La musica relazionale come antidoto ai processi di de-realizzazione e de-socializzazione dell’era post contemporanea. La misurazione delle emozioni. Intervista a Piero Mottola di Luisa Galdo.

 

Oggi è possibile sodisfare il vissuto infantile di onnipotenza e di libertà compensando le frustrazioni del mondo reale e dell’immagine poco appagante di noi stessi, qualora l’avessimo,  riproducendoci, o meglio rinascendo e vivendo in un mondo virtuale. Ma quale è il prezzo di tale possibilità? L’attivazione di processi di de-realizzazione e di de-socializzazione dell’essere, la perdita degli atti emozionali e della qualità dei sentimenti, la paura della realtà, il desiderio di una vita immaginaria. E una società che non è pronta ad accogliere, che non ha gli strumenti per fronteggiare un certo tipo di evoluzione tecnologica rischia di essere sostituita dalla sua riproduzione virtuale.

Spesso accade che la sensibilità artistica percepisce ed anticipa qualcosa che deve ancora avvenire. Negli anni novanta un critico d’arte francese, Nicolas Bourriaud, sostenne che un numero sempre maggiore di artisti considerasse un elemento costitutivo della propria opera il fruitore. L’oggetto puramente estetico diventa un dispositivo mirato all’incontro con l’altro, alla relazione. Se Burri, Fontana e Pollock segnano il passaggio dall’arte figurativa a quella processuale, in un contesto storico segnato due guerre mondiali, gli artisti degli anni novanta, e degli anni ottanta, non potevano che approdare, in un contesto che si apriva alle nuove tecnologie, all’arte relazionale. Una metodologia creativa che attiva processi comunicativi, di scambio reale, fisici. E’ forse questo un caso?

Artista, musicista sperimentale, e docente di Sound Design presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. Piero Mottola si forma negli anni settanta con Sergio Lombardo, esponente e teorico dell’Eventualismo. Negli anni novanta comincia le sue prime sperimentazioni acustiche che lo porteranno a creare, successivamente, un complesso sistema a carattere scientifico di misurazione delle emozioni attraverso i suoni ed i rumori. L’evoluzione di tale ricerca è oggi rappresentata da Voices, una serie di partiture scritte per un coro che va da sedici, trentadue, fino a sessantaquattro voci. Sempre negli anni novanta approfondisce la sua ricerca sul colore in associazione alle emozioni con l’astrattismo geometrico. Sequenze cromatiche, Articolazioni cromatiche ed Ambienti cromatici sono le tappe di questa ricerca che si è evoluta attraverso l’estensione, l’allungamento, la dilatazione del colore nello spazio.

In occasione del quinto appuntamento di Visioni Geometriche, un’esposizione di opere appartenenti alla collezione del museo Macro di Roma, all’interno della quale viene presentata l’opera Sequenza cromatica E.37, Piero Mottola propone una performance di musica relazionale con sessantaquattro voci cinesi, chiamata Chinese Voice.

 

 

Luisa Galdo: Che cos’è Chinese Voices?

Piero Mottola: E’ una partitura scritta per un coro formato solo da voci cinesi. Mi è capitato di organizzare qui a Roma, all’Accademia di Belle Arti, dove insegno, un workshop sul suono. Si sono iscritti 74 cinesi nessun italiano. Allora ho investito il mio tempo per sonorità orientali. Chinese Voice fa parte di un progetto che ho iniziato a Valenzia nel 2015 dove sono stato invitato dall’Università per sostenere una masterclass. Avevo studenti di ogni nazionalità. Lì ho iniziato una ricerca sulla voce che ho esteso successivamente in Sud America, Varsavia, Pechino, Lisbona, Roma. Ora anche a Cuba. Ho chiesto agli studenti di associare a dieci emozioni, come la paura, l’angoscia, la gioia, un rumore, un suono, un vocalizzo utilizzando esclusivamente il proprio corpo. Ho allestito una sala di registrazione per catturare questi suoni e successivamente, facendo una statistica per ogni categoria di suono, ho creato un catalogato per trovare i timbri che meglio esprimessero le dieci emozioni che avevo chiesto di interpretare.  In questo modo sono nati i “dieci parametri emozionali”. Ad ogni parametro corrisponde un grado di emozionalità, una minima vicinanza emozionale fino ad un massimo contrasto emozionale. In questo modo la relazione di tutti questi suoni tra di loro creano una grande “mappa emozionale” con diverse combinazioni. Seguendo questa mappa sono stato in grado di creare una partitura per coro, e in questo caso formato da voci cinesi. Questa partitura può essere eseguita da 16, 32 fino a 64 voci. Il mio scopo era quello di trovare nella voce di persone comuni una forza emotiva e musicale. Pierre Schaeffer, l’ideatore della musica concreta, sosteneva che il corpo umano non è stato suonato abbastanza.

