La IX Biennale di Istanbul si apre negli ampi spazi aperti dell’Antrepo, accanto agli edifici industriali che nei progetti futuri saranno la grande sede centrale del distretto d’arte della megalopoli euro-asiatica. Discorsi taglienti e frasi secche indicano dalle prime battute che si tratta di un evento che vuole sostenersi sui fatti. Charles Esche e Vasif Kortun, curatori di questa edizione, sottolineano che si tratta di una occasione per ripensare al ruolo di Istanbul come icona contemporanea della città. Attenta alla sua particolare stratificazione culturale la città di Istanbul accoglie il lavoro, per certi versi laboratoriale, svolto da molti artisti presenti con il consueto sguardo smaliziato che le è proprio. La babilonia contemporanea si svela così nei suoi recessi e nei suoi anfratti da cui sorgono vestigia sognanti di un altro passato come storia solamente allusiva di cui rimangono visioni frammentate da monumenti incessantemente votati al riuso. Costantinopoli, Bisanzio, Istanbul rivivono così il loro unico destino di capitale che adesso deve necessariamente ricostruirsi come luogo di modello culturale.

 

Lo schema curatoriale è abbastanza semplice: suddivisione degli spazi in misure coordinate e paritetiche; sedi dislocate che riutilizzano spazi in disuso ai quali non è stato sottratto il carattere proprio; sostegno delle attività esterne degli artisti che lo hanno voluto, ma con un limite alla proliferazione; sostegno alla produzione di testi e libri e di opere nate all’interno di workshop; discussioni e seminari. Le sedi sono tutte nel territorio delimitato dalla collina di Taksim nel quartiere di Beyoglu, quindi all’interno di un vasto territorio ma che rapportato alle dimensioni della città è davvero minimo: il Deniz Palace Apartment – appartamenti che conservano la loro identità residenziale -; il Garanti Building – di taglio modernista nei pressi del quartiere delle forniture elettriche – ; l’Antrepo n. 5 – grande spazio adiacente ad Istanbul Modern sulle rive del Bosforo -; il Tabacco Warehouse – stupefacente antica costruzione in legno a ridosso dei quartieri popolosi e delle rivendite di strumenti musicali -; il Bilsar Building – di cui sono usati gli spazi al pian terreno -; la Platform Garanti Contemporary Art e il Garibaldi Building – posti su Istiklal Caddesi, il viale più frequentato per i suoi negozi e locali notturni -, e alcuni luoghi esterni.

 

Per riunificare le varie sedi espositive il Gruppo A12 ha siglato un’invenzione semplice e decisa. Con l’operazione di intervento urbano Istanbul Magenta A12 ha delimitato attraverso l’unificazione cromatica – un magenta molto elaborato – tutti i luoghi in cui l’esposizione si svolge. Un intervento semplicissimo ma di grande impatto. Il segno minimo della striscia pedonale, il cartello, la palizzata o la facciata cromaticamente evidente hanno agevolato le operazioni di transito e di identificazione di luoghi altrimenti difficili da riconoscere ed hanno sollecitato un’immagine complessa dell’esposizione, dall’invito cartaceo alla facciata monumentale degli edifici favorendone la riconoscibilità.

 

