Dopo Architettura mobile, al Museo Laboratorio dell’Università “La Sapienza” di Roma, e Pietravoce, al Museo della Pietra di Ausonia, lavori presentati nel 2004, Fabrizio Crisafulli realizza nel 2005 altre installazioni di luce, un tipo di intervento che costantemente affianca alla sua produzione teatrale (cfr. www.fabriziocrisafulli.it). Attraverso la lettura di questi ultimi lavori installativi è possibile precisare natura e sviluppi della sua peculiare concezione di questo mezzo. Cosa di particolare interesse oggi che la luce sembra sempre più presente nella ricerca artistica, sull’onda di Turrell e Irwin, di Bruce Nauman o Larry Bell, Maria Nordman, Eric Orr, Doug Wheeler, fino alle molte recenti installazioni dello scandinavo Olafur Eliasson, il cui straordinario “sole” trasportato alla Tate Gallery appare emblematico di questa presenza.

Crisafulli usa la luce quale elemento energetico autonomo, liberato, come movimento e azione, figura, presenza viva. Come entità individuata, apparentemente svincolata dalla fonte, capace di “camminare” lentamente, come un animale; di ascoltare e analizzare come un essere intelligente; come quando va ad assumere ed evidenziare linee energetiche di forze preesistenti, quali quelle delle strutture architettoniche. La sua luce è sempre in rapporto con gli oggetti, l’architettura, il monumento archeologico, o con l’elemento umano; con dei corpi insomma, con i quali scambia messaggi di identificazione, rispecchiamento, scambio o cancellazione. È “segno” di energia pura che costantemente incontra la materia, che ricerca la diversità, e allo stesso tempo un’originaria, misteriosa unità (Louis Kahn, architetto delle masse più ponderose, diceva: «Tutta la materia è luce. È la luce che, quando termina di essere luce, diventa materia. Nel silenzio c’è tensione verso l’espressione, nella luce tensione verso l’opera […]. Perciò le montagne sono luce esaurita; così le correnti, l’aria, tu stesso»).

A Scandicci, con Magnetica City, installazione creata in collaborazione con Scandicci Cultura e con il Teatro Studio di Giancarlo Cauteruccio, Crisafulli, con i suoi studenti dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, opera con il computer direttamente sulla luce per creare proiezioni di forme dinamiche e in continuo cambiamento cromatico, che coincidono perfettamente con le forme della facciata di un edificio neo-razionalista. Un uso del mezzo piuttosto trasgressivo, che riporta il digitale alla materia, l’oggetto, lo spazio, il luogo reali. Con importante apporto sul piano teorico, in una fase nella quale la luce elettronica tende a diventare oggetto in sé, ma virtuale, e al di fuori di qualsiasi contatto e relazione con il mondo fisico. Se quest’ultima, che intrattiene il suo unico rapporto con il codice numerico, usata nelle sue qualità peculiari, crea immagini che si liberano dalle leggi dello spazio e del tempo terrestri per accedere a logiche non esperibili, non umane (lo spazio “utopico” di Edmond Couchot, svincolato dal punto di vista), la luce di questo artista trova nella materia e nella sua memoria, la propria matrice; i motivi della propria indagine, il proprio senso, la propria attrazione.

L’arte di Crisafulli – le installazioni come il teatro – si fonda interamente sul rapporto con l’altro, sulla questione dell’ascolto, sull’individuazione dell’identità e del limite, dell’altro e proprio (limite come punto da cui il rapporto comincia).

In Azioni di luce e luce, installazione realizzata per il festival Incontrosensi, il luogo struttura le immagini video e la loro collocazione. Il lavoro è ospitato – ma appunto sceglie di ribaltare questo rapporto e di farsene piuttosto strutturare – dal Museo Laboratorio di Città Sant’Angelo, nell’antica Manifattura Tabacchi. I corpi umani ripresi in video (degli artisti-performer-allievi partecipanti al laboratorio) rimangono interi dove il luogo che li ospita offre a questo un senso, come nel caso di una sorta di immaginifica cariatide capovolta, che va ad incastonarsi nell’angolo dove nasce una volta architettonica, o quelli di due danzatori che lasciano comporre la loro danza dallo spazio e dalle pareti di una nicchia. Oppure sono tagliati dallo spazio, come una testa, una sorta di maschera di Medusa, che si colloca e si incastona, in alto, al centro di una parete che termina ad arco; o come le due braccia che vanno ad occupare lo sviluppo verticale dei due vani di una finestra. Finestra che così, tra l’altro, si fa schermo (opaco) di immagini, in un senso ribaltato rispetto alla sua quotidiana funzione di schermo (trasparente), producendo nello stesso momento una ritrovata consapevolezza e uno smarrimento per la perdita dei punti di riferimento consueti.

La sensibilità al luogo è sempre un aspetto fondamentale dell’arte di Crisafulli. Parte della sua ricerca teatrale si configura come “teatro dei luoghi”, ovvero un’esperienza in cui lo spettacolo teatrale si crea a partire da un luogo, il luogo stesso, fisico storico e antropologico, dove esso si svolge. Un’esperienza che fa del luogo, come scrive Crisafulli, il “testo” dello spettacolo.

