Francesco Clemente e Iran do Espirito Santo a cura di Paolo Colombo, con il supporto del MAXXI Arte diretto da Anna Mattirolo; Mollino Fragments a cura di Cecilia Bolognesi e Maurizio Navone; Net Web Art a cura di Elena Giulia Rossi e Eleonora De Filippis

23 febbraio – 30 aprile 2006 MAXXI, Museo nazionale delle arti del XXI secolo Via Guido Reni 2, Roma

Il MAXXI procede a passi lenti la sua crescita; intoppi, boccate d’aria, intoppi. Il suo divenire nuovo luogo spettacolare del contemporaneo è sotto gli occhi di tutti, si lascia guardare e si fa anche sempre più scommessa.

A ben altri sguardi possiamo però misurarci, lasciando che certi inganni catturino la nostra mente. Cominciando infatti dal fondo il percorso della mostra che si è da poco inaugurata, e che si protrarrà fino al 30 aprile 2006, l’artista brasiliano Iran do Espirito Santo (Mococa – San Paolo, 1963) mostra quali smarrite visioni può provocare la pura evidenza delle cose. Un’apparente semplice lattina può rimandare ad archetipi mentali, l’oggetto cioè può essere sottratto alla contingenza ed essere trasformato, tale e quale com’è ma non quello che è, in “modello inalterabile e incorruttibile da cui deriva tutta la realtà nelle sue molteplici forme e manifestazioni” (P. Colombo, in Iran do Espirito Santo, catalogo della mostra). Il procedimento sotteso si nutre di molteplici riferimenti storico-artistici, in ripresa e in superamento degli stessi. Dal vicino al lontano, Iran do Espirito Santo attinge dal riduzionismo e dal concettualismo di matrice minimale, dalla tradizione pop nella scelta di oggetti gregari sui quali soffermarsi e, più in lontananza, dalla questione dell’illusionismo di Magritte e dalla scultura di Brancusi nella considerazione dello spazio quale entità che entra e esce dall’opera, per via dei materiali riflettenti e della perfezione della lucidatura, in questo caso tornitura, che non è estranea al fascino per i procedimenti industriali. A prescindere dalla linea storica alla quale ricondurre quel o questo elemento “compositivo”, centrale rimane nella poetica dell’artista la nuova possibilità a cui si offre lo sguardo: l’inciampare sulla realtà per ricadere nell’apparenza delle cose e rialzarsi nella dimensione delle idee. La centralità dello sguardo, quale principale mezzo sensorio-percettivo, è ribadita e messa in evidenza da un’opera chiave presente in mostra, Untitled (Keyhole) del 2002 (e si noti la particolarità del titolo, che come tutta l’opera di Iran, mette l’aspetto narrativo tra parentesi). L’artista ha scolpito in basalto nero il vuoto del buco della serratura (lì dove lo sguardo può osare), l’ha reso lucidissimo e l’ha posto, curando personalmente l’allestimento, ad inizio del proprio percorso espositivo su di un bianco piedistallo. La superficie dell’oggetto riflette lo spazio circostante, permette dunque di vedere “attraverso” se stesso ed, infine, annuncia che lo sguardo tornerà indietro per essere dirottato altrove.

A Francesco Clemente (Napoli, 1952) è dedicata l’altra parte dello spazio espositivo del MAXXI. Il visitatore, dotandosi di piantina su cui sono riportate le didascalie delle opere, potrà avventurarsi fra le grandi tele che appartengono al ciclo Tandoori Satori datate fra il 2003 e il 2005. Nelle opere che l’artista porta a Roma le immagini dipinte innescano sorprendenti e a tratti ironiche antinomie, come quella di un pavone che non può ammirare la propria bellezza. Si tratta di grandi tele di lino, dipinte ad olio e tempera con colori accesi, che contengono una variegata gamma di simbologie e mostrano l’elevata componente decorativa. Nei testi di catalogo si fa riferimento ai tarocchi, alle carte divinatorie, ad una sintesi che implica rapporti con elementi della spiritualità occidentale e orientale. Le opere di Clemente, così come quelle di tutta la Transavanguardia, di cui l’artista è stato rappresentante, si caratterizzano per un nomadismo che “nobilita lo spazio” e predilige rapporti sincronici più che diacronici. All’iniziale formazione di Clemente concorre tanto la città natia, in cui religiosità, magia e scaramanzia vanno a braccetto con esuberanza e congenita creatività, quanto i viaggi in India, paese al quale si avvicina anche grazie all’amico Alighiero Boetti. Da questi riferimenti culturali parte l’esperienza di Clemente che, fin da subito, negozierà il recupero di tecniche artistiche tradizionali con l’indifferenza verso il buon prodotto definibile manualmente.

Nello spazio esterno del museo è inoltre ospitata Mollino Fragments, originale percorso da compiere attraverso cinque piccoli containers per una veloce e fruibile conoscenza della produzione architettonica, fotografica, di design e di arredamento di Carlo Mollino (1906-1973), irregolare e stravagante personaggio torinese. Queste piccole scatole magiche, per frammenti, riescono a restituire l’immagine di una personalità intrigante, che ha condiviso e contribuito ad arricchire quella particolare fucina di idee e di sregolatezze che è stata Torino dal dopoguerra. Qui Mollino ha lavorato come architetto e designer, si è dedicato con passione allo sci, sport che ha avuto influenza nel lavoro e sulla vita, e ha frequentato nottetempo gli amici, fra cui Giuseppe Pagano, Mino Maccari, Italo Cremona, Carol Rama e molti altri. La mostra non è esauriente e non vuole esserlo, ci riserba il desiderio di un approfondimento.

Se tutto questo non bastasse a soddisfare una visita, il foyer ospita una selezione di arte digitale. Sei artisti e sei opere interagibili dall’osservatore provano a minare, se ancora ne fossimo convinti, l’imperturbabilità della nostra identità.

Dall’alto:

Iran do Espirito Santo, White Box, 2003, marmo, 12×32,6×22,6 cm, Courtesy Galeria Fortes Vilaça, San Paolo_Sao Paulo & Sean Kelly Gallery, New York, Photo Eduardo Ortega.

Francesco Clemente, Clairvoyant, 2004, Olio su tela, 200 x 200 cm, Collezione privata, Anversa_Antwerp, Courtesy Jablonka Galerie, Colonia_Cologne,Photo Nicolai Blomstrand, Bruxelles_Brussels – Courtesy Jablonka Galerie, Colonia_Cologne.

Carlo Mollino Tavolino della serie “arabesco” in legno curvato e cristallo, 1949.

Reinhald Drouhin, Des Fleur, 2003.
http://www.incident.net/works/desfleurs/desfleurs.html