Knowledge is contagious. Spread the virus! (Anonimo) C’est l’histoire, le parcours des images, leur transit, et non plus leur représentations qui nous importe
(Frank Perrin)

Devo raccontare una storiella che mi sembra essenziale per iniziare il nostro itinerario: presso una università europea alcuni studiosi stavano argomentando su temi variamente connessi all’educazione e nuove tecnologie, mostrando alcune immagini animate al computer così da rendere evidente il rapporto fra le loro metodologie e i potenziali oggetti di indagine: visivi, astratti, nozionali, valoriali.
Una volta aperto il dibattito, la direttrice di un importante museo locale, crucciata dall’uso disinvolto di immagini celebri, gettò sul tappeto il proprio accorato interrogativo sull’opportunità o meno di utilizzare pubblicamente le immagini di quadri o di altre proprietà intellettuali senza aver assolto agli obblighi previsti in merito. Lo sconcerto era palpabile, benché avesse diversi nomi a seconda dell’episteme cui faceva riferimento nei diversi casi personali e nazionali: in alcuni era evidente si chiamasse “cruccio allarmato”, in altri “fastidiosa dimenticanza”, in altri ancora “inutile seccatura”. Il primo atteggiamento, direi, sembrava appannaggio dei paesi altamente democratici e di scarsa abitudine all’attrito sociale; più simile al secondo approccio quello dei paesi di tradizione coloniale, che conoscono scalinature sociali decisamente più drammatiche; maggiore resistenza allo sgomento proveniva invece dai paesi mediterranei, dove attracco ed invasione si sono storicamente fuse e il melting pot è all’ordine del giorno. Ma certamente eccedo nella schematica banalizzazione con cui cerco di caratterizzare icasticamente le diverse reazioni. 
Sta di fatto che, non da ieri, in diversi angoli del globo (nonché del nostro stesso paese) ci si interroga e ci si stressa sulla vexata quaestio del diritto d’autore e del diritto d’immagine. I sistemi legislativi non sono tutti uguali, anzi per lo più disattenti storicamente a tali questioni, impreparati al diluvio di immagini prodottosi con la diffusione dell’informatica; né la giurisprudenza interviene a livellare le disparità. Le risposte che esperti dei diversi settori possono fornire sono illuminate dalla fiamma dell’esperienza: rassicurante ma presto estinta dal rigore della normatività. Al contrario l’esperto di norme scritte deve frequentemente constatare l’inapplicabilità de facto delle proprie belle lettere. 
Questo intervento cerca di articolare e mettere in ordine alcuni pensieri relativi alla circolazione ed all’uso delle immagini fotografiche nel villaggio globale. La soluzione del problema, tuttavia, esula da queste note: se questo è il vostro obiettivo, cercatevi un altro guru. E cominciamo – com’è mio solito – parlando d’altro: esaminiamo la musica. Fino a qualche tempo fa la musica suonata permetteva di riportare alla mente brani già esistenti riscrivendo e rieseguendone parti, porzioni, refrain oppure citando nel testo cantato intere strofe o frasi celebri di pezzi conosciuti. Qualcuno ha tagliato e incollato pezzi anche nell'(ormai) paleolitico mondo del suono analogico: andrà pure detto che sia Robert Fripp che Brian Eno non disponevano di strumenti digitali all’inizio; ma poi dal momento dell’inserzione nel vivo della nostra cultura di strumentazioni – e forme mentali – tipiche dell’elettronica, la citazione è divenuta prelievo, l’allusione si è stratificata sovrapponendosi nei diversi livelli della composizione (suoni, parole, arrangiamento ecc). Come tutti sanno, questo euforico ripescaggio multilivello è garantito dal tipico mantenimento della qualità del segnale nella generazione/trattamento digitale del suono: il suono digitale non si rovina o altera con l’uso anche ripetuto. Si aggiunga a ciò il notevole vantaggio rappresentato dal fatto che ogni filtraggio digitale non ostacola, né oblitera la qualità dell’originale. La modulazione del segnale è virtualmente totale e reversibile. Il rumore di fondo è assente, semmai si può aggiungere o togliere in quantità selezionate (fra i suoni di alcune batterie elettroniche semiprofessionali vi è anche quello corrispondente alla puntina del giradischi che scorre nei solchi vuoti e incontra i sottilissimi granelli di polvere: 
krshhh..krshhh krshhh).
