Alla fine degli anni Ottanta ho conosciuto Pierre Martin a Parigi. Viveva in un atelier tutto di legno alle pendici di Montmartre, al 61 di Rue Danremont. Era uno spazio bianco, piccolissimo; pochi metri quadrati in un turbine di musica jazz e di amici bohemien. Mi era stato presentato da Patrizia Mania e Lucilla Meloni, mie amiche d’arte di quegli anni. Lucilla Meloni se n’era invaghita cambiando repentinamente modo di vivere. Lei che esibiva un aplomb da giovane critica dallo stile decisamente perbene era rimasta travolta dalla vita folle di Martin. Nel giro di pochi mesi l’avevamo vista simpaticamente trasformata in una affascinante dark lady: aveva cambiato casa, modo di pensare, modo di vivere. Martin non era un uomo qualunque. Elegante anche nei momenti di estrema indigenza, amava vivere e amava quello che la vita poteva offrirgli senza concedere nulla al sistema borghese di vita collettiva, organizzata e inquadrata. Da questo modello sociale proveniva, e da una borghesia francese ieratica da cui si era dissociato in modo definitivo e senza rimpianti. Viveva alla grande, a suo modo, inseguito da un nugolo di creditori e guai, sempre connessi al suo modello d’economia spicciola e che Pierre Martin osservava con distaccato, sommo disprezzo. Amava la grandeur anche nelle piccole cose. Le occasioni sociali che organizzava erano decise, forti. Poi così come nascevano le sue situazioni finivano, con un rumore di cose infrante, ma Martin era già altrove. Con altri amici, magari, ignari, o consenzienti e spaesati, resi ilari dall’incredibile irrealtà di quei fatti che inesorabilmente segnavano la sua vita. Sterzate burrascose, eventi insondabili.

La sua arte è molto francese, assiduamente legata alla storia dell’informale, dell’astrazione, del gesto immediato alla Mathieu. Le sue inflessioni jazzistiche sono impresse nel lavoro pittorico sotto forma di sbavatura meditata, attenta: dall’incontro devastante e mai dimenticato con Chet Baker, Martin ha più volte dedicato mostre e cicli di lavori al musicista con cui condivideva un modo di sentire la vita, di vivere le sensazioni e odiare il vuoto emotivo del vivere comune.

Quando nelle sale, erano i primi anni Novanta, venne proiettato il celebre Let’s Get Lost di Bruce Weber, dedicato alla vita del grande jazzista americano, Martin rimase chiuso in sala ad assorbire quei fotogrammi per ore e ore. Ci andammo insieme la prima sera. Ne usciva immalinconito e sognante e riprendeva il suo lavoro. Quando decideva che era arrivato il momento di “fare” iniziava a soffiare fra le labbra con quel leggero tentennio del capo che spesso ritroviamo nei parigini “doc” e fumando le sue rosse Craven senza filtro iniziava la danza sulle carte assorbenti, assemblava strani materiali, ritraeva automobili stilizzate, stracciava manifesti per riadattarli, saltellava sui suoi stivaletti con le punte e le suole rinforzate in metallo completamente rapito nel gesto e nella materia. Dipingeva come in trance da ballerino.
Il suo sottofondo continuo era il jazz ad alto volume, incurante di chiunque ne potesse essere infastidito. Era il suo modo di vivere, lo accettavi ed era piacevole. Si faceva mancare tutto, Martin, ma non riusciva a perdersi un’edizione rara di buon Jazz ed un’amplificazione stereo senza distorsioni. I suoi dischi in vinile erano centinaia, tutti straordinariamente perfetti. Il digitale gli sembrava roba d’accatto, mentre i solchi dei dischi neri quasi li sentiva lisciando la superficie con le dita. Ascoltava con un bicchiere di vino bianco in mano, era il suo modo per cercare ispirazione.

