Una piccola introduzione per far comprendere il mio iniziale approccio alla disciplina dei Visual Studies e come abbia voluto comunque imbarcarmi in una breve e grossolana descrizione di questa materia che rivolge lo sguardo attento verso il contemporaneo di cui facciamo parte e il delicato ma pesante significato della parola ”arte”. Il museo di Roma in Trastevere come sua consuetudine anche quest’anno ha ospitato le fotografie vincitrici del World Press Photo all’interno del festival FotoGrafia. Il World Press Photo è un’organizzazione indipendente e non a scopo di lucro, nata ad Amsterdam nel 1955, cui missione è “incoraggiare alti standards professionali nel fotogiornalismo e promuovere un’informazione libera e senza restrizioni”, meglio nota per il suo concorso che premia le migliori “press photos” dell’anno appena trascorso. Una giuria composta da tredici membri, dopo aver passato in rassegna migliaia di fotografie, incasella, sperando così di riuscire a de-finirle, le vincitrici in dieci categorie, tre per ognuna, permettendoci di ripercorrere gli eventi dell’anno trascorso come fosse un album della famiglia Mondo, mostrandone gioie e dolori, i quali tendono a prevalere. C’è poi la fotografia dell’anno, distinta dalle altre perché riunisce in sé tutti gli attributi cercati dalla giuria, semplicità al fianco del complesso messaggio lanciato dall’immagine, che interroghi e faccia riflettere: semplice, complessa, bella e terrificante. La fotografia vincitrice dell’anno 2005 è del canadese Finbarr O’Reilly dell’agenzia Reuters, la didascalia “una madre e un figlio in un centro d’urgenza alimentare, Tahoua, Niger, 1° Agosto 2005” completa l’immagine fornendo qualche appunto spazio-temporale e ricolloca l’evento catturato nel flusso storico. Queste fotografie per uso giornalistico seguono a grandi linee un percorso che le vuole prima pensate, poi scattate, inviate alle redazioni, scelte, edite, pubblicate, lette velocemente, ossia guardate ma non sempre viste, e abbandonate. Una descrizione che non deve essere presa né come l’unica via, né rigidamente, tanti altri passaggi possono essere inclusi, o esclusi. Poi potrebbe accadere che alcune fotografie siano riprese dal World Press Photo e che alcune siano scelte per la loro autonomia estetica, oltre che per il contenuto, incorniciate e appese alle pareti di un museo dove di solito risiede Arte. Da una loro fruizione rapida nel campo del giornalismo per cui sono nate, vengono lette con calma, al di fuori del loro contesto genitore, per la durata che il visitatore della mostra concederà loro. Nello spazio del museo, o galleria che sia, il rapporto che si instaura fra l’osservatore e l’immagine assume nuova forma: l’immagine è investita di sacralità e rispetto, posta nel museo si ipotizza abbia qualcosa che la distingua dalle altre immagini quotidiane, qualcosa sulla soglia, il confine, da rintracciarsi nel suo aspetto estetico molto probabilmente. Un confine che permette a un comune artefatto o prodotto visivo di essere valutato per le sue qualità estetiche, ed è proprio la ricerca di questa soglia, attraverso l’analisi e la valutazione dell’ampio universo del visuale che inonda, sommerge, ipersatura il quotidiano, lo scopo dei Visual Studies: dalle immagini fotografiche sui giornali, alle pubblicità mandate in loop su schermi piatti nelle stazioni ferroviarie, al film visto al cinema, al volantino dato per strada, alle riviste gravide di pubblicità esplicite e non, al pacco di pesce surgelato e tanto altro ancora appartenente al visuale contemporaneo pornografico, cui scopo è la fascinazione rapida e irrazionale. Questo ammasso multiforme e in continuo mutamento di prodotti umani con un pronunciato aspetto visuale, analizzati dal punto di vista del consumatore in un momento storico in cui ogni cosa tende ad esser visualizzata, è la materia di studio della ormai non più neo disciplina dei Visual Studies, nome accademico con cui è stato comodamente etichettato questo genere di studi caratterizzato da una forte interdisciplinarità. Tre sono i binari principali, immaginandoli aggrovigliati e in alcuni punti persino fusi l’un con l’altro, su cui i Visual Studies si muovono. Partendo dall’idea di cultura come totalità delle attività umane, e non di qualcosa limitato ad una cerchia ristretta, ne deriva il primo binario: la democratizzazione della comunità degli artefatti visuali, che prende in considerazione la possibilità di trovare capacità estetiche, oltre che ideologiche, in un ventaglio di oggetti molto più ampio, evitando sedimentate gerarchie sociali e estetiche. Da questo ne deriva uno spingersi verso ogni angolo del mondo, ossia il secondo binario: la tendenza alla globalizzazione, non che non sia già accaduto in passato, ma questa volta i Visual Studies cercano di non imporre le categorie estetiche dominanti dell’USEA (ossia dell’America e dell’Europa, usando una sigla di P.K. Dick), ma valutano gli artefatti nel loro contesto nativo, ponendosi come una tabula rasa, pronta a carpire la realtà del luogo in cui tale prodotto è pensato e creato, tenendo pure conto delle mescolanze culturali che hanno generato un nuovo milieu frutto di interscambi, una transcultura: la cultura originaria non è cancellata ma modificata, rendendo propri elementi spesso imposti da una cultura dominante e colonizzatrice. Come accennato sopra, i Visual Studies analizzano una vastità di prodotti umani dal punto di vista del consumatore. L’uso della parola consumatore non è casuale. Il legame fra questi prodotti e il bene di consumo, la merce, il commodity , è forte, quasi indivisibile, perché sono “visualizzazioni” spesso nate per uso commerciale, quindi la commodification, terzo binario, è nel loro DNA, se ne avessero. Questa qualità si affianca sovente alla dematerializzazione del prodotto, al suo essere disembodied, ossia al non aver corpo, da non confondere con il supporto, il che permette di concentrarsi maggiormente sui meccanismi di percezione visiva, ossia le tensioni generate fra l’uomo e il prodotto, in un dato contesto. Questa descrizione per aprire gli occhi su quanto ci circonda, su come essere critici nei confronti del contemporaneo visuale d´oggi non dimenticando il contesto storico, inteso anche nell’avanzata delle nuove tecnologie, il contenuto, non solo il più immediato ma cercando di immergersi anche ad un livello più profondo, le potenzialità estetiche e ogni altro aspetto che il prodotto visivo incarna. Sfogliando le pagine di un Vogue del 1977 leggiamo un articolo sulla qualità dei prodotti congelati e l’immagine che l’affianca: sfondo bianco e lamponi, fagiolini, asparagi, mais, mirtilli, compressi e congelati in forma di parallelepipedi e poi usati come mattoncini Lego per una costruzione su un tavolo bianco. È un’immagine del fotografo americano Irving Penn, ormai novantenne, che continua a collaborare con la rivista del gruppo di Condè Nast. Ritroviamo la stessa immagine in un catalogo introdotto dal curatore, fino al 1991 della sezione fotografica del MoMA di New York, John Szarkowski, in cui sono raccolte le nature morte, di Irving Penn. Un esempio, come ce ne sono tanti, per riflettere su quanto ho scritto.

Dall’alto:

Da sopra
Finbar O’reill, Cancada reuters, Niger, 1997.
Irving Penn, Cibi congelati, N.Y., 1997.