Insomma la musica contemporanea esibisce in modo pop e quantitativo, ciò che Sterne, Dšblin, Burroughs, Pagliarani e altri letterati hanno fatto da sempre usando e aggiornando in modo vertiginoso il principio letterario dellacontaminatio. Lo stesso principio che esponeva il pubblico antico a drammi teatrali di cui era noto tutto tranne il modo di tagliare e cucire le parti del discorso e le diverse tradizioni narrative da parte di Euripide o Shakespeare, ma anche del giovane Raffaello, Manet ecc. 
Bene, allora continuiamo ad andare per gradi. La house music – per intenderci quella che porta in concerto gruppi non di musicisti ma di DJ ed MC (gente che, come in discoteca, “suona” la musica degli altri) dai Prodigy ai Chemical Brothers agli Underworld – questo genere o tendenza ha affiancato al rock’n’rolll il cut’n’past (taglia-incolla) della logica computeristica operando un sistematico smontaggio e rimontaggio delle più diverse tradizioni musicali. Una decostruzione in cui Hal Foster e compagni troverebbero materia per una ponderata investitura di postmodernità. E: sì sì, bene bravi, però. Però si è prodotto anche un vistoso controeffetto: dagli oggi, dagli domani, qualcuno ha trovato da ridire sul riuso del proprio prodotto intellettuale (e industrial-commerciale), gridando al plagio e aprendo una peculiare caccia alle streghe. Dunque già cori di oooohhhhh da questa parte, e di aaaahhhhh da quest’altra. 
Nelle madripatrie della libera iniziativa la tua libertà finisce dove comincia la mia e, per giove, non si fa più sul mio albero di Natale (parafrasando Don’t Rain on My Parade). Ecco dunque che l’impiastro lenitivo del politically correctinterviene, più o meno alla metà degli anni Novanta, a riparare a questi torti che sono per lo più d’ordine filosofico che non pratico. Nelle note di copertina dei CD – scritte in modo illeggibile, di solito – deve essere riportata una dicitura del tipo: “Nel brano X è contenuto un estratto dal brano Y, cortesia della casa discografica Z”. Ma se le radio, che diffondono per intero la musica degli altri, pagano un tot forfettario alle società di diritti d’autore, scontato dal fatto che sono di per sé anche preziosissime vetrine, al punto che un passaggio in certe radio costa come una pubblicità televisiva; se questo è vero, avrò io pagato, o dovrei pagare, per l’uso di quel frammentino di canzone nel mio brano del mio CD? No. Ho anch’io a mio modo pagato in natura, con quello che in inglese si chiamerebbe un acknowledgment of the source: il riconoscimento dell’origine della citazione. E se t’è piaciuta quella scheggia di musica, ora che sai il titolo del disco, te la compri e te l’ascolti tutta. D’altro canto chi mai acquisterebbe il mio disco solo per trovarci, ripetuti fino alla nausea, quei soli 2,5 secondi di intro da “Le Freak, c’est Chic”? Nessuno. In fondo il problema – ipocritamente celato – risiede tutto lì. L’autore plagiato dice: “il mio pubblico non può aver accesso al mio spettacolo per tramite tuo che glielo dai gratis in versione ridotta”. Io rispondo: “ma da me può sapere cosa hai fatto tu e può scegliere di conoscerti meglio. Ed ecco pagato il mio debito”.
Non è nemmeno vero che non si possa pubblicare un CD in cui un brano sia la versione riarrangiata, o sottilmente contaminata, di una canzone altrui. Accade. Ai Prodigy come a Craig Armstrong che pure è un compositore. Accade – e qui torniamo per un attimo sul nostro terreno – a Sherrie Levine se come lavoro d’arte può mostrare la rifotografatura di una celebre foto d’arte. I due oggetti si presentano difformi di quel tanto che li differenzia (qualcuno verifichi il delta nel costo dei due artefatti) e per quanto potenzialmente indistinguibili, l’uno e l’altro non sono lo stesso.