La cura critica è un’attività molto complessa e solo recentemente si è tentato di darne una visione scientifica attraverso i corsi attivati dalle università. Nel settore professionale tuttavia queste procedure non sono comprovate da una modalità testuale e la sensazione che può ricavarsi da un’osservazione estranea è che il campo in analisi sia gestito da vocazioni ispirate. Il campo è irto di difficoltà, la cura critica come disciplina in realtà non esiste ancora. Le modalità d’attuazione sono libere per definizione e manca uno sguardo complesso per semplificare il compito di questo lavoro. In un certo modo è come se lavorassimo ad una disciplina altamente specialistica di cui nessuno possiede alcuni ragguagli teorici e pratici. D’altra parte soltanto l’Università potrebbe sopperire a queste necessità e in qualche modo nel mio lavoro ho tentato di vedere attraverso la prospettiva della ricerca la realtà della cura contemporanea. Nel Manuale del curator sono precisati alcuni strumenti teorici e storici per definire un quadro complesso della cura critica, tuttavia una domanda è rimasta senza risposte. Ovvero, quali sono le modalità di attuazione della pratica curatoriale? La risposta può inizialmente comprendere alcune metodiche ma di fatto nell’indagine a tutto campo si rileverà una chiara idiosincrasia fra contenuto teorico e pratica reale della disciplina in analisi.
La più elementare discrepanza fra istruzione e pratica della disciplina consiste nell’osservazione della precarietà del lavoro curatoriale anche e soprattutto in mancanza di un chiaro ambito lavorativo. Ma anche dopo aver sottolineato compiti e ruoli del curatore queste discrepanze non si richiudono. In primo luogo perché le analisi di un territorio tanto disarticolato qual è quello della cura critica prevedono l’inserimento di una serie di pratiche istituzionali che nella nostra indagine sono fuorvianti. Mi riferisco in particolare alla evidente diacronia presente nella terminologia di “curatore”. In ambito istituzione questa prevede una proiezione verso tecniche di conservazione e di restauro che nella prassi contemporanea sono completamente trasformate. Come ben sanno i teorici e gli storici della critica contemporanea, da Sciolla a Scarrocchia, le trasformazioni avviate dal XX secolo hanno investito anche il concetto della relazione fra arte e suo pubblico modificando alla base la struttura dell’azione museale. La figura del curator si propone in modo fortemente differenziato da quella del conservatore attivo nelle istituzioni a carattere storico-archeologico. Un ampio settore di ricerca si è aperto e in questo vuoto si sono inseriti con forza protagonisti che non hanno e non cercano alcuna connessione con la storia del passato. Gli scambi istituzionali fra la figura del conservatore e quella del curatore sono molto difficili: il primo prevede la solidificazione delle strategie curatoriali mentre il secondo lavora con materiali vivi e di cui plasma l’identità. La particolarità della cura contemporanea è proprio quella di sommare creatività disparate, in primo luogo quella del curatore, con quella dell’artista. Ma non solo questo. L’ingresso del pubblico nell’idea relativa dell’arte, quando la sua identità non sia fissata in categorie stabili, comporta necessariamente l’intervento in primo luogo del curator. Proprio per questo la difficoltà dell’analisi curatoriale si confronta duramente con la realtà e la sua attuale impossibilità scientifica quando la materia è un “work in progress”. In questo vuoto le nuove strategie didattiche prevedono che la conoscenza non sia comprovata da fasi dell’esperienza, giudicando improprio, quando non addirittura superfluo, il ruolo della tecnica. Proprio la tecnica invece è la risorsa strategica delle nuove dinamiche curatoriali.
Nei corsi universitari non se ne ha ancora consapevolezza, ma i nuovi curatori dovranno obbligatoriamente acquisire una base tecnica che possa supplire il ritardo dell’esperienza. In altri termini se vogliamo che una laurea in curatore abbia reali prospettive professionali non legate con la ricerca universitaria bisognerà approfondire la conoscenza tecnica. L’errore fondamentale nell’impostazione dei corsi per curatore nati presso le nostre università consiste nel considerare l’apporto tecnico come un coefficiente di “professionalizzazione” che mal si concilia con l’idea di ricerca della pratiche curatoriali. In realtà la metodologia curatoriale vive soprattutto nell’equilibrio fra le risorse tecniche e le modalità storico-critiche acquisite. Solo attraverso questo equilibrio la formazione dei curatori potrà concorrere nella competizione internazionale, evento cui mira la formazione contemporanea. Proprio per questo bisognerà sfatare la prassi usuale per cui le discipline di ambito letterario e umanistico non abbiano bisogno di tecnica, e per tecnica si intende la conoscenza pratica di determinate applicazioni obbligate dagli aspetti pratici del lavoro curatoriale. In questo non è considerabile l’ipotesi che il curatore sia una entità distaccata dal corpo degli eventi che produce e pertanto che questi possa dirigere attraverso la fluidità dell’organizzazione senza aver percezione di ciò che le decisioni implicano. La tecnica del curatore necessaria per l’alfabetizzazione dei candidati alla disciplina permette di superare attraverso la fase conoscitiva quelle difficoltà pratiche che sono nell’applicazione di standard e di FAQ reiterati attraverso l’esperienza. Ma in questo caso, differentemente dalla la storia e dalla pratica letteraria, il mestiere del curatore è come quello dell’archeologo e del geologo, una pratica esperienziale cui applicare determinati valori culturali, nel nostro caso dovuti a particolari e innovativi punti di vista.
La mancata percezione di questo necessario incremento didattico si rileva in particolare nell’osservazione del sistema dell’arte contemporanea, dove la cura critica è spesso attribuita agli artisti. Questi hanno esatta percezione della tecnica, sanno perché ne hanno pratica, quali coefficienti tecnici sono necessari per la realizzazione di determinati eventi. Proprio per questo le Università d’arte in paesi diversi dal nostro hanno applicato lo standard misto in scuole integrate in cui le prospettive artistiche e curatoriali sono poste sullo stesso piano come conseguenze normali di uno sviluppo pratico e teorico. Di contro la cultura universitaria italiana ha la possibilità di rivendicare una propria tradizione di solidi studi storico-critici. Una tradizione che è per molti versi eccessiva se paragonata con il sistema delle prassi contemporanee. Una realtà in cui può anche capitare di incontrare qualcuno che abbia un ruolo istituzionale e confessi seraficamente di non usare il computer nella convinzione che lo studio umanistico possa esistere senza questa tecnologia. Ma la tecnologia, la tecnica, che sono in questa disciplina, non possono essere superate con la dizione del comando. Poiché, infine, un comando consapevole è quello che conosce, ha percezione teorica e pratica della tecnologia che gestisce, e senza la tecnologia non c’è storia della cura critica, non c’è analisi dell’allestimento, non c’è lo strumento stesso dell’esperienza. Senza il suo strumento tecnologico la metodologia curatoriale non può esistere che come mero esercizio di catalogazione in scheda critica. Ed è proprio nel controllo della tecnica, infine, che la cura critica occasionale e casuale ha libero accesso al lavoro curatoriale, ed è proprio per questo che della sua esperienza questa cura non riesca e non voglia farne consapevolezza storica.

Paola Yacoub & Michel Lasserre, O. V.,

wall data projection, MLAC 2004