Lamberto Pignotti (Firenze, 1926) fonda nel 1963, insieme ad altri poeti, pittori, musicisti e studiosi, il Gruppo ’70 partecipando anche alla nascita del Gruppo ’63.
Poeta visivo e lineare, i suoi lavori figurano in molteplici antologie oltre che nella saggistica italiana e straniera. Al suo attivo si annoverano inoltre numerose pubblicazioni che spaziano dalla poesia alla narrativa alla saggistica sino alla poesia visiva.
Ha partecipato a svariate esposizioni artistiche d’avanguardia nazionali e internazionali ed il suo nome è incluso in enciclopedie artistiche e letterarie ed in cataloghi italiani e stranieri. Le sue opere figurano oggi in prestigiose sedi pubbliche e selezionate collezioni private. Vive a Roma.

Vania Granata: La prima domanda che voglio farti è d’obbligo: cos’è la Poesia Visiva?
Lamberto Pignotti
: Mi verrebbe quasi voglia di risponderti: “cosa non è la Poesia Visiva”, ma in questa circostanza, per la tua tesi di dottorato, ti potrei dare una risposta abbastanza canonica, simile a quella che troveresti in qualche enciclopedia o talvolta sui vocabolari della lingua italiana…

La Poesia Visiva è una forma, una corrente artistica, che coniuga, in varia misura, il codice verbale a quello visivo. Mette ovvero in collegamento l’ambito di quella che è la letteratura, la poesia, la narrativa, da una parte, con l’ambito delle arti visive, pittura, disegno e compagnia bella. Qualcuno potrebbe anche affermare che la poesia visiva è anche sempre esistita, dal momento che simili associazioni di parole e immagini si ritrovano spesso durante i secoli.
A questa osservazione, io rispondo: sì, però c’è la consapevolezza che questi due codici – della parola e dell’immagine – quando entrano in funzione insieme, fanno sì che ciò che viene fuori – ovvero, l’oggetto artistico, l’opera d’arte – sia una cosa diversa dai codici di partenza; ecco, tale fatto non era stato molto ben compreso, in termini di consapevolezza…

E neanche da qualcuno che era arrivato molto vicino a questo tipo di rapporto, di relazione, come i futuristi ed in particolare Marinetti, nonostante tale tema fosse stato trattato in modo pertinente perchè approcciato dallo sfondo, dalla piattaforma dei “media”, delle comunicazioni di massa…

E quindi, dando per scontato che nessun artista quando lavora su questo pianeta può far finta di provenire da Marte o da qualche altra galassia e dire: “io non ne sapevo niente…” è chiaro che un simile processo era nell’aria.
Per quanto riguarda l’incubazione della Poesia Visiva, essa avviene a Firenze, all’inizio degli anni ’60. Il battesimo ufficiale avviene, modestamente, anche con il mio contributo, attraverso un’antologia di 4 volumetti in cui per la prima volta si parla, fin dal titolo, di “poesia visiva” e si mette in luce cosa sia questa “poesia visiva”.

Proseguiamo con toni da favola… Correva l’anno 1965, e l’editore stava a Bologna (Enrico Riccardo Sampietro, si chiamava l’avventuroso editore). Ci venne l’idea di far circolare, allo stato brado, questi non bene identificati poeti visivi e le loro creazioni. E si può dire che all’inizio eravamo tre o quattro autori, poi riuscimmo ad incrementare il numero fino a quindici e convincemmo alcuni amici – magari alcuni erano già poeti sperimentali – a mettere insieme parole e immagini. Tra quelli che abbiamo battezzato ricordo Achille Bonito Oliva, un altro era Emilio Isgrò. Come talent scout non posso lamentarmi…

V.G.: Chi eravate all’inizio, tu e…?
L.P: Beh, facendo un passo indietro bisognerebbe riandare al cosiddetto Gruppo 70.

V.G.: Esattamente, volevo appunto riferirmi al Gruppo 70…
L.P.: Il Gruppo 70 nasce a Firenze esattamente nella primavera del 1963, e si chiama “Gruppo 70” perchè il proposito era quello di agire artisticamente e criticamente non su un futuro fantascientifico, ma su un futuro che noi vedevamo abbastanza prossimo…

V.G.: Certo, circa 7 anni dopo…
L.P.: Esatto. Poi, quando ci riunimmo, venne fuori il problema del nome da dare a questo gruppo. Qualcuno propose “Gruppo ’63”. Io non ero tanto d’accordo perchè notai che già esistevano dei gruppi che si riferivano all’anno di costituzione – il gruppo tedesco 47, per esempio – o che già si chiamavano così: c’era un Gruppo ‘63 di architetti, un altro era un gruppo di quattro pittori romani… Poi nell’ottobre del 1963 a Palermo si costituì proprio il Gruppo 63…

V.G.: E siamo alla fondazione del Gruppo ‘63…
L.P.: Sì, anche io sono stato invitato e vi ho partecipato.

