L’analisi critica prevede che la scrittura sia stata preordinata da un impegno specifico. Si dirà che questo impegno è anche un disimpegno. Disimpegno dalla realtà e dalla circostanza in cui questo avviene. L’isolamento della scrittura è anche un porsi altrove, disimpegno dal contesto. Si può immaginare una scrittura critica vissuta in presa diretta? Difficile. La scrittura prevede infatti il suo isolamento, e non importa in quali condizioni questo avvenga. Si tratta pur sempre di isolamento e di distanza da quel caos del presente. All’interno della scrittura si sedimentano in rapida successione le cose di cui siamo consapevoli in quel tempo. Ad esempio: ci siamo spostati all’analisi di un contesto storico, definito. In questo caso la realtà circostanziale non conta più. Stiamo valutando un fenomeno, come potremmo distrarci su qualcosa di diverso? La realtà della lettura è per certi versi eguale o anche simmetrica ed inversa alla scrittura. Nella lettura l’ermeneutica dell’essere corrisponde a questo vissuto che abbiamo voluto imprimere. Per comprendere la lettura critico storica che abbiamo realizzato il lettore deve necessariamente accettare questa circostanza. Non ha scelta. O quella del vissuto o quella della lettura.
D’altra parte non si può nascondere una verità difficile da accettare. La visione della critica risulta essere inadeguata al nostro quotidiano. Per fare di una scrittura un reale dialogo critico bisogna conoscere e percepire la realtà del vissuto ma bisogna anche differenziarsi da questo. Se qualcuno volesse criticare con consapevolezza la sua propria realtà potrebbe farlo solo a partire da questa visione complessa. L’arte in questo caso diviene il solo pretesto per manifestare la veridicità di quanto si sostiene. In un certo modo l’arte è il coefficiente relativo di questa indagine sul mondo ma non è il suo fine assoluto. Gli artisti spesso confondono la critica con la didascalia, il commento all’oggetto da cui la critica prende l’avvio. La critica è invece qualcosa di diverso dall’analisi didascalica dell’opera, non può essere la sua chiusura deterministica. Ne consegue che la critica si ritrova sola e senza sostegni al cospetto dell’arte e della consapevolezza dell’esperienza. Soltanto quando l’arte acquisisce un valore di critica al sistema questa didascalia ha un valore accettabile, se determina il valore del discorso. Se la critica non è la mera didascalia all’opera, e quindi non ha alcun valore in quanto descrizione, essa deve poter esistere in quanto veicolo circostanziale di comunicazione complessa, ovvero assumere la volontà di manifestare contenuti validi per tutti coloro che ne praticano la lettura. La critica, al di là della filosofia della materia, la forma più alta della descrizione, è sostanzialmente una metalinguistica della politica che ha il suo incipit nell’osservazione complessa dell’opera ma il suo scopo nell’ampia comprensione della realtà.

Si fa una grande confusione fra critica, scrittura curatoriale e didascalia. La critica è qualcosa che attiene al paesaggio estremo dell’essere e si ha anche senza alcun paradigma visivo: questa può avvenire anche nella distanza con l’opera di cui si manifestano le articolazioni logiche ma non soltanto deterministiche. La critica è un discorso che oltrepassa l’oggetto e difficilmente può esistere e avere un suo valore dandosi una comunanza di intenti con l’oggetto. La scrittura critica costeggia l’esperienza dell’arte e fa di questa un exemplum: giustifica e dichiara la sua accettazione in quanto epifenomeno dell’essere al cospetto della realtà. Una realtà che si attualizza anche attraverso la scrittura ma che allo stesso modo non ne prevede necessariamente il compito. La didascalia invece è il commento esplicativo e non aggiunge nulle a quanto attiene al discorso complesso dell’arte. La didascalia critica descrive, delimita, circonda e conclude l’oggetto e il concetto dell’arte senza aggiungere nulla. L’attività del giudizio può essere artificialmente legata alla cura e alla didascalia ma è nella critica che si manifesta consapevolmente. La critica possiede un suo discorso e comprende la realtà nel suo divenire anche senza alcuna motivazione diretta al discorso dell’arte, senza riferimenti costanti e conclusivi al singolo epifenomeno. La critica, in altri termini, rende palese una cognizione dell’essere e si mantiene adeguatamente distante dall’interferenza con una singola forma o con un singolo oggetto.

Allora di cosa abbiamo bisogno oggi? La certezza della critica: come coefficiente politico, valore aggiunto al contesto sociale, metalinguaggio destinato ad una sia pur ristretta moltitudine. La sua identità va ricercata nella ridondanza discorsiva indipendente sia dal discorso curatoriale che dal relativismo oggettuale dell’arte. La critica si manifesta soprattutto perché decide una posizione dell’essere. Per poter esistere questa critica deve dimostrare di mantenersi distante da ogni esercizio di potere. Gli artisti hanno ragione a diffidare del discorso propositivo della cura critica inteso come manifesto analitico della realtà. La critica è sganciata da ogni modello di potere e non potrebbe essere altrimenti: per potersi liberamente esprimere la critica non può essere soggiogata da un modello convalidato di esercizio politico e la cura critica, in quanto proiezione organizzata di uno scopo illustrativo, è connaturata a questa prassi . Questo modello variabile corrisponde sempre al sistema socio-politico in atto ed è su questo scopo che l’esercizio della critica deve poter sviluppare il suo discorso. Ma al suo interno, per poterla vivere come momento operativo dell’intelletto, che sia motivabile come scopo collettivo, dobbiamo poter leggere l’identità di una visione complessa e propositiva: che sia quindi un’azione politica e non solamente archivistica.

Da sopra:
Robin Rhod, Horse, 2002 (video still). Digital animation, 53” seconds. Edition of 5 + 2 AP.Courtesy of the artist and Perry Rubenstein Gallery, New York
Warburghiana (Aurelio Andrighetto, Dario Bellini, Gianluca Codeghini, Elio Grazioli), azione al MLAC, 2005
Sukran Moral, Despair, dvd, 2005. Courtesy Maçka Sanat Galerisi, Istanbul