Toti Scialoja, opere inedite 1986/1997, Auditorium Parco della Musica, Foyer Sinopoli, 7/10/2005-18/11/2005

Il 7/10/2005 si è inaugurata all’Auditorium, Parco della musica, la mostra Toti Scialoja, opere inedite 1986/1997, a cura di Fabrizio D’Amico e Claudia Terenzi, che espone per la prima volta al pubblico una parte della produzione dell’artista romano rimasta inedita. Il percorso estremamente coerente racconta il gesto di Scialoja attraverso una scelta di opere realmente significativa. Dalle opere storiche, Persecuzione del ’57 tela nata immediatamente dopo il viaggio a New York, maturata vicino agli artisti dell’Action Painting che nella Thent Street vivevano il vuoto, l’angoscia, l’ira, la disperazione, il bisogno di essere altro, di dare se stessi alla loro arte in una ottica quasi salvifica. Anche Scialoja è posseduto dall’ira Americana, sente l’imperativo di porsi in assoluto sulla tela, di metterci tutto se stesso per “salvarsi”. Abbandona il cavalletto, i colori ad olio, le tele di lino, le preziosità cromatiche, ormai barriere intellettualistiche tra se stesso tutto intero e la tela. Adesso ci sono le canape grezze, il vinavil, simbolo del suo taglio con il passato, di una strada percorsa e conclusa, inchioda a terra le canape che hanno ormai raggiunto importanti dimensioni e inizia ad usare i colori vinilici, più adatti alla sua nuova espressione e a donare quell’opacità materica ai lavori, che Scialoja sposa insieme all’astratto. I colori diventano terrei e scuri, altri dai quadri degli inizi vicini a Mafai, ricerca una assoluta identità tra l’artista, la sua vita, la sua pittura, la sua opera. In questi pochi mesi del ’56 in cui si abbandona al gesto, iniziati a New York, poi in Italia realizza una serie di opere con violenza, quasi aggredendo la tela ed imprimendosi in essa per “perdersi e ritrovarsi in questo magma umano in cui vivi impastato”, come annota sul suo Giornale di Pittura. Da questo fermento interiore, la composizione pittorica appare quasi un grumo materico centrale annodato, senza spessori e luci, da cui si originano elementi quasi scritturali, i colori sono le terre, l’ocra il bianco ed il nero, alterna il dripping alle campiture per ottenere la scansione e violenza luminosa, come si vede in Persecuzione. Ma è un periodo breve, presto il timore di cadere ”nell’accademia dell’inconscio” ed il bisogno di “indagare il petrolio nero dell’anima”, gli fanno abbandonare il gesto troppo automatico ed inconsapevole, arbitrario come scrive sul Giornale di Pittura. Poi nel ’57 l’Impronta, lo stampaggio sulla tela, come in New York nero, del ‘60 in cui ogni impronta, materia schiumosa e cristallizzata, si aggrappa alla tela, ritmata in una dualità di nero lucido e opaco, leggibile da sinistra a destra in una sequenza ritmica, nella iterazione, scansione temporale, nella ricerca dell’immagine del tempo su cui riflette con Merleau- Ponty. Una scansione di pieni e di vuoti, sottolineata dall’uso di corde che emergono a separare le impronte, iterazione, superficie ed impronta, pausa e battuta. Infine dopo aver “segregato “ le sue impronte in spazi sempre più angusti, passando attraverso i collages, nel ’83 finalmente ritorna al pennello, folgorato dalla pittura nera gestuale di Goja, torna a dipingere direttamente sulla tela e presenta alla Biennale del 1984 la sua nuova stagione in cui le pennellate hanno una andatura ancora ritmica, scandita, per poi diventare sempre più libere e impreviste. E dalla metà degli anni ’80 recupera il gesto. Ritorna alle grandi dimensioni, cerca la ripetizione ritmica che aveva caratterizzato le Impronte e la trova nella ripetizione delle libere pennellate, usando se stesso, tutto il suo corpo, polso, gomito, torsioni e movimenti, sulla tela inchiodata a terra, su cui si muove completamente. Il gesto di Scialoja è consapevole e cosciente, filtrato dalla sua vita intellettuale, in un perfetto equilibrio tra istinto e ragione da sempre ricercato. La funzione salvifica dell’arte, zattera che lo salva dall’alienazione permea questo percorso. La tavolozza di Scialoja muta, forse abbacinato dalla luce siciliana che dice “terrificante”, il colore come sempre “una realtà fisica” come lui stesso l’aveva definito. La vicinanza tra la breve stagione del gesto\New York, e Gibellina è estremamente forte, il periodo siciliano è gioioso e permette all’artista di tornare alle sue origini nella pittura d’azione, che si leggono nelle pennellate arrotondate, nei dripping, nelle colature di colore ormai sontuoso, ritorna all’uso del bianco come comprimario del nero, colori dal verde al rosso, patine color miele rosato, azzurri, e la luce che diventa finalmente protagonista, quasi una riappacificazione con il suo passato. E queste sono proprio le opere inedite che vediamo in mostra, originate dal pennello che finalmente recupera, non più vincolo intellettuale, ma mezzo e si abbandona alla ricchezza cromatica che aveva escluso insieme alla figurazione, la grande energia in un percorso che torna a se. A chiudere il percorso della mostra, ma anche la produzione di Scialoja Per W.D.K. 20.03.1997. l’ultimo quadro dell’artista. Una grande tela quadrata di poco più di due metri per lato, che in omaggio all’amico, artista scomparso, Scialoja calibra in base all’apertura delle braccia di un uomo, quello che De Kooning definiva essere lo spazio del pittore, in una ottica quasi rinascimentale. Su questa tela, veramente emozionante, l’artista dipinge in modo diverso, le pennellate forti e veementi aggrediscono il supporto da ogni direzione pervadendolo, dall’alto, dal basso, altra dalle opere coeve precedenti e successive in Per W.D.K. 20.03.1997. Scialoja sembra imprimere totalmente sulla tela tutto se stesso.

Dall’alto:

Toti Scialoja, Persecuzione, 1957, tempera e vinilico su tela, Fondazione Scialoja

Toti Scialoja, New York Nero, 1960, sabbie, polvere di marmo e vinilico su tela, Fondazione Scialoja

Toti Scialoja, Senza Titolo, 1995, vinilico su canapa, Fondazione Scialoja

Toti Scialoja, Per W.D.K., 20.3.1997, vinilico su canapa, Fondazione Scialoja