Durante l’estate del 1989 Pierre Martin e Lucilla Meloni vennero a vivere a Roma. Per uno strano giro di coincidenze ci ritrovammo ad abitare lo stesso appartamento in Piazza dei Colli Albani di Roma, dove ero capitato su loro invito in uno dei miei continui peregrinaggi fra appartamenti d’amici e stanze in affitto da abbandonare in fretta con i libri e due abiti. Io mi almanaccavo fra la necessità del lavoro e la vita bohemien, Pierre faceva sempre tardi e ci ritrovavano la sera a bere e parlare d’arte sul terrazzo. I vicini “coatti”, che si erano fatti notare per la loro intolleranza tanto da minacciarci con la pistola sotto la cintura, non dissero più nulla, probabilmente erano rimasti anche loro ammaliati da quelle musiche, dalle strane atmosfere emanate dalla figura di Martin e dalla sue eleganza severa e gioiosa. In effetti Martin seduceva così, palesemente. Aveva nei modi e nelle pose lo stile dell’artista riconoscibile, a cui si dà credito perché è così che sono gli artisti. Indossava i suoi abiti ritrovati chissà dove come capi d’alta moda. Calzava il suo inusuale cappello a falde larghe e si incamminava sicuro nelle città che abitava come un Beuys riemerso dalle ombre del tempo. Aveva amato New York, Atene, Istanbul e naturalmente Parigi dove era nato e che conosceva sino ai luoghi più elitari e poetici. Ma Roma era diventata la sua nuova patria. Nel giro di pochi giorni aveva imparato a conoscere i luoghi segreti dove incontrare, le vecchie vinerie, le trattorie veraci. Martin detestava il lusso ostentato ma apprezzava con lo sguardo di René Clair i paesaggi decadenti, ventosi, a tinte forti o bianco/nero in cui a volte lo vedevi assorbito, assorto, prima di iniziare un nuovo ciclo, una nuova esaltante avventura d’arte.

Fra gli artisti con cui ho lavorato, Martin è probabilmente quello più distante da me. Quando riguardo le opere, tante, inverosimilmente tante, che la sua esaltante generosità mi ha dedicato non posso che rintracciare il segno di una distanza interiore, mentale, attitudinaria. Quanto sono sinistramente attratto dalla concettualizzazione negli oggetti e nelle azioni dell’arte tanto più lui era calamitato dentro un fluido sensuale di materiali e di cose, di sottilissime segmentazioni di colori tenui, anch’essi ineluttabilmente parigini. Eppure abbiamo spesso ideato insieme delle cose, parlato di progetti e condiviso istanti.

Martin amava il disegno, la pittura e per rapportarsi con il mondo che voleva sedurre usava regalare piccoli frammenti di opere, cartoline autografe spedite a chi conosceva e attraverso cui comunicare questa sua ardente passione dell’arte. Mi ha spesso regalato colori, matite super professionali, oggetti che attraverso il suo gesto amichevole si caricavano d’una sensualità materica. Con lui nei mesi che sarebbero stati conclusivi della nostra amicizia ho realizzato Puzzle, con miei testi intessuti d’un esistenzialismo drammatico e suoi disegni d’una decadenza sognante. Ne avevamo parlato a lungo incontrandoci nel suo studio in uno dei primi recapiti romani fra i molti che ha poi avuti, poche centinaia di metri dagli studi di Cinecittà dove anch’io in quegli anni abitavo.

Ne era nato un libro per me diverso da quanto avevo fatto prima: in qualche modo un libro che mi ha imposto un cambio radicale dall’estetica teorica in favore di un’affabulazione testualmente esistenziale in cui rimanere invischiati. Piuttosto che scrivermi o chiamarmi per dirmi che era soddisfatto del lavoro Pierre Martin mi spedì un suo lavoro con dedica. Titolo: “No, non sono uno scrittore”. Martin coinvolgeva così, senza grandi aspettative da parte sua, intendo dire, senza motivazioni altre che il puro divertimento, il piacere di fare, creare dal nulla qualcosa che potesse sembrarci bello, piacevole da avere e da vivere. Il suo mondo ti attraeva per questo. Ricreava la vita dalle cose abbandonate e ne faceva oggetti sublimi, carichi di sbandamento emotivo. In qualche modo tutta la sua vita era vissuta attraverso questo sguardo obliquo che causava negli altri uno stordimento, una narcolessia dei sensi. In questa dimensione che Martin viveva c’erano colori grondanti con delicata sinuosità sulla carta, frammenti di tempera, segni incisi di grafite grassa.