Ripensare la città è da molti anni nel lavoro di tanti artisti contemporanei, ma le scelte fatte per questa edizione non sembrano interessarsene. D’altra parte il modello da seguire sembra essere approntato alla ricostruzione di un sistema aperto a differenti dinamiche, in particolare non totalmente compromesse con l’imperativo dell’arte euro-americana, qui scarsamente rappresentata rispetto ai margini consueti. Questo non deve però farci pensare che Istanbul sia indifferente, chiusa, alle dinamiche occidentali. Welcome in Europa dicono i cartelli sui ponti che collegano la parte asiatica all’agglomerato situato nella parte opposta: siamo in Europa. Il crocevia di popoli e nazioni, di geografia e storia si ricostruisce secondo codici e pesi di differente caratura. Ma il peso riconosciuto al sistema occidentale non è di misura inferiore a quello della parte asiatica, o meglio mediorientale. Religioni e sistemi politici che si contendono il primato lasciano qui il loro segno in un contesto non del tutto tranquillo e non alieno da possibili drammatici sviluppi. A poche decine di metri dalle sedi espositive di questa Biennale 2005, suddivisa in diverse “location”, un anno fa un tragico attentato ha devastato la sede dell’ambasciata britannica. Il controllo del territorio avviene attraverso una politica poliziesca che accende di lampi la notte con i suoi caroselli di automobili armate dentro cui viaggiano ostili poliziotti non particolarmente disposti verso il mondo. La folla variopinta di turisti e indigeni, artisti e bohemien avvinti nel turbinio turco che pullula nelle strade dei quartieri più noti della città rimane vincolata da una sottile violenza solamente evocata da questo fragile equilibrio. La questione della città si risolve così in un percorso generato sulle stratificazioni, sociali, politiche, religiose, che sono il patrimonio logico e supremo di ogni sofisticata civiltà. La Biennale col suo scorrere di lavori dedicati, eclettici ma mai decorativi o accessori, riconosce ad Istanbul un preciso primato e ne ricostruisce un carattere che è nel suo patrimonio storico: quindi ancora Bisanzio, Costantinopoli, Istanbul. I suoi quartieri, le sue minoranze austere, le sue chiese e le sue moschee. Uno sguardo più che giovane e attento come giovane e attento è spesso anche il suo pubblico eletto, così diverso e insolito rispetto ai pesanti coaguli di potere con cui spesso l’arte deve fare i conti negli appuntamenti istituzionali. Le scelte sono state quelle di privilegiare le voci nuove attive nell’arte contemporanea, in particolare artisti nati negli anni Settanta, qualcuno non ancora trentenne.

 

Gli “anziani” di questa biennale non hanno ancora compiuto cinquant’anni, come Nedko Solakov, Daniel Bozhkov, Cerith Wyn Ewans, Y.Z. Kami. La lunghezza d’onda dei lavori proposti non genera però disillusioni sul suo statuto culturale: curati gli allestimenti, definiti gli spazi, la giovinezza non è un valore sbandierato. Si tratta di circostanze, certamente volute, ma di cui non si discute. Ciò che qui si elabora è qualcosa di molto serio, mai serioso. Si discute di città, ma cosa sarebbe una città contemporanea senza l’idea stessa di convivenza? Dal tessuto sociale delle mutevoli migrazioni una città riceve la linfa vitale e l’idea del multiculturalismo qui non basta più. Una città vissuta come territorio dei diversi ambiti culturali separati e distinti dalla loro reciproca diffidenza, racchiusi dentro le griglia di una impossibile pacificazione fra le diversità viene dichiarata come esperienza fallita, finita. Ma la Biennale non ci offre un nuovo modello, non ci apre orizzonti di speranza. Semmai sottolinea in diversi momenti di come la questione chiave da analizzare sia quella palestinese. Lì si concentrano le tensioni irrisolte e a tutt’oggi irrisolvibili della modernità diffusa, dei sistemi politici, dell’organizzazione del territorio e del sistema culturale religioso. La modernità è nel suo assetto politico.

 

Istanbul rappresenta oggi uno dei pochi luoghi al mondo in grado di poter ridiscutere la “questione”, non senza frizioni, ma con una buona dose di buona volontà. Buoni rapporti con la cultura israeliana, un occhio di riguardo per quella palestinese: paese laico, islamico, partner irrinunciabile della Nato e degli interessi americani – che sono i principali sostenitori del suo ingresso nella UE – la Turchia vanta ottimi legami con la Russia e i vicini paesi balcanici. La Biennale punta il suo sguardo sulle ragioni che hanno vincolato gli equilibri di pace e coesistenza fra le differenti culture, in particolare sullo snodo religioso e sulle condizioni attraverso cui la ragione debba prevalere sulle questioni di principio sacralizzato. Se ne discute nel lavoro di Ahlam Shibli, Smadar Dreyfus, Yochai Avrahami, Yaron Leshem, Nedko Solakov, Yael Bartana.

