento critico, una bicicletta. Strumento sovversivo e segno di rottura palese con la follia contemporanea della televisione in cui si grida il tradimento sociale come strumento di controllo; le due ruote come simbolo di un tempo vissuto con minore stress e maggiore spirito civile, in cui il prodotto della sopravvivenza non deve necessariante decidere la fine delle risorse naturali. La pedalata come strumento di forza sociale nella sovversione alle pratiche di dominio, alle multinazionali e ai trust e alla relativa politica d’annientamento della ragione umana e della sua dignità d’esistere: la pedalata come segno estetico, evento dinamico al di là del postmoderno. La massa critica, la sua immagine da circo baldanzoso, infine, nell’ammasso definito dal segno simbolico della bicicletta, manifesta il suo vasto messaggio estetico di un’arte non riconducibile ad un singolo elemento ma arte/azione di riuso pratico, biciclo, riciclo e tandem sociale.
Annecchini, Scudero, Zanazzo, Radiceditre,

Still da video, 2001.