“All the black same I dance my blue head off!”
John Berryman, King David Dances

Altrove ho già insistito sul senso speciale che la parola poetica (nelle sue molteplici accezioni) ha giocato nell’itinerario artistico di Mauro Bortolotti. Una devozione antica e ininterrotta lega l’esercizio compositivo dell’artista umbro alla poesia, ne sostanzia la copiosa produzione di opere (dagli anni cinquanta sino alle più recenti creazioni del nuovo millennio), anche di quelle meno scopertamente assegnabili a questo sostanzioso versante del suo lavoro, ne traduce in segni più o meno facilmente decifrabili un percorso parallelo di letture, di incontri, di meditazioni, certamente più vasto e centrifugo di quanto l’ordinato succedersi delle sue composizioni possa lasciar intendere.
La parola poetica, o letteraria che dir si voglia, si fa compagna di un lungo viaggio, iniziato da subito negli anni giovanili grazie alla precocissima frequentazione dei grandi poeti americani, dei surrealisti francesi, dei “novissimi” italiani, e trasformatosi poi in un inarrestabile vagare alla ricerca delle regioni più oscure e inesplorate del reale e delle sue infinite costellazioni dicibili. La parola poetica è vocazione/volontà di canto (con Eluard, ” fin dai tempi più remoti, la poesia è il linguaggio che canta “) ed è una parola che letta, riletta, ancora risuonante degli echi delle tante letture sedimentatesi nella memoria, si lascia frantumare, sedimentare, manipolare sino a conquistare una novella epifania sonora grazie al gesto rigenerante riservatole dalla musica.
D’altro canto, è la parola poetica a nutrire le fondamenta del pensiero musicale di Bortolotti, ad accenderne i luoghi più infuocati, a illuminarne il senso ora di gioco, ora di memoria, ora di distanza o di vuoto delle sue musiche, a divenire – parafrasando Berryman – “il suo trastullo”, il suo “sogno”, la sua “quiete”; a raccogliersi in superficie o a ritrarsi nelle profondità del tessuto musicale, più che mai viva, sottratta com’è a esistenze e universi palpitanti e diversi. Non posso fare a meno di citare ancora una volta le parole del compositore, dettate poco più di vent’anni fa per un concerto monografico a lui dedicato:

Che cosa è infatti il mio attaccamento di sempre alla poesia (per es. Eliot, Scotellaro, Eluard, Cummings e, successivamente, Giuliani, Marziale, Berryman, Sanguineti ) se non un modo di superare processi linguistici altrimenti congelati? Il contatto con un testo mi libera invitandomi a cercare, a centrare il nucleo espressivo, il punto di massima tensione della poesia o di un verso, o di un frammento e in questo rapporto si realizza la “distrazione” e il distacco da vincoli, da pre-condizionamenti sia di mestiere sia interni alla cultura musicale che si va ‘ritrovando’ e ‘riassumendo’ nell’esercizio di questo ‘sistema di libertà[2].

Come nasce (da dove proviene) la vocazione teatrale di Mauro Bortolotti? E’ un’inclinazione lieve, insinuatasi poco a poco nel suo lavoro, appena pronunciata eppure già intravista tra le righe della sua produzione vocale degli anni sessanta (penso, in particolar modo, alle opere nate sui testi di Alfredo Giuliani), ove nella dilettosa/concettosa prosa musicale si aprivano a sorpresa squarci dotati di una speciale intenzione declamatoria e insieme gestuale.[3] Ed è la parola poetica stessa a custodirne in fondo tutti i segreti e le ragioni – è nel dire la parola che risulta possibile un fare la parola – ed è l’accostamento cauto al teatro a divenire l’unica forma vera, possibile di apertura della scrittura musicale che Bortolotti possa concedersi.
L’incontro con la poesia di Berryman è di quelli esaltanti, rapinosi e non risolvibili nei termini dettati dai codici ormai un po’ infiacchiti dell’avanguardia nei tardi anni settanta: l’innamoramento è subitaneo, ma l’approccio graduale progressivo insistito. Qualcosa attrae fatalmente Bortolotti nel vortice della poesia del non-facile artista americano: ora lo sguardo allucinato che perfora la materia delle cose per metterne a nudo la sostanza; ora il turbinio soverchiante del reale che finisce per colmare di sè una lirica possente, sofferta, eticamente turbata, ma consapevole del proprio ruolo ineludibile nel mondo contemporaneo (un anonimo recensore del “Times Literary Supplement” scriveva come Berryman “sviluppi uno stile espressivo da quella inarticolatezza che l’affascinava e che appartiene al nostro tempo” – un’inarticolatezza che “parla per coloro che vedono i mostri [“Guai ai gelidi mostri” di Luigi Nono negli anni ottanta] impadronirsi del mondo e non hanno trovato un linguaggio coerente per esprimere il loro orrore”).[4] Bortolotti prende nota con cura dei suggerimenti interpretativi di Perosa e li evidenzia dando l’opportunità al musicologo di ricostruire, attraverso la parola dell’ermeneuta selezionata dal musicista, una sorta di decalogo [personalizzato] di iniziazione ai Canti di Berryman e alle sue importanti conquiste, così determinanti ai fini delle successive imprese compositive del Nostro:

