La mostra di Paul McCarthy presentata dalla Whitechapel Gallery di Londra propone un consistente numero di opere recenti del noto e discusso protagonista americano. In galleria sono esposti alcuni lavori dei cicli recenti elaborati dall’artista, opere abbastanza indicative e che confermano la grande capacità tecnico-scenografica dell’autore. Le celebri foto che ritraggono scene di allucinata violenza orgiastica fanno da corollario a oggetti di varia caratura come le Body Sculptures o cicli fotografici che poco hanno dello stile più conosciuto di McCarthy. Di grande interesse per le sue caratteristiche tecniche il Mechanical Pig, una struttura di complesse tecnologie elettroniche che comandano i movimenti di un siliconico maiale sognante dalla resa veristica e che con i suoi sospiri, movimenti della coda, ansiti, ci accompagna verso la sala superiore. Qui un verissimo autoritratto scultoreo dell’artista da morto seminudo ci risospinge indietro fra frammenti di corpi, immagini deliranti, urla silenziose. Il tutto corredato da una supertecnologica sala video ed un ciclo fotografico dallo stile minimal assai inusuale per la maggior parte dei visitatori consapevoli. Ma la mostra non finisce così, come una semplice carrellata ben orchestrata delle opere più recenti ed un ancora più recente catalogo realizzato per l’occasione dalla curatrice, Stephanie Rosenthal. Poco distante dalla galleria, infatti, lungo le strade affollate della zona commerciale di Brike Lane si può visitare la seconda parte della mostra dall’impatto ben più devastante. Il luogo è quasi anonimo ma una volta entrati si è all’interno di un capannone di stoccaggio merci e lì realmente si evidenzia l’aspetto più inquietante e anche meno cattivo del lavoro di Paul McCarthy. Se nelle sale della galleria non si riesce a distinguere fra intento dell’artista e horror vacui da questi causato, nell’installazione di Cheshire St. tutto ci appare nella trasparente complessità dell’artificio, del gioco e della sua nausea.
La particolarità di questa mostra ci consente di rilevare determinate osservazioni sulle tendenze in atto nel contesto curatoriale internazionale così ben evidenti a Londra. In particolare la netta separazione fra i due spazi su cui si disloca la mostra dimostra specificamente quali siano le potenzialità curatoriali anche con un singolo artista e quali possibilità siano date per la realizzazione di allestimenti creati appositamente. Nella sala linda della Whitechapel nulla sembra aver avuto una vita propria, ma anzi i materiali esposti ci riportano all’evidente e persistente identità del luogo in cui ci troviamo. In questo caso siamo consapevoli di osservare un’installazione d’arte che sottolinea esplicitamente la sua identità anche attraverso la sparizione di tutto ciò che ne risulta estraneo. Cavi, luci, connessioni, strumenti, quando non direttamente connessi con la proprietà dell’opera esposta spariscono. In questo la cura artistica britannica ha sempre dato il meglio di sé. Nessun altro sistema di scolarizzazione specialistica in arte ha mai avuto una simile impostazione storicamente valida a partire dalle teorie del White Cube, lo spazio che si neutralizza in funzione dell’opera. Alla Whitechapel questa identità dell’installazione rimane vincolata alle semplici identità delle opere e la struttura portante sembra dissolversi fra le prospettive proposte. Ogni sezione ha un suo preciso ordine di tempo e di spazio. La luce rimane impalpabile, quasi provenisse da un luogo altro ed allo scopo di cancellare i giochi di ombre e di riflessione sulle e dalle opere. Così la violenza di alcune immagini ci manifesta tutto il suo rauco e selvaggio apparire e allo stesso modo l’osservatore ne risulta definitivamente assorbito, come partecipe. Qui il bianco dello spazio ha volutamente cancellare ogni storia in funzione della presenza estremista dell’opera di cui non abbiamo più altra memoria. Se vogliamo, questo modello curatoriale restringe di molto le possibilità interpretative alle sue volontà espressive. Nasconde per evitare confusione, crea nello spazio globale la cornice all’evento ed è in questo estrema, oggettiva ed imparziale.