V.G.: Già, e invece per quanto concerne il Gruppo 70, chi apparteneva allo “zoccolo duro”? Eravate tu, Miccini, Chiari… poi chi altro?
L.P.: Ecco, parliamo quindi dello “zoccolo duro” del Gruppo 70; dunque… i poeti erano il sottoscritto ed Eugenio Miccini, poi due musicisti: uno era Giuseppe Chiari, l’altro Silvano Bussotti. Fra i pittori c’era Antonio Bueno che ha poi partecipato anche alle nostre prime performance, per esempio alle Feltrinelli di Firenze, Roma e Milano, al festival dei Due Mondi di Spoleto. In quella edizione partecipava perfino Ezra Pound…

V. G.: Anche Chiari era presente alla riunione con cui si dava inizio al gruppo?
L. P.: Sì, ma sai, non è che lo abbiamo fondato mediante un atto notarile. Eravamo a Firenze, lo fondammo in un bar a Piazza San Marco che era una piazza in cui soggiornavamo spesso perchè era la piazza del Rettorato della Facoltà di Lettere.

V. G.: Ma quanti anni avevi, per curiosità?
L. P.: Beh, era la piazza in cui andavo quando frequentavo l’università. Tra l’altro, all’epoca disegnavo anche dei figurini di moda. Ma sai, a Piazza San Marco c’erano personaggi come Spadolini, Zeffirelli, Albertazzi…

V.G.: …un ambiente piuttosto effervescente, dunque…
L.P.: Già, comunque l’idea del Gruppo 70 era quella di un gruppo interdisciplinare. Non si trattava solo di un gruppo di poeti o di un gruppo di soli pittori, era un gruppo che voleva suscitare un’azione comune e condivisa tra poeti, pittori, musicisti, saggisti, non ufficialmente.
Inoltre, il Gruppo 70, durante i suoi convegni – uno nel ’63, un altro nel ’64- aveva accolto personaggi del profilo di Gillo Dorfles, Luciano Anceschi, Umberto Eco…

V.G.: Il quale proveniva dal Gruppo ’63, tra l’altro…
L.P.: Proveniva, no… stava per confluirvi. Beh, sai, uno fa dello sperimentalismo, della ricerca, dell’avanguardia, guarda lontano e poi fonda o partecipa a un Gruppo 70 o 63, diventa un Poeta Novissimo, o un Poeta Tecnologico o magari un semiologo…

V. G.: Ti interrompo un attimo per proporti una domanda ulteriore: vorrei tu mi parlassi del vostro rapporto con la tecnologia e le comunicazioni di massa. Su questo tema insistevano i convegni a cui accennavi e gli atti erano stati pubblicati sulla rivista “Marcatre”.
Dunque, come mai questa attenzione al tecnologico di quegli anni? Certamente erano anni in cui la tecnologia delle comunicazioni di massa cominciava a radicarsi più profondamente nella società…
L. P.: La prima manifestazione in tal senso – focalizzata su questa interazione tra mass media e società – si tenne nel ‘63 a Firenze; si trattava di una mostra chiamata Tecnologica in cui furono invitati a partecipare poeti, musicisti, pittori… L’esposizione – fin dal titolo – era nata da una mia idea giacché, nel ’62, avevo individuato, scrivendo di poesia per un’importante rivista di Mondadori, “Questo e Altro”, il concetto di “poesia tecnologica”.

Per “poesia tecnologica” intendevo una poesia che attingesse ai linguaggi delle tecnologie delle comunicazioni di massa, alla pubblicità, alla moda, al giornalismo…
In questo saggio, abbastanza lungo, circa la “poesia tecnologica” indicavo anche varie declinazioni della stessa: un uso “mimetico”, oppure “diretto”. C’era anche chi la usava come “corpo estraneo”. Insomma, la poesia tecnologica nasceva da un atteggiamento sperimentale.

