A colloquio con Maddalena Mauri, parliamo delle sue ultime opere, dopo l’inaugurazione della mostra Piano d’opera alla galleria L’Albero Celeste di San Gimignano, curata da Steven Music, del suo passaggio tecnico ed in parte iconografico. Nel consueto baillame di figli, amici, cani e gatti cerco di superare il peculiare pudore dell’artista a parlare dei suoi lavori. Secondo la Mauri un artista non ha motivo di parlare del suo lavoro, perché il suo lavoro parla già a sufficienza.

Maria Giovanna Tumino: Il lavoro che hai realizzato per la mostra: I’m not an hunter, lo hai realizzato come tuo solito ad hoc per la mostra, questa è una tua caratteristica, tutto ciò che hai fatto è superato e quasi posto in un tuo dimenticatoio personale, per ogni occasione realizzi un nuovo lavoro.
Maddalena Mauri: Perché sono cose che ho già fatto, e che sento ormai superate, quindi devo fare altro, è sempre così.

M. G. T.: Il tuo paesaggio “quasi naturale” è eticamente connotato, spesso rimanda quasi un monito ad una politica dell’ambiente più equa. Mi riferisco all’uomo/lupo che abbandona la società alla ricerca di un luogo altro, che hai presentato al premio Celeste; al volto infantile che guarda il paesaggio/possibilità di futuro dell’ultima edizione di Incantesimi e infine al “non cacciatore” che da questo tuo paesaggio sta per essere quasi fagocitato. In questo dialogo tra essere umano e paesaggio, quanto è realmente la natura in cui tu vivi e quanto uno spazio mentale?
M. M.: La mia vita è legata alla natura, già la scelta del posto in cui vivo, dà le dimensioni di quanto questo tema mi appartenga, ma questo paesaggio non è reale, lo potrei definire forse “classico” o “storico”, mi fa pensare al Medioevo, al Rinascimento, non è copia dal vero. È un mio spazio personale che invento e in cui mi perdo ogni volta che lo disegno, di cui sento i profumi, ma oggettivamente non è reale.

M. G. T.: La tua ricerca degli ultimi tre anni, che si è esplicata nella scelta tecnica della grafite/anilina, si è anche orientata ad iconografie diverse basate sul dialogo tra figura umana e natura, generalmente scandite in tre pezzi.
M. M.: Sì, tutti questi ultimi lavori sono organizzati in tre pezzi, c’è il paesaggio con l’uragano che si sposta, c’è il giovane che guarda e nel quadro con la figura intera c’è il personaggio che si guarda i piedi e, se guardi con attenzione, c’è l’erba che crescendo a dismisura sta per bloccarlo e saltargli addosso. Prima c’è il paesaggio senza nessuno, poi la figura in mezzo al paesaggio che guarda, e poi la consapevolezza che sta per avvenire qualcosa di brutto, infatti il giovane ha una espressione perplessa, perché pur non essendo un cacciatore, uno che sta cercando di fare chissà cosa, anzi è una persona normalissima, che non vuole vincere su nessun altro ma che si trova in mezzo “ad un’erba molto agitata e cattiva”. È una persona cosciente del dramma che sta per avvenire, che non ha fatto nulla per trovarcisi, ma che non può fare altro che aspettare l’ineluttabile, e afferma con la sua staticità e con la sua immobilità di non essere un cacciatore.

M. G. T.: Hai ripreso a scrivere sui dipinti, è la prima volta da quando usi la grafite\anilina che hai ripreso ad aggiungere il testo, non hai saputo resistere?
M. M.: È una forma di ipercomunicazione, non mi basta il quadro devo aggiungere la “didascalia”, in modo tale che non ci siano eventuali fraintendimenti, per affermare che io voglio dire quello! Come se dicessi a chi guarda il mio lavoro, leggi e guarda e poi non puoi non capire. Sì, è come la didascalia delle favole, se leggi Cappuccetto rosso e vedi sotto la didascalia che dice in che preciso momento della narrazione ti trovi, non puoi equivocare. Così il mio personaggio non è un cacciatore, non lo puoi pensare.

M.G.T.: Tutti questi personaggi hanno una età precisa, il momento di passaggio dall’infanzia all’età dell’autonomia, quasi adulti.
M.M.: È proprio il momento in cui ti scopri essere umano, quello in cui poi ci fermiamo un po’ tutti, in cui scopri di pensare e ragionare, da quel momento non cambi più tanto e in fondo non sei neanche tanto cambiato prima, è il momento della consapevolezza. Penso che le basi siano quelle e quelle restino, difficilmente può cambiare radicalmente qualcosa, cambi negli approcci, cambi nelle modalità ma comunque quello che eri sei, ed eri anche prima ma non lo sapevi e te ne accorgi. È la presa di coscienza dell’essere umano, quella che “ritraggo”. Ma l’angoscia viene anche da questo periodo storico che stiamo vivendo, il crollo del capitalismo come lo abbiamo conosciuto finora. Il passaggio da un sistema basato sul petrolio ad altro, la decadenza di quella che è stata finora la superpotenza mondiale. L’incalzare dei colossi asiatici, l’India e la Cina sono il futuro economico e tutto questo non sta avvenendo in modo indolore, anzi. Ogni giorno muoiono ragazzi giovanissimi tra Afghanistan e Iraq che potrebbero essere figli di chiunque di noi per imporre una democrazia che nessuno ha mai chiesto, e dobbiamo chiamarli eroi questi poveri ragazzi? Si effettivamente le mie sono immagini angosciose ma vivendo tutto questo come fai a non essere angosciato?

