JAN FABRE. BEYOND THE ARTIST

di/by Antonella Greco

 

 

Il 18 ottobre del 2015, mentre alla Casa dell’architettura all’Acquario romano-solenne pastiche colonnato nel cui ambito spaziale s’incrociano come in tutto il quartiere, sovrapponendosi, mura romane dell’epoca repubblicana, bimbi panchine, venditori cinesi, spacciatori di tutte le razze, mostruosi gabbiani e la pervasiva immondizia che ormai ci ricopre- qui, dicevo, mentre veniva proiettato all’Art Docfestival un film su Jan Fabre diretto da Giulio Boato, in contemporanea al teatro Argentina lo stesso Fabre aveva montato un “mostruoso” spettacolo dalla durata di 24 h. dedicato al senso della tragedia nella Grecia antica.  E mentre Mount Olympus metteva alla prova la resistenza di qualsiasi spettatore, e non solo per la durata, provvedendo il teatro a montare brandine nel foyer, come nelle metropolitane di Henry Moore durante la seconda guerra mondiale, il film di Boato tentava di inscrivere in una limpida e minimale intelaiatura stilistica  la magmatica e sfrontata energia di questo gigantesco personaggio ripetendo, come un mantra , all’inizio di ogni capitolo: “Jan Fabre  artista, nato nel 1958, vive e lavora ad Anversa” e aumentandone man mano le caratteristiche.

Insonne, esplosivo, performer nel senso letterale del termine, Jan Fabre è artista “totale” il cui talento si espande in molteplici direzioni, i cui materiali manipolati appartengono al regno animale e minerale come alle deiezioni naturali, ed è anche il primo, nel 2008, a esporre al Louvre, giustapponendo le sue, alle opere del passato. Un’epitome, una sintesi, un concentrato di ciò che definiamo ormai da troppi anni estetica del postmoderno.

“Jan Fabre, scrittore, regista coreografo e scenografo” recita un’altra epigrafe del film.  Indimenticabili i suoi spettacoli, superbi e disturbanti dove le capacità fisiche dei magnifici corpi dei danzatori-che lui definisce performers- sono continuamente portate al limite in un crescendo orgiastico di strida movimenti compulsivi urla olio e sangue, ma dove anche ironia e armonia musicale convivono in una rappresentazione corale, in un abbraccio estenuato tra due danzatori, come in un valzer di carrelli di supermercato. Le sue radici, afferma, sono ancora nelle pitture fiamminghe, nel precipuo grottesco di parte della pittura fiamminga nella contaminazione della vita con la morte: da qui nascono i teschi che divorano animali impagliati, i lampadari di scarabei luccicanti e altre mille meraviglie.

E’ questo che Fabre ci presenta a Venezia, nell’Abbazia di San Gregorio di Dorsoduro, a ridosso della Basilica della Salute le cui strabilianti forme arrotondate emergono da ogni finestra quasi rubandogli la scena (Glass and Bone Sculptures 1977-2017). E non sembra assolutamente casuale l’accostamento tra questo colossale edificio barocco, eretto alla fine del seicento come ringraziamento per la liberazione dalla peste e le tematiche ossessive di Fabre, sempre oscillanti tra la vita nelle sue forme più letterali e simboliche e la morte nei suoi reliquati (un apparato digerente, gigantesco intestino di vetro blu, appeso come un lampadario al centro di una stanza dove sul pavimento, tra nastri di vetro i simboli del tempo, tartarughe e teschi si contendono la scena )  e le metamorfosi tra uomo e  animale. I am one man movement, recita la scritta in una cella dell’abbazia e certo l’unicità l’alchimia la trasformazione di genere sono state da sempre le materie topiche dell’artista belga,

Ma in questo caso la mostra di Fabre è un omaggio a Venezia, in qualche modo edulcorato, educato, senza il guizzo eccessivo di alcune delle sue installazioni. Prima di tutto il vetro. Ecco al centro del chiostro un animale fantastico, enorme pidocchio o scarafaggio verde sul cui carapace germoglia una sorta di albero della vita e i piccioni blu, sul perimetro della cornice nel chiostro con rispettive colate di guano. Elementi già visti e riproposti: quegli stessi piccioni in vita saranno poi presentati in forma di scheletrino divorato nelle varie fasi: dalle zampe al becco, da file di teschi blu. In una cella la luna di cristallo si esprime nelle sue fasi, in un’altra dal cielo cadono stelle filanti di vetro colorate e a terra scheletri di piccoli animali si compongono in (quasi) aggraziate sinfonie.  Non è l’ironia spiritosa di De Dominicis e dei suoi Pinocchi sui pattini con i cani, è una sorta di Vanitas.  Com’è ovvio persino il vetro, il fragile vetro, sopravvive alla fragile carne del mondo animale, così come le pietre di Venezia inquadrano nei secoli un’umanità ignara improvvida e transeunte. E ancora gli oggetti da lavoro, asce e martelli di vetro e osso. E la barca a remi di ossa e vetro, neanche a dirlo. Vegliano, all’incrocio dei corridoi tra le stanze, alti e vuoti costumi da fantasma, un saio da frate e uno da monaca, composti da frammenti di ossa piccoli e tondi che rammentano le conchiglie in un’installazione lagunare. E’ tutto il Fabre one man show. Qui così manieristicamente ripetuto e forse addomesticato suo malgrado dalla fragile grazia dei materiali e dal paesaggio, tanto da diventare meno interessante e urticante del solito.

Jan Fabre, Glass and Bone Sculptures (1977-2017), Venezia, Abbazia di San Gregorio

Venezia, Abbazia di San Gregorio

Jan Fabre, veduta della mostra

Jan Fabre,

Jan Fabre, veduta della mostra (dettaglio)

Jan Fabre, veduta della mostra (dettaglio)

Jan Fabre,

Jan Fabre,