Il fatto è importante anche per comprendere la poesia visiva, che non nasceva da un innesto con l’immagine – dunque partendo dalla pittura – ma da uno sperimentalismo della poesia. In qualche modo la poesia tecnologica nasceva da un mettersi in rapporto con un mondo che si andava sempre più tecnologizzando. A quei tempi io parlavo di un “vocabolario secondo”, cioè di un vocabolario che non attingesse più alla parola, ma agli slogan, alle frasi fatte, alle modalità comunicative di stampo mass-tecnologico; d’altronde io sono da sempre stato interessato a fenomeni come la moda, la pubblicità o i fumetti, ovvero a quei testi che presentano una forte qualità visiva.
In sostanza, uno slogan pubblicitario, seppure composto da parole, è già visivo; basta pensare a slogan come: “vota socialista”, “camminate Pirelli”, “brindate Gancia”, oppure, a un altro molto famoso, “contro il logorio della vita moderna”… Queste forme di poesia tecnologica erano antecedenti alla poesia visiva, anche se spesso si parla indifferentemente di poesia tecnologia e di poesia visiva. Ricordo che alcune mostre, come ad esempio quella di Milano allo studio Sant’Andreas, furono fatte nel segno della poesia tecnologica ma, in realtà, pensando alla poesia visiva…

Del resto, questo accavallarsi di definizioni, ricorre anche nel Futurismo dove talvolta indifferentemente si parla di “parole in libertà”, che sono quelle degli scrittori, e di “tavole parolibere” che sono quelle dei pittori. Le voci si associano e qualche volta è impossibile identificarle…
Un mio libro che è stato pubblicato nel ‘67 da Mondadori, intitolato Una forma di lotta – una sorta di forma di lotta contro l’anonimato e la riduzione in serie della civiltà tecnologica – si compone della mera trascrizione di poesie visive nella loro parte verbale. Questo attingeva alle modalità e agli oggetti della moda, della pubblicità, della politica, della burocrazia, della cronaca nera, rosa o gialla, eccetera.

V.G.: Quindi, nel tuo caso, c’è sempre stato una forte interesse per la tecnologia e per le forme di comunicazione mass-mediatica, come la pubblicità. Questi oggetti erano al centro della tua attenzione, ma anche di altri interpreti di quel preciso momento culturale.
Il convegno del ’64 Arte e Tecnologia, organizzato a Firenze da voi, dal Gruppo 70, presentava però anche numerose presenze d’oltreoceano e, segnatamente, quella di alcuni esponenti del gruppo Fluxus. Mi chiedevo come si fosse innescato questo rapporto tra voi intellettuali, artisti e, anche, spesso, amici… e mi interessava rintracciare queste relazioni dal momento che, due anni dopo il convegno, dunque nel 1966, il fluxus-artista Dick Higgins giungeva a codificare il concetto di intermedia e a definirne i contorni sia come prassi, sia come un vero e proprio “campo” di indagine…
L. P.: Potrei parlarti dei rapporti che ci furono in quegli anni tra la Poesia Visiva e il Fluxus; tra l’altro qualcuno era di casa a Firenze, spesso in casa mia, come la Charlotte Moorman….

V. G.: La Moorman, un bel caratterino immagino…
L. P.: Un po’ devo ammetterlo, sì… poi lì a Firenze giravano realmente, o con le loro opere, anche Dick Higgins, George Brecht, Ben Vautier, e molti altri…insomma una certa analogia con il Fluxus c’era, ma anche una certa disparità.
Vedi, tu mi citavi il convegno del ’64, ma precedentemente si era tenuto un altro convegno, Arte e Comunicazione: in sostanza si pensava, anche già in seno al Gruppo 70, ad un recupero, da annettere all’arte: un recupero di elementi provenienti dal “volgo”. Infatti si parlava di “linguaggio neovolgare”: così come gli Stilnovisti e Dante usavano il volgare in opposizione alla lingua ufficiale, il latino, noi usavamo il “neo-volgare tecnologico” per allontanarci, in qualche modo, dalle forme ermetiche o da quelle che potremmo definire – in modo alquanto malevolo, perché privilegiate oltre misura dalla tradizione – petrarchesche…

L’Italia letteraria d’altronde è sempre stata più per Petrarca che per Dante, più per le “parole innamorate”, che sono dominanti anche oggi in televisione, che per le parole corrosive del dissenso. Che il poeta stia al suo posto, magari in una bella torre d’avorio, e non crei grattacapi…

V.G.: Non posso darti torto. La rima baciata, “cuore e amore”…
L.P.: Forse è un po’ carognesca questa contrapposizione, ma, a muso duro, “se carogne son loro, carogne siam pure noi”. Comunque noi partivamo da questo preciso concetto, e cioè che la poesia deve comunicare, non essere ermetica, e comunicare con la forza degli stessi linguaggi impiegati nelle comunicazioni di massa; questo, per mettere un po’ d’ordine nelle dinamiche di quel momento…

