Diciamo che proprio ad un artista tedesco, Joseph Beuys (1921-1986), spetta l’azione di <crisi> e di memoria in occasione del progetto I e II del Monumento ad Auschwitz: nell’estate del 1964 Beuys espone alla terza edizione di Documenta di Kassel disegni e sculture realizzate da lui tra 1951 e 1956. Viene conosciuto. In quello stesso anno tre fatti lo fanno emergere fino allo scandalo.

1. Il 20 luglio 1964, al Festival della nuova arte ad Aaachen (alla Technische Hochschule di quella città) mentre stava sciogliendo due grossi cubi di grasso su una piastra calda, partì la registrazione ( che – dice Benjamin Buchloch in Arte dal Novecento – evidentemente non faceva parte della performance) “dell’infame discorso di Goebbels allo Sportpalast di Berlino, in cui sollecitava l’assenso incondizionato delle masse alla <guerra totale>. Questa esperienza, ha scritto successivamente Beuys, innescò “il processo di crescente consapevolezza della necessità di politicizzare le mie attitudini”.

2. Nella stessa occasione, vi fu la pubblicazione da parte di Beuys della propria “autobiografia fittizia” (come scrive lo stesso Buchloh nell’opera sopra citata): “Curriculum Vitae/Curriculum Opere, in cui offriva, attraverso la costruzione di un “mito delle origini”, un enigmatico racconto del proprio sviluppo artistico”. Ad esempio l’artista sosteneva che il suo uso del grasso e del feltro e di altre materie che poi diverranno tipiche della sua opera gli derivava dall’incontro con dei Tartari in Unione Sovietica, che gli avevano salvato la vita avvolgendolo nel grasso e nel feltro quando il suo aereo della Luftwaffe era stato abbattuto durante la seconda guerra mondiale. Il condizionale è riferito non solo al carattere fittizio presunto della sua autobiografia, che gli autori americani di Arte dal Novecento (cit., p. 481) accolgono piè pari dalla ricerca di Jörg Herold, artista autodefinentesi “archeologo della memoria” (pubblicata nel 2000 e citata in Wikipedia alla nota 7), ma al fatto che egli avesse cominciato ad usare il grasso solo un anno prima, esponendolo bollente durante una conferenza sull’happening tenuta da Allan Kaprow alla galleria Rudolph Zwirner di Colonia, avvicinandosi così ad una modalità che sarebbe stata tipica della sua carriera successiva a pratiche artistiche “non così vicine alla sua quanto pretendeva che fossero”. Che nessuno dovesse praticare la performance in quanto “patrimonio originario americano”, insomma la pretesa di esclusività degli autori di Arte dal Novecento va citata solo in quanto essa si inquadra nel continuo tentativo di delegittimare la ricerca artistica dell’Europa post bellica e post-totalitaria, assaltando come illegittima la scultura proposta da Beuys e non solo come la pratica estetica <engagé>. Così dal pulpito di Cornell University, che abbraccia tutti gli argomenti dell’Imperialismo culturale, da quel pulpito statunitense, da dove cioè in verità a partire dagli anni Cinquanta – in piena guerra fredda – erano stati annullate tutte le pubblicazioni d’arte e le forme di engagement politico-culturali.

3. Sempre tra il 1963 e il 1964 Beuys si inserisce nel movimento internazionale Fluxus (aveva conosciuto nel 1962 l’americano-lituano George Maciunas, teorico e fondatore del movimento), la cui concezione post-statale e postnazionale è un aldilà rispetto alle avanguardie storiche e al modernismo della Repubblica di Weimar (la adesione alle quali avrebbe significato un segnale politico di continuità con ciò che nazismo e fascismo avevano distrutto: la vera Germania di Weimar).

Andare al di là del modernismo tedesco di Weimar è tuttavia necessario per l’artista che afferma un’arte engagé (la scultura sociale) e un segnale politico internazionalista – anch’esso – grazie alla sua adesione (malignamente definita eclettica dai critici di Cornell) a quei processi di ripartenza da zero, sconfinamento, informel, arte di azione e corpo, performance e uso di pseudo tracce e frammenti, che caratterizzarono quanti andarono poi a confluire anche in Fluxus, ma con accenti non engagées, piuttosto radicali e anarchici.

D’altronde l’astrattismo ed internazionalismo della cultura della ricostruzione in Germania (basta vedere le prime tre edizioni di Documenta di Kassel) sembravano distogliere dalla necessità del confronto da parte della Germania con il passato recente e nascondevano, forse, l’incapacità collettiva di elaborare il lutto, ricordare, i milioni di vittime del nazifascismo.

Beuys – grande acquarellista un po’ stile secessione fino ad allora – intraprende un inizio radicalmente nuovo, e diventa lui sì per l’Europa (oltre ad Alberto Burri e Lucio Fontana, dobbiamo dirlo) un’icona dell’arte post bellica e della neo-avanguardia a partire dalla fine del decennio Sessanta.