 

La Biennale non è solo questo: ci sono lavori sull’altrove e sulla marginalità spesso in aperta contraddizione con l’idea stessa di città. Una città mancata è quella delle periferie distrutte e cancellate dalla toponomastica, ma la città estrema, opposta, quella del rigore moderno, dell’organizzazione può essere un luogo di eguale spaesamento, intrisa di sogni ideali che si autorappresentano privi di dimensione umana. Così il sogno dell’ideale metropolitano si infrange nel segno dell’utopia fallimentare: da un lato la rigida contorsione simmetrica di Axel John Wieder – Jesko Fezer, dall’altro Production Fault del gruppo Hayfrat che elabora un modello critico sulla modernità. La città non è infatti il ridente sobborgo abitativo ma molto spesso il luogo della rabbia e della follia. Nell’installazione presso il Bilsar Building, Dan Perjovschi e Ola Pehrson descrivono la futilità e la disperazione della solitudine in un dialogo introiettivo che termina nel tragico, come nel ritratto complesso e multiforme di Unabomber o nel grafismo allucinato ed autoreferenziale.

 

A ciò si contrappone in maniera netta lo sguardo sornione della giovane arte nata ad Istanbul e qui presente nei lavori molto attuali di Halil Altindere e Ahmet Ögüt. Il primo, presente anche in veste di curatore della sezione Free Kich, dedicata alla giovane arte turca presso lo spazio dell’Antrepo No: 5, espone il video Miss Turkey, stravagante e pieno di trovate divertenti: come il carosello di giovani che allestiscono un set di pallavolo approfittando delle pause pedonali dei semafori nel furibondo traffico di Istanbul. Ma Miss Turkey, video che filma la nuova realtà della megalopoli Istanbul con uno sguardo perfido, è anche un grande e multiforme coacervo di trovate sarcastiche come quando un rapinatore inseguito dalla polizia si fa scudo di un ostaggio opera d’arte “istituzionale”. Il tutto si svolge fra la noncuranza “newyorkese” della folla che scorre su Istiklal Caddesi, centro nevralgico della vita giovanile e fucina delle mode cittadine.

 

In Free Kick, lo stesso Altindere ha allestito uno dei momenti più riusciti della Biennale. Situata al piano rialzato dell’ Antrepo No: 5 questa sezione propone con un allestimento multiplo una visione sulla produzione della più recente arte nuova presente in Turchia. Le tendenze espresse coniugano tradizione e modernità tecnologica in un nugolo di piani e punti di vista spesso inusuali o più incisivamente sarcastici.

 

Questo stesso spirito dissacrante si ritrova nell’opera di un altro giovane presente alla biennale con un lavoro semplice ma molto interessante: Ahmet Ögüt espone una serie di diapositive in loop che raccontano le azioni clandestine dell’artista sulle automobili di sconosciuti occasionalmente trasformate con carta e nastro adesivo in auto di rappresentanza o di funzione sociale. L’opera si racconta non soltanto per la velocità dell’esecuzione pirata ma anche per lo sgomento di chi trova la propria auto trasformata in un simbolo di potere, qui particolarmente temuto, o uno strumento di funzione pubblica come un taxi.

 

Interessante anche la presenza asiatica: in questo caso si tratta di giovani e giovanissimi che hanno già imparato a catalizzare l’attenzione con lievi alterazioni sul tema dell’installazione. Il gruppo coreano Flying City allestisce un parco delle meraviglie usando materiali in disuso e materie povere trasformandole in oggetti da pseudo-design, mentre il gruppo indonesiano RUANGRUPA presenta un’installazione molto vitale basata sull’arte della T shirt di cui si discute il messaggio pop, politico e di appartenenza.

 

Nel caso di RUANGRUPA la memoria di una recentissima avanguardia indonesiana si evidenzia nella particolare predisposizione al lavoro di gruppo; l’identità del gruppo si riflette anche nel sistema di rappresentazione estetica attraverso il vestiario che assume un valore di ulteriore immaginario collettivo. Indipendentemente dalle “icone sociali” rappresentate il gruppo risponde ad esigenze d’identità comuni che riducono in maniera considerevole il consueto rapporto fra individuo e contenitore sociale.