egli [Berryman] definisce il sogno come “un panorama dell’intera vita mentale”, scomponibile in molteplici (o addirittura infinite) strutture.Come parlano il linguaggio del negro e del blues, così questi canti parlano il linguaggio “altro” del sogno e dell’allucinazione, dell’inconscio e dell’io dislocato non solo razzialmente, ma psicologicamente.

il linguaggio e’ gravato di intenzioni parodistiche e umoristiche, predilige la battuta di spirito o la boutade magari apparentemente incoerente

Dentro c’è perciò di tutto – dai tormenti individuali agli eventi più angosciosi dell’epoca, dall’assassinio di J. F. Kennedy al Vietnam, dai processi in Russia alle atomiche – ma rifranto, non organizzato, nella ripetizione seriale dei canti.

È dunque poesia dell’io che ingloba e rispecchia la vita del tempo e l’alienazione della società, di cui quella dell’individuo è riflesso. In tal senso ci si discosta violentemente (e comprensibilmente) dai due modelli iniziali di Wordsworth e di Whitman, dalla loro poesia dell’io

Berryman mostra costantemente, assieme ai risultati raggiunti, gli strumenti usati, i mezzi di cui si serve.

Quella del Berryman maturo è una forma e un esempio di grande poesia postmoderna e di un recupero alla poesia della pienezza emotiva e vitale dell’io.

Al centro dell’ispirazione di Berryman sta forse il fascino di essere o diventare poeta; e così al centro della sua poesia egli trova l’io. Ma questo io scopre e fa muovere un mondo del contingente, di vita vissuta, qui, ora, nella sua confusione e nella sua caducità , che affiora e ribolle. Il poeta forse più libresco del secondo Novecento si arrende alla vita, esalta il reale più caotico e tumultuoso[5]

Le travolgenti suggestioni oniriche (e musicali) – chissà , forse, musicali proprio perchè oniriche – attinte alla poesia di Berryman danno vita ad una sorta di ciclo compositivo avviatosi sul finire degli anni settanta con il Quartetto per archi (Preludio a Berryman) (1978, ma edito per i tipi della Edipan nel 1985) e proseguito poi, a qualche anno di distanza, con Room 231: Something black (1981-rev. 2003, anch’esso edito nella sua prima versione dalla Edipan) per voce di soprano e quartetto d’archi e infine con l’inevitabile approdo scenico del Berryman: LetturAzione (1981) per soprano, basso, attori, lettori, danzatrice, gruppo strumentale, nastro magnetico.
Il ciclo è in realtà un percorso aperto, nient’affatto concluso, che consente l’espansione dei materiali attinti all’infinito campionario di umanità di cui si forgia la poesia berrymaniana: se la scrittura per archi, volutamente aperta nelle tante agilissime figurazioni che ne increspano la pasta sonora complessiva, ben si addice a rendere omaggio all’inconsistenza e alla pesantezza[leggerezza] del vivere celebrate dal poeta americano, la voce e il canto (il bisogno della libertà di) irrompono accanto agli archi (e’ ancora un quartetto l’altra voce cui e’ affidato il Berryman più oscuro) nel lavoro successivo, Room 231, ora in maniera delicata e dolcissima (“quasi parlato”, “morendo”, “solo fiato”), ora in modi orrorosi e inquietanti proprio per l’intonazione perduta e per la vaghezza del parlato (le parole si affollano sulle righe del pentagramma per trascolorare poi nei suoni, anch’essi non di rado indefiniti, e viceversa).
Bortolotti elude nel ’78 la scelta testuale, non predilige alcun testo, bensì la parola assente semplicemente evocata dal nome – non poco ingombrante, per la verità , del poeta appena scoperto e già inseguito; non può tuttavia fare a meno di aggiungere la sua parola/voce a quella volutamente sottratta del poeta celebrato per rivolgersi cosi’ ai suoi futuri interlocutori, interpreti e ascoltatori (che fa lo stesso):