Questo senso fortissimo del luogo, di un luogo tutt’altro che casuale o intercambiale, che è individuato e perciò individuante, che è presenza attiva e azione, che ha vita e consapevolezza (era questo il genius loci ?), insieme alla sensibilità all’architettura e al contesto urbano, sembra in grado di restituire lo spazio, lo spazio vissuto, quello condensato e salvaguardato dal qui e ora teatrale, che la tele-presenza e il virtuale stanno mettendo in ombra.

Se nei due lavori citati la luce di Crisafulli si confronta con la “massa” architettonica e con il luogo come “testo”, in un’ulteriore grande installazione, Forest and Virtual Buffet, promossa dalla Philip Morris in collaborazione con Synergy Leo Burnett, e realizzata al Muzej “25 Maj” di Belgrado, l’“incontro” avviene sempre con il luogo, ma questa volta inteso in un senso più ampio, antropologico. Si tratta del luogo momentaneo costituito dall’occasione umana della festa inaugurale dell’installazione stessa. In una prima grande sala, tutta bianca, si svolge un vero e proprio ricevimento, con buffet e concerto dal vivo, concepiti, nelle loro dinamiche, dall’artista stesso. Nella stanza attigua, un “buffet virtuale”, ripetizione immaginifica di quello “reale”: entro la volta di un cielo stellato, in un ambiente sonoro di tintinnii e piccole esplosioni, galleggiano due grandi tavoli ovali, come astronavi in quel firmamento. Sui tavoli, che hanno la stessa forma e le stesse proporzioni di quelli del vero ricevimento, è videoproiettato un “buffet” ripreso dall’alto, preliminarmente realizzato con un gruppo di comparse in uno studio televisivo, con tavoli, oggetti e cibi del tutto simili a quelli poi impiegati nella festa: le braccia dei “finti” invitati entrano ed escono dall’ovale-immagine, con ironici giochi di ralenti e accelerazione. Lo spettatore può forse riconoscersi in esse.

Nell’ambiente successivo – una grande sala di 600 mq, tutta nera e buia, speculare, per dimensioni e orientamento, allo spazio bianco del ricevimento, – c’è la “foresta”, popolata da una selva di forme che alludono al luogo antropologico “folla” (il sonoro dell’installazione chiarisce questo aspetto, riproducendo in differita immediata le voci reali delle persone e la musica dal vivo microfonate nella stanza della festa). Forest consiste di 47 aste, lunghe 3- 4 metri e larghe 25 cm, fissate a terra su di un piedistallo, con inclinazioni e direzioni diverse. Qua e là, pendenti dal soffitto, alcune “lune”. Aste e lune sono gli “schermi” sui quali, con il procedimento precedentemente descritto, vengono proiettate forme di luce dinamica esattamente coincidenti. I supporti sono fissi, ma la foresta vive di luce, si muove, pulsa, mostra fibrillazioni, dissolve, torna. Se l’astrazione di queste forme e colori fa pensare a Kandinskij, si tratta però di un Kandinskij trasportato nella cubatura nera di uno spazio “teatrale” e invitato ad eseguire una performance la cui matrice è costituita, secondo il criterio del teatro dei luoghi, dalla situazione stessa e in questo caso da un evento sociale di incontro. La reazione del pubblico di Belgrado, un “pubblico” recentemente bombardato da bombe vere e non solo da bollettini di guerra, è stata di penetrazione di quello spazio e dell’opera, di sperimentazione e misura dei percorsi possibili, di verifica tattile della presenza di corpi, di baci al buio sotto le “lune”.

La luce di Crisafulli è indifferentemente luce di spot teatrali o di lavagne luminose, o di fonti e procedimenti tecnologicamente sofisticati: come quelli ottenuti applicando programmi di montaggio video direttamente alle videoproiezioni (senza la mediazione della ripresa). Ed è insieme luce che si radica nello spazio fisico e nel luogo antropologico, rimanendo in relazione con la materia e con le situazioni trovate. È luce che non sposa acriticamente la tecnologia né assume una posizione antitecnologica; che non desidera chiusura e separatezza. McLuhan, ripercorrendo all’indietro il processo di produzione di un medium dall’altro, risaliva fino alla luce elettrica stessa, indicandola come meta-medium della contemporaneità, capace di inglobare e riconfigurare tutti i media precedenti, letteratura, pittura, teatro. Se il video è forse il mezzo che ontologicamente può svolgere questo compito rimanendo nel figurativo e mantenendo un’analogia con i sistemi fisici – i corpi e le azioni umane lungo il percorso installativo di Azioni di luce e luce erano di quella qualità poetica e tremolante che contraddistingue l’immagine elettronica, nata televisiva e immediatamente assunta dall’arte come uno dei principali baluardi controtelevisivi (Vostell o Nam June Paik, storicamente) –, la luce, e l’arte, di Crisafulli sono portatrici di questa radicalità, di questo arrivare al fondo delle nostre abitudini percettive. Facendosi strumento di un senso morale della nostra contemporaneità.