 

Non mancano presenze che sottolineino l’individualismo collettivo dei grandi agglomerati cittadini e la sottile follia che questo comporta. Si tratta molto spesso di installazioni che hanno scelto un rapporto più defilato nei confronti della tecnologia sebbene questa non sia esente. Trattandosi di ritratti della contemporaneità, come nel lavoro di Alexander Ugay e Erik Gröngrich il valore della tecnologia viene dato per assunto apriori: è il caso di Istanbul Guide proposta da Sener Özmen. Si tratta di una guida della città apparentemente simile agli stampati turistici nel formato e nell’immagine frontale ma racconta il lato poetico, immateriale e sognante della metropoli euro-asiatica. La Biennale accoglie questi punti di vista sull’altrove racchiuso negli interstizi dello spazio vitale della città ma dimostra anche una sua logica apertamente colloquiale col contesto cittadino come nel lavoro pubblico di Otto Berchem che ha disseminato le sue scritte al neon nei luoghi dell’esposizione o di Superflex e Jens Haaning che hanno preferito affiggere lo stesso manifesto della IX edizione per le strade di Copenhaghen, sottolineando da una parte la volontà alla disseminazione e dall’altra sollecitando la sottile fluidità della xenofobia razzista presente nelle città nordiche avvinte nella supponenza di se stesse.

 

Negli spazi espositivi si incontrano anche lavori più tradizionali, come l’installazione scultorea e fotografica di Y. Z. Kami, realizzata con un taglio più specificamente museale e che sembra introdurre all’identità di Istanbul Modern: qui, nell’ampio seminterrato, Rosa Martinez ha proposto Center of Gravity, curando un’installazione vincolata alle dinamiche di rappresentanza dell’arte contemporanea. Qui erano spazi immacolati tendenti alla rarefazione e con singoli lavori allestiti secondo le prassi “iperbariche” della realtà museale internazionale. Qui era possibile apprezzare ancora una volta l’iperbolica perizia tecnica di Haluk Akakçe, con le sue mirabolanti forme di transizione elettronica, e qui un grande cartello su cui il nome della curatrice era stampato a caratteri cubitali rispetto a quello degli artisti, tra cui Boltanski, Koons etc., posto all’ingresso ristabiliva le proporzioni ed i rapporti di forza presenti nell’istituzionalità.

 

Foto:Domenico Scudero

Dall’alto:

Sener Özmen, Istanbul Guide, 2005, IX Istanbul Biennal.
Charles Esche e Vasif Kortun presentano alla stampa la IX Istanbul Biennal.
Gli spazi esterni dell’Antrepo No: 5 presso Istanbul Modern. A destra.
Lost in Translation, International Workshop for Art Academies, Antrepo No: 5, IX Istanbul Biennal.
Gruppo A12, Istanbul Magenta, 2005, Antrepo No: 5, IX Istanbul Biennal.
Yochai Avrahami, due particolari di The Negotiations continue, 2004, installazione, Garanti Building, IX Istanbul Biennal.
Yaron Leshem, Village, 2004, digital photo light box, particolare. Garanti Building, IX Istanbul Biennal.
Yael Bartana, Wild Seeds, 2005. Installazione, Platform Garanti Contemporary Art Center, IX Istanbul Biennal.
Axel John Wieder – Jesko Fezer, Urban Condition (Berlin), Garanti Building.
Particolare di Project: Production Fault del gruppo Hayfrat, Hospitality Zone, Antrepo No: 5. IX Istanbul Biennal.
Dan Perjovschi, The Istanbul Drawing, 2005.
Ola Pehrson, Hunt for Unabomber, 2005. Bilsar Building, IX Istanbul Biennal.
Halil Altindere, Miss Turkey, DVD, 2005, Garanti Building, IX Istanbul Biennal.
Free Kick, curatore Halil Antindere, vedute dell’installazione in “Hospitality Zone”, Antrepo No: 5, IX Istanbul Biennal.
Ahmet Ögüt, due particolari di Somebody Else’s Car, 2005, proiezione di diapositive, Tobacco Warehouse, IX Istanbul Biennal.
RUANGRUPA, Kaos Project, 2005, particolari dell’installazione, Garanti Building, IX Istanbul Biennal.
Flying city, All Things Park, 2005, veduta dell’installazione, Tobacco Warehouse, IX Istanbul Biennal.
Erik Gröngrich, New istanbul, Antrepo No: 5, IX Istanbul Biennal.
Otto Berchem, Temporary Person Passing Through, 2005, scritta al neon sulla facciata del Garanti Building, IX Istanbul Biennal.
Alexander Ugay, We are from Texas, 2002 – 2005, particolare, Tobacco Warehouse, IX Istanbul Biennal.
Y.Z. Kami, Konya, 2005, installazione al Garibaldi Building, IX Istanbul Biennal.
Haluk Akakçe, “Center of Gravity”, Istanbul Modern.