Il musicista sa che la sua arte vive di una doppia vita: l’una, segnata dallo scandirsi di un tempo “oggettivo”, misurato dall’incorruttibile metronomo, deve, però, coesistere con l’altra data dal fluire libero di un tempo “interiore”, mutevole come lo stesso scorrere della vita, misterioso come ogni “doppio”, inquietante come sa il filosofo ed ogni uomo cosciente di sè .
Per questo lavoro ho evitato – tranne che per brevi tratti – un tempo scandito dalla battuta, preferendo una notazione propozionale, libera; ma dovrà essere cura degli esecutori cercare e seguire il tempo di ognuno, e insieme di tutti, ogni volta diverso, ogni volta il più vero.
Sento allora di dover dare un consiglio preciso per l’esecuzione: ciascuno dovrà leggere in partitura per poter individuare, percepire le attese, le esitazioni improvvise, le repentine tensioni, proprie ed altrui, così da realizzare infine, senz’altro vincolo che quello reciproco, di un comune sentire, un procedere che sia parte vera dell’uomo, sofferta e vibrante misura del suo istinto vitale[6].
Poco dopo, nel Tiuit (1979) per violoncello il compositore farà scivolare parole e frasi sbocconcellate di E. E. Cummings tra le maglie allentatesi delle strutture sonore affidate all’arco solo e alla sua misteriosa voce (e a quella della sua interprete, tacitamente omaggiata/anagrammata nell’intitolazione del pezzo, Francis Marie Uitti). Sarà poi nuovamente l’abbraccio degli archi – forse di schšnberghiana memoria (ricordo la comparsa della voce negli ultimi due movimenti del Quartetto op. 10, con l’intonazione delle due liriche di Stefan George) a serrarsi attorno alla voce fattasi vera, persona viva in carne e ossa, nella desolata Room 231: [the forth week] Something black, ancora da Berryman.
Banale sarebbe limitarsi alla constatazione della speciale musicalità del verso berrymaniano, rimarcarne la natura tuttasonora di canto non di rado in-traducibile che affonda le radici nel blues e nello slang neroamericano; altrettanto vano segnalare l’indole dialogico-discorsiva di quel verso – talking verse, si dirà – che lascia spazio all’eloquio del poeta e dei suoi molteplici doppi; inutile se si volesse scorgere in tutto ciò la ragione essenziale dell’andare al di là del semplicemente poetabile e musicabile: tutto questo potrà assumere un senso vero soltanto qualora si riuscisse ad ascoltare le inaudite tensioni gestuali insite nella parola poetica di Berryman, quel dilagare verso il canto/danza della parola stessa che le permetterà di sentirsi a suo agio all’interno di un manufatto disomogeneo e composito quale quello realizzato da Bortolotti con LetturAzione all’inizio degli anni ottanta (“Abbiamo suonato per voi, e voi non avete danzato: abbiamo pianto per voi, e non vi siete uniti al lamento. On parle toujours de “l’art religieux”. L’art est religieux.”, dirà Berryman nell’epigrafe alle Delusions, etc., la raccolta cui appartiene il Beethoven Triumphant, vero e proprio cuore pulsante dell’intero lavoro scenico).
Al groviglio delle citazioni testuali, tratte perlopiù dai Dream Songs e dalle Delusions (con innesti minimi da Mallarmè, Eliot, Freeman), Bortolotti intende dare una forma in qualche modo narrativa, vale a dire trasformarle in un itinerario di lettura (musicale) sovrapposto agli originali e aperto, sì, alle varie sollecitazioni delle infinite messinscena possibili, ma dotato di senso proprio nella definizione delle sue interne stazioni, così annunciate in un antico abbozzo del lavoro: 1) l’amore, la donna, la vita; 2) Beethoven Triumphant; 3) il padre, la morte.
Vale la pena a questo punto di ricordare le parole dettate dal poeta per introdurre a suo tempo il lettore americano alla prima edizione della raccolta ‘lavorata’ da Bortolotti: “Il poema , qualunque sia la vasta gamma di personaggi, è essenzialmente su di un personaggio immaginario (non il poeta, non io) chiamato Enrico, un bianco americano sulla mezza età truccato talvolta da menestrello negro, che ha subito una perdita irreversibile e parla di sè talvolta in prima persona, talvolta in terza, talvolta perfino in seconda persona; ha un amico, mai nominato, che gli si rivolge chiamandolo Signor Ossa e varianti del nome”.[7]
L’irruzione prepotente del reale (il “corpo della signora Broscia prima che muoia alla lussuria”, il mondo pieno “di donne che s’abboffano”, le “cosce musicali”, la vecchiaia risparmiata, “una pallottola sul portico di cemento”, la “tomba di questo orribile banchiere che all’alba in Florida si fece saltare le cervella”) crea un varco tra le trame artificiose del linguaggio poetico e finisce per infrangere i fondali di cartapesta e per mettere in scena l’io del soggetto travolto dall’eccedente mostruosità dilagante nel mondo. E così l’evento lontano e incomprensibile (il suicidio del padre), che aveva segnato in nuce l’esistenza (e con essa il destino) del poeta morto anch’esso suicida nel ’71, diviene ad un tempo prefigurazione e attesa del gesto (dell’unico gesto) risolutivo possibile.
Nel citato abbozzo le tre parti segnalate, dotate ciascuna di una precisa indicazione di durata, vengono minuziosamente organizzate nel vario succedersi degli eventi scenico-musicali che le contraddistingue:

I = 14′ ? VIDEO
L’amore la Donna la vita

A) Nastro
B) il Basso + piano e viol. [… ]
C) Lettore “Tu nella casa di pietra”
D) Nastro
E) Lettore “Desiderai”
F) Soprano “…”
G) Lettori “Amarla non l’amo…”
H) il Basso “Concedimi tu insonne…/… alla lussuria”
Entra la Danzatrice
I) Lettore “Astronomie… il tuo coro” continua nastro
L) Lettore + violino 4′ “Sirena mallarmeiana”
Video
M) Lettore “Rimpinzato” Frammenti 5 (4′)
N) Lettore “E si riapre/ che delira….” nel silenzio
O) Soprano Something con quartetto o con chitarra
P) Lettore “Cominciò col turbinio… + video
….all’una e trenta (+ pianoforte)
…..svanì”
Q) Danza (+ pianoforte)

II [= 8′]
Beethoven Triumphant
+ nastri con citazioni beethoveniane

III = 14′

Il Padre – la Morte

A) Accordo tenutissimo/ mus. in fff
Soprano acuto
B) Lettore “Mia madre ha il tuo fucile”
C) Basso “Se tu vieux” Mallarmè
+ pianoforte
D) Lettore “Se la vita è un sandwich.” + lettrice
E) Lettori (duo) “Anche lo amo” + video
F) Nastro + Lettore “La lapide è storta “
G) Quartetto (Preludio a Berryman)
H) Lettore “La fortuna gli diede di conoscere”
I) Soprano “Something black” + quartetto
L) Lettori “Il suo dono declinò” + nastro in crescendo
(ironico)
M) Basso “Concedimi” + danzatrice (come al 2)
Soprano “I carry” + Quartetto

Tra le carte che il compositore custodisce esistono almeno altre due versioni della medesima mappa del lavoro: la versione più completa di questo copione prevede la trascrizione integrale dei testi letti e intonati, così come sono stati prelevati dai Canti originali e giustapposti dal compositore, con l’aggiunta delle didascalie sceniche e, nel riquadro laterale, degli appunti perlopiù manoscritti (tutto il resto è dattiloscritto), inerenti al piano sonoro-musicale, nonchè scenico-visivo dello spettacolo (luci, danza, video, ecc.). E’ utile segnalare che Bortolotti intitola questo abbozzo di sceneggiatura Berryman: Letture, dando rilievo così (ma lo farà poi anche nell’intitolazione più generale del lavoro) alla scelta dei testi e al relativo montaggio che ha governato la messa a punto di questo progetto di teatro musicale: la varietà e il disordine dei caratteri impiegati (i caratteri dattiloscritti, i tanti segni manoscritti – penna, pennarello, matita – e di formato variabile, le cancellature), lungi dal costituire un’attraente materia per raffinati (quanto improbabili) esercizi filologici, ci aiutano non poco a decifrare la genesi del lavoro e confermano le priorità segnalate poco sopra nel corso di questo scritto. I pezzi già nati trovano così la loro naturale collocazione, pensati già in origine quali oggetti da ricomporre all’interno di un più vasto quadro (di un long poem, alla maniera berrymaniana), parti di un tutto continuamente in via di definizione (o rifedinizione, che dir si voglia) e di fatto ineliminabili, nati per esistere laddove sin dal principio erano stati dati – senza saperlo – come possibili esistenti.