V.G.: Torniamo però ancora a quel convegno, Arte e Tecnologia, che avevate tenuto a Forte Belvedere nel 1964. Come ti dicevo, risulta annoverata, proprio in calce agli atti del convegno pubblicati in “Marcatre”, la presenza di Dick Higgins, cioè di uno dei fondatori del Fluxus, che giungerà, due anni dopo, a codificare il concetto di intermedia. L’Intermedia è un concetto che mi piace definire, se si può, “aperto”. Insomma l’intermedialità è il “tra”…
L. P.: Vedi, se dovessi chiedermi una definizione di intermedia ti risponderei che si tratta di una cosa che cerca di unirne due, ma si può pure intenderla nel senso di “passare anche in mezzo”, “tra le cose”, “attraverso”…

V. G.: Un giorno, durante una nostra chiacchierata, avevi definito l’intermedia come “l’arte di passare attraverso”; definizione che trovo, in assoluto, sinteticamente esatta.
Torniamo a Dick Higgins. Nel 1995, questo autore, anziché spiegare tramite un saggio o una pubblicazione quali diversi movimenti artistici risultassero implicati nella genesi e nelle prassi del vasto campo intermediale, traccia un grafico. Questa è un’operazione intermediale che, mediante segni visivi, comunica una teoria. Il grafico in questione è una sorta di “diagramma di Venn”, con cerchi concentrici di dimensioni diverse inscritti l’uno nell’altro. In ognuno di questi cerchi figura, a lettere tipografiche, un componente “genetico” dell’intermedia: Fluxus, Mail Art, Concrete Poetry, Happenings, etc …Tra questi, un cerchio riporta il nome italiano di “Poesia Visiva”.

Ora, come ti dicevo, la partecipazione di Dick Higgins è annoverata nel vostro convegno del 1964, e, proprio due anni dopo questa sua partecipazione, egli formula, in un saggio omonimo, la codificazione del concetto di Intermedia. Inoltre, il concetto di intermedia in America subisce le influenze delle coeve teorie di Marshall McLuhan, il cui nome torna anche in Italia, per esempio negli scritti di Umberto Eco. Insomma, siamo di fronte ad un panorama piuttosto complesso, il cui andamento è tendenzialmente osmotico.
Mi chiedevo se, secondo te, a monte di questi fatti, si possa pensare alla Poesia Visiva come ad una forma intermediale, così come affermava Higgins, tra il codice linguistico e quello visivo-iconico. Tu che ne pensi?
L. P.: Indubbiamente la Poesia Visiva, trattandosi di un’operazione che implica l’uso di due media, quello della lingua e quello delle immagini, è l’area artistica che sostanzialmente si confà di più all’idea di intermedialità. Io stesso, in quel periodo, inaugurai una piccola collana editoriale intitolata “Intermedia”. Chiaramente nel concetto di intermedia ci siamo. Circa il rapporto con gli artisti Fluxus, beh, questo pure è presente. Ci fu un rapportarsi particolarmente intenso sia con autori che con opere fluxus.

C’era la Charlotte Moorman appunto, oppure, un altro esponente che arrivò qui a Firenze personalmente, fu Ben Vautier. Quindi da una parte esisteva un’affinità, anche una simpatia… d’altronde, come giustamente rilevi tu, in America non la chiamavano “visual poetry” ma “poesia visiva”. Poi i convegni stessi, quelli organizzati da Charlotte, circa le avanguardie, beh… ospitavano miei collage di poesia visiva che lei stessa mi chiedeva di fornirle, ci teneva molto. Questo succedeva già negli anni dal ’64 in poi. L’Annual Avant-Garde Festival ha visto spesso le poesie visive: ricordo certe caotiche mostre che lei organizzava sui battelli, sui treni…

V. G. : Beh, d’altronde era una fluxer…
L.P.: Certo, peraltro era moglie di Paik. E poi c’era McLuhan, di cui tra l’altro, all’epoca, alcuni storpiavano scherzosamente – ma neanche tanto – il nome, chiamandolo “maresciallo Mcluhan”…
Comunque, tornando all’argomento di prima, quello che in qualche modo ci divideva da Fluxus era proprio il fronte della “comunicazione”: personalmente li ho spesso trovati un po’ troppo “dadaisti”, un po’ troppo casuali, un po’ faciloni… Io, pur non avendo ossessioni di sistematicità, intendevo comunque occuparmi dei fenomeni legati alla comunicazione con un impegno preciso. Nei fluxers trovavo che poi, per amore della gestualità e della improvvisazione, un po’ tutto potesse far brodo e andare bene…

