La mostra “__________ Please”, inaugurata al MLAC – Museo Laboratorio di Arte Contemporanea il 10 febbraio 2011, è l’occasione per conoscere meglio l’artista Einat Amir.

Chiara Pirozzi: Sei d’origine israeliana, da tempo vivi a New York e attualmente hai una residenza a Parigi. Questi trasferimenti influenzano le tue ricerche? In che modo?
Einat Amir: Quando vivevo in Israele, quattro anni fa, il mio lavoro era fortemente influenzato dal contesto che mi circondava. Israele è un paese molto complicato, lo sappiamo, e questo non potevo ignorarlo, non potevo pensare ad altro quando ero lì. Se osservi i miei vecchi lavori e i miei vecchi video creati in Israele, noterai che hanno una forte connotazione politica, hanno come punto di riferimento la situazione israeliana, specialmente la questione riguardante l’occupazione dei territori palestinesi. Tutto questo non era il principale soggetto dei miei lavori, ma era comunque sempre dentro le opere d’arte. Quando ero in Israele sentivo come artista che questa era una limitazione, sia perché non potevo ignorare tali vicende, sia perché non potevo fare nulla di differente in quanto non avrebbe avuto nessun impatto sulla gente. Questa è una delle motivazioni per le quali ho deciso di andare via e realizzare le mie opere in altri paesi. Non credo che i miei lavori attuali siano influenzati dalla mia nazionalità, il mio approccio resta comunque di tipo socio-politico qualsiasi cosa realizzi.

C.P.: La tua ricerca utilizza principalmente i mezzi della performance e del video. Come li coniughi?
E.A.: L’utilizzo del video occupa un posto molto importante nella mia pratica artistica. Innanzitutto le performance dal vivo rappresentano per me una pratica nuova. L’utilizzo della telecamera è differente a seconda della tipologia di lavori che realizzo. Infatti, talvolta adopero la telecamera esclusivamente come documentazione, senza mostrare il video in galleria e inserendolo solo nel mio archivio; talvolta, invece, considero il video parte integrante della performance. In quest’ultimo caso utilizzo la telecamera in maniera differente rispetto a come la utilizzerei se si trattasse solo di una forma di documentazione, diventa parte integrante del lavoro. Ad esempio: io cammino con l’attore e parliamo con il pubblico e tu, come spettatore, vedi la telecamera che ci segue tutto il tempo. Dunque, se cammino con l’attore e insieme decidiamo di parlare con te, tu non vedrai solo me e l’attore, ma anche la telecamera. Il modo in cui ci risponderai, quindi, non sarà uguale alla forma con la quale ci avresti risposto se questa non ci fosse stata. È differente. La telecamera è parte della performance, è come un’altra persona, perché lavora con noi, non è lontana, è sollevata, si muove, è viva.

C.P.: Puoi parlarci dei tuoi due lavori: Phase Three e _____ Please?
E.A.: Sì, certo. Phase Three è una performance che ho realizzato per la Biennale di New York ed è divisa in quattro fasi. Nel primo video sono presenti tre attori all’interno di una galleria: un interprete, un ex fidanzato e una donna che piange. L’interprete, mentre sta per esporre al pubblico della galleria le opere d’arte, improvvisamente si interrompe e inizia a parlare di se stesso e del suo lavoro d’attore. L’altro attore interpreta l’ex fidanzato dell’artista, cioè il mio ex fidanzato. Così come l’interprete non conosce nulla dei miei lavori, perché non gliene ho mai parlato, anche l’ex fidanzato, che ha bisogno di parlare della nostra relazione e di raccontare la nostra storia, in realtà non mi conosce, dunque deve improvvisare. Il terzo attore è una donna, che è seduta a terra e piange davanti ad uno specchio rotto sul quale è posizionato un piccolo monitor che la riprende. Gli spettatori interagiscono con la donna che piange, con l’interprete che parla al pubblico in gruppo e con l’ex fidanzato che parla con i singoli spettatori. Contemporaneamente i tre attori consegnano al pubblico i loro bigliettini da visita rendendosi disponibili e contattabili tramite e-mail, anche per un ora, nelle loro case o dovunque essi vogliano. Gli attori vagliano le varie richieste e da questo momento hanno inizio le altre tre performance. Nel secondo video l’interprete è invitato in galleria, nel terzo la donna piangente è invitata a prendere parte ad una funzione religiosa in una chiesa e nel quarto video l’ex fidanzato viene invitato da un gruppo di ragazzi di Brooklyn ad imitare Freddy Mercury.
_____ Please rappresenta una serie di documentazioni di performance che ho realizzato in vari luoghi del mondo. Durante le inaugurazioni realizzo una performance seguendo le stesse regole che consistono nella realizzazione di un casting in ogni luogo: se sono a Roma avrò bisogno di un attore romano, se sono a New York avrò bisogno di un attore newyorkese. Scelto l’attore del luogo, gli chiedo di camminare con me durante l’inaugurazione della mostra e presentarsi ai visitatosi come se fosse un’opera d’arte. L’attore non può parlare di nient’altro, né del suo lavoro, né delle altre persone, né dello spazio. Ma l’attore può anche parlare di me, perché io cammino con lui sottobraccio. È molto semplice ma, nello stesso tempo, per l’attore è molto difficile perché deve improvvisare. Quando poi rivedo le performance nei differenti video, credo sia interessante osservare come attori di differenti paesi interpretino una medesima parte. Si può supporre che il lavoro sia sempre lo stesso ma, poiché la cultura è differente e il pubblico è differente, in realtà il risultato è sempre dissimile. È inoltre molto interessante notare le differenti reazioni avute dalle varie fasce sociali presenti alle inaugurazioni: le interazioni tra l’attore e il pubblico sono infatti state differenti a New York e a Tel Aviv, e saranno differenti anche qui a Roma. Mi piace riflettere su questo.