Ma che usa? Che tipo di opere fa per innescare come nuovo compito dell’arte questo processo di testimoniale e critico? Come innescare una reazione in un pubblico, ormai nella società consumistica, strappato alla partecipazione produttiva al mondo, per divenire un consumatore passivo e speculare dello spettacolo degli “oggetti”? Se Fluxus (che presto espunge da sé il troppo politico Beuys) risponde “alle prese totalizzanti della produzione di merci e di oggetti” con un innesco fluido al soggetto di performatività e dialettica reinventiva di quella oggettualità stessa (ma non solo, diremmo oggi), Beuys con le sue performances e le sue prime installazioni (le vetrine) cerca di riattivare l’inconscio del soggetto, di riconnettere sparsi stati d’animo di esperienze passate. E lo fa utilizzando “presentazioni” o ”dimostrazioni” insieme drammatiche e grottesche. È stato accusato di avere compiuto opere di carattere “simbolico/sostitutive” invece che attivare una nuova performatività nell’altro. Può anche, in parte, essere così. Ma è una strada comunque diversa dal rientrare nel sistema autoreferenziale dell’arte, diversa da quella che i critici di Cornell chiamano “drammaturgia illuminista” (qui occorrerebbe vedere quanto detto da Horkheimer e Adorno in Dialettica dell’Illuminismo, con il loro pessimismo feroce sulla condizione del soggetto tardo-capitalista), sostanzialmente una cosmetica. È così che Beuys, di fronte alla rimozione del passato che aveva generato una “crisi della memoria” non solo nel popolo tedesco, ma nell’Europa tutta, realizza quel nuovo tipo di scultura assemblaggio che è la <vetrina>. Lo fa fuori dalla azione neo/post avanguardistica, che era sia delle scatole di Joseph Cornell, sia nelle accumulazioni di Arman: lo fa fuori della zona franca dell’arte. Si chiama Dimostrazione Auschwitz, e colloca nelle grandi vetrine o teche bianche di vetro trasparente collocate sopra tavoli di ferro anch’essi bianchi oggetti più o meno recenti, non direttamente rievocativi delle tematiche naziste e genocide: un catalogo fotografico dell’architettura del campo di concentramento, un disegno femminile su carta intestata del primo Comitato (costituito nel 1958 da Hans Arp, Henry Moore e Ossip Zadikine). In un’altra, le piastre della performance di Aachen con due blocchi di grasso, una pietra litografica con dei simboli cristiani, resti di topo morto, crocifissione realizzata con würstel tagliati: Tra <abietto> e <perturbante>: necessità e insieme impossibilità di rappresentare. Intorno al concetto di arte espansa – uso di oggetti comuni; frammento pseudo mnemonico; il mettere in vetrina (come in un mercato) o in box; mescolare il personale e particolare (il grasso) con l’Universale, eguaglianza e possibilità d’uso di qualsiasi elemento per compiere l’opera – occorre richiamare due artisti che insieme a Beuys la hanno proclamata e vissuta: George Maciunas e Wolf Vostell.

Dall’alto:

Indirizzi della Free International University for Creativity and Interdisciplinary Research, creata da Joseph Beuys, a Londra, Dublino, Belfast, Düsseldorf, Pescara.

Joseph Beuys, Ca(OH)2+ H2O (Grassello), 1979, china su carta. Disegno che documenta la conclusione del processo di restauro della sua casa a Düsseldorf con l’acqua tedesca e la calce italiana detta “grassello” e che simboleggia – più in generale – il processo creativo “degli stati di trasformazione degli elementi materiali e – scriverà Achille Bonito Oliva – il corto circuito tra le diverse energie comunicanti tra loro” (A.B.O., Grassello- Ca(OH)2+ H2O-Difesa della natura, Edizioni Carte Segrete, 1991, Collana diretta da Lucrezia De Domizio).

Joseph Beuys, Kreuz, 1957, Auschwitz Demonstration, 1956-1964 (da: Art Icono – Iconographie de l’art, index d’artistes, documents sur l’art).

Joseph Beuys, Vitrine Auschwitz Demonstration, 1956-1964 (da: Art Icono –Iconographie de l’art, index d’artistes, documents sur l’art).

Joseph Beuys, Vitrine Auschwitz Demonstration, 1956-1964 (da: Art Icono – Iconographie de l’art, index d’artistes, documents sur l’art).

AUSCHWITZ, Membre non identifié de la résistance polonaise, août 1944.

AUSCHWITZ, Membre non identifié de la résistance polonaise, août 1944 (détail de la photo B).

AUSCHWITZ, Membre non identifié de la résistance polonaise, août 1944 (détails des retouches effectuées sur la photo B). Foto 3,4,5,6,7,8 tratte dal sito http://phomul.canalblog.com/archives/auschwitz/index.html

Joseph Beuys, Fat chair, 1964 (da: http://www.designboom.com/history/stilllife.html).

Joseph Beuys, Pagina del Programma per l’evento della F.I.U. di Beuys, alla Documenta 7 di Kassel, 1982. “The FIU was founded on 27 April 1973 in the Düsseldorf studio of Joseph Beuys and existed as a non-profit, recognized, and registered association up to its dissolution in 1988, more than two years after the death of the artist. The idea of the Free International University was revisited and taken further by various people and groups, including the author Rainer Rappmann under the FIU-Verlag and the F.I.U.s in Amsterdam, Gelsenkirchen, Hamburg, and Munich, which were begun by students of Beuys. They also include the organization Mehr Demokratie e.V. and the Omnibus for direct Democracy.” Da: http://en.wikipedia.org/wiki/Free_International_University.

 Joseph Beuys, Artisten (Kaskade) (Artistes [Cascade]), circa 1954, inchiostro e oro su carta, cm. 26.8 x 20.8. Dalla mostra Joseph Beuys Early works on paper from the collection of Helga and Walther Lauffs, Galleria Hauser & Wirth,Londra, gennaio-febbraio 2009 © Hauser&Wirth. Cfr. http://www.hauserwirth.com.