M. G. T.: Il tuo lavoro rimanda alle ricerche neoespressioniste degli anni ottanta, questo tuo percorso è nato in qualche modo legato alla Transavanguardia?
M. M.: Quando io ho iniziato a fare vedere i miei lavori in giro tutti mi dicevano “come sei espressionista”, “come sei vicina alla Transavaguardia” e me lo diceva anche Simonetta Lux quando ha conosciuto i miei lavori. Ma io purtroppo in quegli anni ero totalmente rinchiusa in me stessa e totalmente estranea al resto dell’Universo, quindi ignoravo l’esistenza della Transavanguardia, di questo movimento, di questi cinque artisti, di questo teorico. La prima mostra che ho visto vicina alla Transavanguardia era di questo pittore viterbese di cui non ricordo il nome, ad una mostra collettiva. Comunque me l’ha fatta conoscere Simonetta Lux, mi disse dell’esistenza di un critico che seguiva questo movimento. Io non avevo neanche la scusante della giovane età, avrò avuto ventisei o ventisette anni, ero solo fuori dal mondo, perché se fai l’artista queste cose devi saperle anche se vivi in un paese fuori dal mondo, ma io non le sapevo (ride),devi conoscere l’aria che tira. E dopo ovviamente ho visto le mostre, ho comprato i cataloghi e ho riempito questa lacuna. C’era un universo in cui tante persone facevano delle cose che potevano essere simili alle mie!

M. G. T.: Dopo avere conosciuto i lavori dei transavanguardisti ti sei sentita vicino a loro?
M. M.: Assolutamente no. Nel senso che al di là del fatto che questa fosse la rinascita della figurazione,ed io facevo figurativo, non mi ci riconoscevo per niente. Perché per me che avevo fatto sempre e solo figurazione nella vita questa idea di un ritorno mi sembrava estranea. In quegli anni poi i miei amici e coetanei artisti non mi invitavano alle mostre che organizzavano perché visto che io facevo figurativo ero troppo “indietro” rispetto a loro che facevano le installazioni. Però la prima volta che hanno ritirato fuori la figurazione è stata la Transavanguardia allora io in questo mi sono ritrovata.

M.G.T.: Ho letto in questo cambiamento di tecnica una ulteriore possibilità di immediatezza espressiva, per poter essere più veloce nel “parlare” con la tua arte.Sembra un abbandono di ogni orpello, la ricerca di una essenzialità tecnica e formale sempre più ostentata. L’immediatezza è sempre stata una tua cifra stilistica, l’anilina e adesso il colorante alimentare insieme alla grafite hanno aumentato questa velocità della resa pittorica?
M. M.: Al contrario, per la prima volta sto utilizzando una tecnica che mi impone di riflettere più a lungo, non è come con i colori acrilici, con il pennello, è l’esatto contrario perché ricopro la carta telata di grafite e poi la tolgo. È un lavoro fatto togliendo la grafite con la gomma, con le mani e con quello che ho sottomano in quel momento. Ma è un processo più lungo che non permette ripensamenti, perché lascerebbero traccia, che mi impone di essere concentrata totalmente, più che con altre modalità, questa concentrazione mi porta assolutamente altrove, quasi a vivere i miei paesaggi.Indubbiamente questa tecnica è una semplificazione, anche se mi toglie la velocità di realizzazione, la mia aspirazione sarebbe arrivare ad una pittura perfetta come quella di Hokusai: la semplificazione massima. In fondo usare la grafite e dopo l’anilina, adesso il colorante alimentare, mi sembra una giusta strada. Il colore forse è ancora un legame all’estetica che dovrei abbandonare per raggiungere una maggiore essenzialità, ma al momento va bene così.

 

Dall’alto:

Maddalena Mauri, Senza Titolo, 2003, particolare, grafite e anilina su carta telata, Incantesimi 2004, IV edizione Bomarzo.
Maddalena Mauri, Senza Titolo, 2005, grafite e anilina su carta telata, mostra finale Premio Celeste 2005, Siena.

Maddalena Mauri, I am not an hunter, 2006, colorante alimentare e grafite su carta telata, particolare, Galleria Albero Celeste, 2006, San Gimignano.
Maddalena Mauri, I am not an hunter, 2006, colorante alimentare e grafite su carta telata, particolare, galleria Albero Celeste, 2006 San Gimignano