Con lui condividevo più che una visione dell’arte una visione della vita, ma questo non vuol dire che Martin non sia stato e non abbia avuto successo come artista. Tenevamo separate le due cose. Non mi ha mia chiesto di presentare e curare una sua mostra e non gli ho mai chiesto di partecipare ad uno dei miei eventi. Rispettavo la sua vita d’artista indipendentemente dal suo sguardo e dal suo stile sulle cose: oggi a dire il vero i suoi lavori mi sembrano anche più interessanti di come mi apparissero allora, chiuso com’ero dentro gli steccati rigidi di quel post concettuale un pò manierato che andava in voga in determinate gallerie presso le quali lavoravo come critico e curatore. Martin riusciva a sedurre con il suo lavoro e riusciva a viverci, anche bene, ma questo a me è sempre sembrato secondario: la sua vita la reputavo più arte di quanto non lo fossero i suoi singoli lavori, i suoi cicli, la sua produzione.
La sua vita è stata un’enorme marachella contro le convenzioni e le stupide falsità della borghesia massificata dal regime televisivo. In questo eravamo più che simili, uguali: insieme avevamo in grande fastidio l’obbligo ai sorrisi idioti perché è buon costume e riceverli dava ad entrambi un senso di vertigine stizzosa ma che Martin esprimeva immediatamente con sarcasmo e cattiveria sprezzante. In quei frangenti la sua arte era il bastone contro gli stupidi: alle cene borghesi non perdeva occasione di ridicolizzare l’idiota di turno con un sorriso perfido da ragazzino impertinente. Eppure erano proprio costoro, spesso, i suoi estimatori, i suoi ammiratori. Pierre Martin non ha mai progettato le strategie dell’arte, ha sempre vissuto infischiandosene della critica e delle chiacchiere su di lui e sulla sua opera. A volte, se trovava piacere nel farlo mostrava i suoi lavori e li vendeva. Se così non era non si dannava, non si scomponeva, non chiedeva mai a qualcuno di fare un mostra per lui. Della storia futura se ne disinteressava. Era avido di vita presente, tutto qui. Eppure i suoi lavori si sono sempre venduti e bene. Se avesse voluto avrebbe potuto “lavorare” con l’arte facendone una professione, ma era appunto questo che egli aborriva. Le sue opere hanno il suo stesso fascino sensuale, sembrano frutto del gesto dinamico di un bambino e forse Martin lo era davvero ancora un bambino e lo è stato sino al suo ultimo respiro a Roma, dove era ritornato con felice determinazione per un’avventura lunga un nuovo anno da vivere. E a Roma ha concluso la sua esperienza d’artista con eleganza così come ha sempre vissuto. Quasi uno schiocco di dita fra l’esserci e la morte. Sino alla fine, sino al suo ultimo respiro.

 

Foto:Domenico Scudero

Da sopra:

Patrizia Mania, Lucilla Meloni e Pierre Martin, Parigi 1989.
Pierre Martin, Senza titolo, pittura ad olio su cartolina spedita via posta, 1992.
Pierre Martin, Senza titolo, pittura a olio su carta, 1988.
Pierre Martin, Senza Titolo (Chet Baker. Quelle Histoire), tecnica mista su stampa laser, 1988.
Pierre Martin, La brioches al cioccolato, olio su cartone, spedito via posta, 1990.
Pierre Martin, Senza titolo, pittura ad olio su fotocopie spedite via posta, 1993.
Pierre Martin, Camuffamento, tecnica mista su carta, 1993.
Pierre Martin, Pepper, tecnica mista su cartoncino spedito via posta, 1994. A destra. Pierre Martin, No, non sono scrittore, collage e tecnica mista su carta, 1994.
Pierre Martin, Garibaldi, tecnica mista su fotocopia inviata via posta, 1990.
Lucilla Meloni e Pierre Martin nei primi anni Novanta.