In ogni caso, le possibili analogie con le correnti del New Dada, della Pop art, con il Nuoveau Realisme e il Fluxus erano chiare e anche dichiarate, non erano affatto rinnegate; era un periodo in cui tutte queste potenzialità si intrecciavano. Tra l’altro, io vengo da un percorso di “formazione” molto influenzato dal Dadaismo e dal Futurismo. Nel 1949 – ero “piccolo”, insomma… – alla festa delle matricole si fece il numero unico di un giornale goliardico, “Il monitore”, praticamente dadaista, con immagini e spunti un po’ simili alla Semaine de bontè di Max Ernst. Tutto sommato mi piaceva una certa idea che conciliava il goliardico, il comico, l’irriverente, il sarcastico, con un tipo di poesia o di arte nuova, e questa era un po’ la mia matrice: da un lato il Dadaismo, di tipo berlinese, che punta all’anarchia dissacrante, e dall’altra il Futurismo che focalizza il suo gesto sulla comunicazione. Due aspetti: uno politico, e uno centrato sulla medialità, che sono poi quelli che si riscontrano nella poesia visiva, giacché la poesia visiva sollecita un rapporto – che è quello che mi affascina e intriga molto – di comunicazione, di relazione… Mi interessano particolarmente le forme d’arte ludica ed edonista per le loro capacità comunicative. Se come poeta, come artista, veicolo, anche nei modi, qualcosa di presuntuoso, accreditato, presupponente, rischio di allontanare la persona che mi ascolta; se invece ti disponi verso l’altro, col tuo lettore o col tuo spettatore, con l’animo di chi lo vuol coinvolgere – e io credo in siffatto rapporto di coinvolgimento, quindi di effettiva comunicazione – ti muovi, in sostanza, verso quel momento che Umberto Eco definisce col titolo di un suo libro Lector in fabula. Secondo me, in un’opera si deve instaurare un rapporto, che sia di adesione, di complicità, oppure anche di conflittualità; se invece mi devo mettere davanti ad un’opera d’arte solo per ammirarla, beh, questa mi sembra una pratica, almeno in chiave di attualità, impraticabile, perversa e superata.

Oggi, in particolare, si deve mirare a coinvolgere; insomma viviamo in una società – quella in cui siamo immersi, quella occidentale – in cui è vero, fino a un certo punto, che si è scritto tutto e si è già visto tutto… insomma, si è mangiato anche troppo. Ma se invece viene fuori qualcuno con qualcosa di insolito, anche ostico, magari non ancora collaudato, siamo disposti anche a prendere un’indigestione pur di evitare che l’arte sia finita, come ci vogliono indurre a pensare i teoreti della morte dell’arte. E credo, tornando al concetto di intermedialità, che proprio agendo sulla interdipendenza dei codici sia più agevole andare avanti nel processo creativo. Ecco perchè io parlo spesso di sinestesia, la teorizzo e la pratico, cosa di cui mi rimprovera amichevolmente anche nel suo libro appena uscito, Gillo Dorfles…

Se invece pensiamo ancora all’arte come al quadretto da appendere alla parete, o alla poesiola da leggere su un libro, si va poco lontano; si finisce nella fiction, perchè ci ostiniamo a riferirci ad un’estetica di vecchio stampo, a un’arte spocchiosa che in qualche modo vorrebbe essere solo ammirata, quando non venerata. Allora sì, che si va incontro alla morte dell’arte…

Ma se si vuole uscire da tale funerea visione, se invece si trova ancora il modo di coinvolgere – in tutti i sensi – il lettore, l’osservatore, il “guardone”, l’arte ancora ci farà scoprire l’hic sunt leones, le terre di nessuno. È ciò che a qualcuno come me fa venir voglia di andare avanti…Dunque, alla prossima puntata.

V. G.: Grazie mille, Lamberto.

La presente intervista è tratta dalla tesi di dottorato in Storia dell’Arte “Il concetto di Intermedia” di Vania Granata.

 

Dall’alto:

Lamberto Pignotti, La super arma, collage-tecnologico, 1964

Lamberto Pignotti, Osate esser bella, 1964

Dick Higgins, Intermedia Chart, 1995, Collezione Luigi Bonotto, Bassano del Grappa