Patrizia Mania: Tutti morimmo a stento è il titolo di questo film ma è anche l’inizio di uno dei più bei brani scritti ed interpretati da Fabrizio De André “La ballata degli impiccati” che è probabilmente tra le sue più struggenti ballate. Una scelta, la tua, che già implica una considerazione sul destino dell’umanità, in modo sì cruento ma anche consapevole. Non è una cornice ma è una denominazione, non citazione, credo, ma assonanza, modo per dire di una visione del mondo che è sovrastorica. Non mi sembra, infatti, già solo dal titolo che si possa circostanziare questo film nelle coordinate di questo tempo, tempo di macchine e di robotizzazione, di spossessamento dell’uomo dal sé, come catturato nelle spire della tecnologia. Dunque, non un’invettiva apologetica contro il mondo del qui ed ora, ma una riflessione più ampia sulla condizione umana o forse su un nuovo autunno del Medioevo, nel quale tolte all’umanità le sue prerogative anche sentimentali non le rimarrebbe che l’automatismo accessoriale del far parte anche lei delle macchine, divenirne quasi una sua protesi silente. Hai chiamato motomen queste fusioni di uomini e macchine che non sono un’effettiva ibridazione alla Post Human ma esprimono credo una constatazione di fatto.                                                             Elisabetta Benassi: Tutti morimmo a stento è una riflessione e un’interrogazione rivolta anche al pubblico, è un’affermazione ma anche un imbroglio, una trappola verbale: chi siamo? Chi può affermare “tutti morimmo a stento” senza che la morte lo abbia colto? È necessario il dubbio prima di ogni possibile trasformazione, per diventare consapevoli. E certo i motomen non siamo noi ora, nel nostro adesso, ma ciò che tutti potremmo essere o diventare, o che siamo già, senza saperlo. Quindi senza dover necessariamente immaginare un mondo governato dalle macchine o dalle protesi tecniche, un presente visto dal futuro, ma un presente visto con lo sguardo di chi è non sopravvissuto.

P.M.: Del resto, un invito a superare e a non limitare il giudizio a troppo restrittive coordinate di tempo è dato proprio all’inizio del film dallo scorrere lento della cinepresa su “La parabola dei ciechi” di Peter Bruegel il vecchio, con questo straordinario temporeggiare sui dettagli delle figure, delle cose, del paesaggio che è tanto accurato da sembrare ripresa dal vero del dipinto stesso e non di una sua copia in miniatura. E sconcerta proprio quando l’obiettivo si sposta e il distacco scopre non l’originale ma una riproduzione formato poster appesa alle pareti di un ambiente affastellato di oggetti disposti disordinatamente. E’ l’unico interno rassicurante, benchè privo di figure, visto che fuori all’esterno si compie un rito di impietosa messa in ordine, di risistemazione e assemblaggio dei relitti , delle carcasse di macchine, motocicli e similari in uno sfasciacarrozze. Quel che inquieta è appunto la presenza di “figuranti” che come in uno stato di totale perdita di sè partecipano a questo rito dell’eliminazione e del riciclaggio, inermi destinati anche loro in questa messa in scena a simulare la loro stesa assenza.                                                                                                                                  E.B.: Il quadro di Bruegel e il lento scorrere sui suoi particolari hanno la funzione di creare uno spaesamento, una perdita di punti di riferimento. Dove ci porterà l’artista? Dove ci porteranno quelle mani, quegli sguardi accecati, quei piedi, quei bastoni agitati nel vuoto? Allo stesso tempo, esitare sul quadro è come un invito alla lentezza, a lasciarsi accompagnare e condurre alla cieca mi viene da dire, a essere spettatori di ciò che più avanti accadrà. Siamo noi tutti al tempo stesso ciechi,accecati, carnefici e vittime. Alla fine, quel che resta dei personaggi, nel quadro e nel film, è ancora il loro sguardo, anche se annullato: sono tutti parte di un processo inevitabile, contro cui è impossibile ribellarsi. Tutti procedono verso la propria fine.

P.M.: C’è mi sembra in quanti hanno partecipato prestando il loro corpo, la loro interpretazione alla narrazione un tipo di coinvolgimento non professionale ma quasi di intima immedesimazione con la storia, come fossero stati chiamati ad interpretare sè stessi .Chi sono i tuoi protagonisti?                                                                        E.B.: Nessuno di loro è un professionista, la loro verità è nei volti che ho scelto. Ho cercato delle facce che esprimessero di per sè ciò che sentivo necessario alla storia. Ho chiesto loro di non recitare, solo di essere loro stessi. Alcuni nella vita sono degli artisti, altri sono gli stessi lavoratori delle autodemolizioni che ho incontrato in quei luoghi.

P.M.: Questo immenso affresco istoriato dai relitti dell’umanità con l’umanità si compone di serialità sgomente da reperto dell’archeologia industriale, riprese in un corpo a corpo con l’oggetto che ne sottolinea la tragicità. Osservando questi assemblaggi così reali, di un realismo all’Arman, e così potentemente efficaci nella resa imponente e monumentale mi sembra quasi che l’insieme costruisca un cenotafio, più che una metafora, della condizione umana.                                                                                                                                                         E.B.: Sì, forse il richiamo alla pittura, a quella grande, eroica, non è fuori posto, anche se io ho costruito l’immagine in un senso del tutto diverso, di frammento caotico cui nessuno sguardo, neppure il mio, può restituire un senso e una vivibilità. Non sono sicura che sia possibile più costruire un ordine monumentale, cioè memorabile, da ricordare e tramandare. Ho trovato quelle montagne di rottami e le ho filmate cercando di farle vedere come per la prima volta fuori dal loro contesto di abbandono e pure assolutamente abbandonate, gettate in una inutilità senza rimedio, che non può insegnare nulla e che proprio per questo ci colpisce.

P.M.: Fuori dalla sala in cui viene proiettato il film in una vetrinetta è esposto l’unico oggetto dell’installazione: un paio di occhiali , gli stessi che l’uomo che manovra la gru per seppellire i relitti usa ghignante nel film. Vien quasi da pensare – mi ha suggerito una visitatrice – che improvvisamente costui possa uscire dal film e far anche con te la sarabanda orrorifica prendendoti e mettendoti lì dentro, in quella bara metallica che inghiotte tutto…                                                                                                                                                                                       E.B.: O al contrario è ognuno di noi che potrebbe indossare quegli occhiali. L’inizio è anche la fine, gli occhi e lo sguardo sono i veri protagonisti di questo lavoro.

Elisabetta Benassi, Tutti morimmo a stento, 2003-2004
fotografie di scena/set photographs

Foto Vincenzo Micarelli