Micaela Deiana: Ci spiegheresti meglio le differenze nelle reazioni del pubblico di cui parlavi poco fa?
E.A.: Ci sono state grandi differenze che derivavano dalla diversa cultura dei luoghi. A New York la gente è molto aperta ed è normale che a un vernissage tutti chiacchierino, sorridano, che si creino conversazioni anche con persone che non hai mai visto. A Tel Aviv non accade nulla di tutto ciò: le persone sono più diffidenti, durante un’inaugurazione difficilmente un curatore che si crede importante parlerà con te che sei uno sconosciuto. Le persone non vogliono essere disturbate né tantomeno toccate. Se ti avvicini e fai una domanda, penseranno: “Cosa vuoi, perché vuoi parlare con me? Io non voglio parlare con te”. Ognuno vuole stare per conto suo.

M.D.: E come credi reagirà il pubblico romano?
E.A.: Penso che il pubblico di Roma sarà più simile a quello di Tel Aviv piuttosto che a quello newyorkese. Vedremo, sarà stimolante.

M.D.: L’osservazione di queste differenze crea le basi per una riflessione sociologica…
E.A.: Sì, tutto per me è ricerca sociale. La mia opera è dare il potere ad un attore, creare uno spazio e aspettare la reazione del pubblico.

M.D.: Come scegli i tuoi performer?
E.A.: Solitamente non cerco né una bellezza particolare né ricerco persone già famose. Inseguo piuttosto un qualcosa, un dettaglio che sia per me molto interessante. E solitamente capita che il dettaglio che fa la differenza sia quello per cui la persona che ho davanti risulta diversissima dalla mia idea di partenza. Lo so, è strano, ma solitamente è proprio il trovarmi di fronte a qualcosa a cui non avevo minimamente pensato che mi fa capire chi devo scegliere. Il che credo sia molto interessante perché mi aiuta ad ampliare le mie idee e a scoprire cose a cui non avevo pensato.

M.D.: Nel caso del perfomer romano, Aldo?
E.A.: Mi piace Aldo, c’è qualcosa di interessante. E poi è fisicamente diverso dagli altri performer di Please, è più basso, è la prima volta per me creare questo tipo di performance con una persona più piccola di me. Ma mi piace il suo look, così diverso dal prototipo dell’attore hollywoodiano.

M.D.:
Come mai sempre uomini?
E.A.: In questo mio progetto è centrale la dinamica che si instaura da una parte fra me, creatrice, e l’opera che ho creato (quindi il mio controllo su di lui) e dall’altra la dinamica durante la performance, dove sono io a essere controllata da ciò che io stessa ho creato: io sto zitta, non posso parlare, lui guida il mio movimento nello spazio e spesso è molto difficile. È difficile non intervenire, non reagire quando sento il mio nome. E credo che questa dinamica fra chi controlla e chi è controllato possa essere resa meglio in un rapporto uomo e donna, forse perché è il più abituale anche nella vita reale.

M.D.: Ti è mai capitato di non apprezzare l’azione del tuo performer o di aver voglia di fermarlo?
E.A.: È capitato di sentire che l’attore non sviluppava quello che avrei voluto: magari perché sottotono quando invece io l’avrei voluto più dinamico o aggressivo. Ma mi limito a dare piccoli suggerimenti, cerco di intervenire il meno possibile.

M.D.: E dove andrà ____Please?
E.A.: Non lo so. Non è una performance che faccio sempre: per me è un’esperienza molto difficile e anche un po’ umiliante, esposta silenziosa al giudizio delle persone. Quindi lo faccio solo quando sento che può essere importante per la buona riuscita della mostra. Difficile sapere quando si ripeterà.

Video credits:
Sara Abouelkhair
Claudia Staffoli
Veronica Fadda

Dall’alto:

Da 1 a 4 Einat Amir, Phase Three, 2010, videoinstallazione. Courtesy Scaramouche Gallery, New York

5 Einat Amir, John Please, 2009, performance e video, 40 min. Courtesy Scaramouche Gallery, New York

6 Einat Amir, Aldo Please, performance al MLAC, Roma, febbraio 2011. Photo Francesca Paladini

7 e 8 Einat Amir, veduta dell’allestimento della mostra al MLAC, Roma, febbraio 2011. Photo Francesca Paladini