Nella sede poco distante la mostra ci appare nella sua complessità. Qui, nello spazio espanso e privo di strutture espositive, sembra ricrearsi lo studio e qui comprendiamo al meglio in cosa consista il lavoro dell’artista. Gli oggetti esposti, piuttosto che essere rappresentativi, sono dimostrativi. Qui non si parla di sculture ma di oggetti complessi. Allo stesso modo che nelle sale della galleria, anche in questo caso assistiamo ad un grande uso di tecnologia, ma l’assorbiamo in maniera diretta, facendo esperienza del suo accadere anche attraverso ciò che altrimenti sarebbe velato. Collegamenti, ganci, frantumi, calcinacci, rovine. La mostra rende palese lo spazio creativo dell’artista e situa in una sala finale la grande proiezione del documento realizzato dall’autore. Si tratta di un film e di una installazione dal titolo Caribbean Pirates e gli oggetti che popolano la grande sala sono gli oggetti del set cinematografico. Se nel film, in cui rimaniamo avvolti grazie alle multiproiezioni sonore e sincroniche che avvolgono tre parti della sala a questo dedicata, riconosciamo il tratto crudele del lavoro di McCarthy, negli oggetti giganteschi del set individuiamo la “fiction” e ogni sentimento d’orrore si tramuta in sarcasmo ed ironia. Nella roulotte sfondata in cui il protagonista del film, il pirata dal grosso naso rosso, ha selvaggiamente amputato una gamba ad una inerme giovane prigioniera, ritroviamo le tracce di ketchup che nel film sono schizzi di sangue; quei liquami che il pirata lascia scorrere dal suo corpo sono invece succhi di cioccolate fuse e osservando dall’alto la grande imbarcazione che nel film barcolla tragicamente fra i flutti uraganici del mare abbiamo la percezione esatta di ciò che è quell’oggetto: un grande enorme giocattolo di un grande vecchio bambino che gioca con i suoi pupazzi reali come un bambino con i suoi “play mobil”. In questo caso la realizzazione curatoriale ha sottolineato l’impianto laboratoriale, con i suoi strumenti in piena vista, carrelli, casse da imballaggio e porte sfondate. Le video proiezioni in loop incontrano il visitatore in alte ombre che si allungano sulle pareti scalcinate in un freddo e discontinuo evento in cui la finzione ridiventa azione reale. Una finzione in cui eravamo spettatori inermi presso la Whitechapel e di cui adesso siamo ospiti consapevoli.

Paul McCarthy
LaLa Land Parody Paradise
Stephanie Rosenthal, curator
Whitechapel Gallery, London
23 October 2005 – 8 January 2006
www.whitechapel.org
Photo © Paul McCarthy
Courtesy Whitechapel Gallery, London

Dall’alto:
immagini 1/5
Caribbean Pirates, 2001-2005, In collaboration with Damon McCarthy Performance, Photograph, Pirate Party, 2005, © Paul McCarthy, 2005
immagini 5/6
Vista generale del set di Caribbean Pirates(Captain Morgan), 2001-2005, In collaboration with Damon McCarthy. Underwater World,Village, Cakebox, Frigate, 2001-2005. © Paul McCarthy, 2005
immagine 7
Caribbean Pirates(Captain Morgan), 2001-2005, In collaboration with Damon McCarthy. Underwater World, Village, Cakebox, Frigate, 2001-2005, Photo by Anne-Marie Rounkel. © Paul McCarthy, 2005
immagini 8/9
Pirate Drawing Large, 2001, © Paul McCarthy, 2005
Pirate Drawing Small, 2001, © Paul McCarthy, 2005
immagini 10/13
Newport Caroler Mimic, 2005, © Paul McCarthy, 2005
Mechanical Pig, 2005, Silicone, platinum/fiberglass, metal, electrical components 101,6 x 147,3 x 157,5 cm, Photo by Wilfried Petzi, Courtesy Haus der Kunst, Munich, © Paul McCarthy, 2005
Body Related Sculptures, 2004-5, Process photograph, heads on the table, © Paul McCarthy, 2005
Ritratto dell’artista, 2005