* * * Nell’autunno del 2003 il lavoro teatrale di Mauro Bortolotti è stato allestito a Roma nell’ambito delle due serate inaugurali del festival “MusicaExperimento”.La versione di Berryman: LetturAzione, cui si è assistito nelle giornate 15 e 16 novembre 2003 presso l’Auditorium del Goethe Institut-Rom, costituisce una libera rivisitazione del progetto originario, affidata alle cure del regista Pablo Taddei in collaborazione con l’autore. Gli interpreti prescelti (due attori, un soprano, un basso, un quartetto d’archi, un pianoforte [ad libitum]) hanno consentito un’essenzializzazione dell’evento teatrale, riconsegnato stavolta totalmente al gesto dell’attore e al suono della voce/delle voci, degli archi, del pianoforte [io narrante/Bortolotti], del nastro magnetico.
Alle ricercate oscurità del testo il regista ha tentato di far fronte mediante una estroflessione dei motivi/cardine dello spettacolo e la ricostruzione sul filo della memoria di determinati scenari esistenziali (il rapporto con la donna-coscienza infelice del maschio e con il non-io, il rapporto edipico col padre e l’elaborazione mancata della perdita, la morte del personaggio), puntando sulla valorizzazione dell’anima del testo/scena, una storia/non storia di impianto epico-narrativo più che drammatico. La dimensione onirica fa del lavoro “la rappresentazione di un ‘depensamento'” – sono parole del regista – e giustifica l’irruzione di immagini estreme poichè il sogno è estremo e tutto acquista, nel sogno, un’analoga intensa significazione. I calcoli geometrici che hanno aiutato a suo tempo il progetto a prendere forma (mi riferisco ai vari abbozzi redatti in vista della realizzazione dello spettacolo commissionato nell’81) vengono qui inghiottiti all’interno di un continuum che ricolloca le scelte testuali originarie, così come il succedersi delle parti musicali perlopiù di antico conio: “Concedimi, o Tu Insonne” (basso, violoncello); “Tu nella casa di pietra” (soprano, violino); “La Primavera fiorita nel cuore dell’Inverno” [trascr. parziale dalla Cantata per voce e orchestra su testo di Eliot]; Quartetto (Preludio a Berryman); “Room 231: Something black” (soprano, quartetto d’archi).

Mauro Bortolotti è nato a Narni nel 1926. Ha studiato a Roma presso il Conservatorio di Santa Cecilia, diplomandosi in pianoforte, organo e composizione (sotto la guida di Goffredo Petrassi). Ha frequentato i Ferienkurse di Darmstadt nel periodo 1957-1968 e si è accostato alla composizione elettronica nel 1967, grazie a Pietro Grossi e alla assidua frequentazione degli studi di Firenze e di Pisa. E’ stato socio fondatore dell’associazione per la musica contemporanea “Nuova Consonanza” di Roma. Il catalogo delle sue opere comprende oltre un centinaio di lavori cameristici, orchestrali, elettronici, ivi incluse le composizioni destinate al teatro e al balletto.

NOTE

1 Cfr. DANIELA TORTORA, Poesia e musica nell’opera di Mauro Bortolotti, “Avanguardia. Rivista di letteratura contemporanea”, VII (2002), n. 19, pp. 51-74.
2 MAURO BORTOLOTTI, in programma di sala della Stagione di Nuova Consonanza, Roma-Viterbo, 1981.
3 Cfr. TORTORA, Poesia e musica cit.
4 Cit. in SERGIO PEROSA, Itinerario della poesia di Berryman, in JOHN BERRYMAN, Canti onirici e altre poesie,Torino, Einaudi, 1978, p. XXXIX.
5 Ibidem, pp. XXVII-XLVII; le sottolineature sono di Mauro Bortolotti.
6 MAURO BORTOLOTTI, Quartetto per archi (Preludio a Berryman), Roma, Edipan, 1985, n.ed. EP 7107
7 BERRYMAN, Canti onirici e altre poesie cit

 

 

 

 

 

 

 

 

     Due partiture di Mario Bortolotti