L.G.: Quando hai introdotto il suono nella tua ricerca?

P.M.: Io lavoro con il rumore dal 1994. Rumore naturale, artificiale, umano ed animale, sempre in termini sperimentali mai prendendo il rumore registrandolo e componendolo, come ha fatto ad esempio Janet Cardiff a Documenta, è stato già fatto. Io parto dal pubblico, dai ricordi, dalle emozioni più potenti che un rumore può scatenare nell’arco della propria vita. Ad esempio, quando ho partecipato alla Biennale dell’Avana a Cuba, ho registrato per un mese girando giorno e notte una serie di rumori che ho catalogato seguendo la mia mappa emozionale. Rumori più ritmici legati al piacere, rumori impulsivi legati alla paura, e cosi dicendo. Successivamente ho realizzato cinque composizioni che sono state messe all’interno di alcune scatole denominate “scatole sonore”, dove era possibile ascoltare i suoni dell’Avana, alcuni ero riconoscibili altri no. Ho creato un limite tra suoni reali e suoni astratti. Non è un modello lirico ma la mia sperimentazione nasce da una misurazione empirica. Sono cinque stimoli pensati per avvicinare le persone al ricordo sonoro della propria città ma anche a depistarli per creare uno stimolo live, forte, dei contenuti emotivi che posso avere solo li, in quel momento e solo loro. L’evoluzione di questa ricerca mi ha portato a lavorare con la voce nel 2015.

L.G. Quindi da subito?

P.M.: Subito, dopo la mia prima personale. Ho visto che stavo producendo oggetti ho iniziato a pensare in termini più ampi. Non limitarmi al semplice spostamento di una forma volevo qualcosa di diverso, che entrasse di più nello spettatore, qualcosa che emozionasse, desse la capacità di ricordare, il rumore sembrava il veicolo migliore. Stavo leggendo l’arte dei rumori, avevo avuto una sorta di crisi dall’Eventualismo, volevo uscirne, quindi per quanto fossi legato al mio maestro Sergio Lombardo, questa rottura mia personale, legata alla mia vita, mi ha portato altrove. Ma credo che per un maestro sia motivo di orgoglio se un suo allievo trova una strada propria. Ho reagito anche a mio padre che voleva che facessi il ferroviere come lui. Ho reagito al mestiere che voleva propormi. Tutto nasce da una reazione, infatti io lavoro per contrasti, tutto viene dalla mia vita, la mappa che ho costruito sull’imprevedibilità dei conflitti.

L.G.: Il ruolo del fruitore è centrale nel tuo lavoro. Questa tua modalità espressiva rientra nell’ambito dell’arte relazionale teorizzata da Nicolas Bourriaud?

P.M.: Il Coro dell’Accademia di Belle Arti di Roma l’ho chiamato: Coro di Musica Relazionale. Ma per me l’arte relazionale acquista un valore se proviene da una ricerca sperimentale di misurazione. Quello che si realizza a prescindere da una valutazione dei risultati esiste da sempre. Secondo me la novità nell’arte relazionale, e nella mia, è data dalla misurazione a carattere scientifico.

L.G.: Burri, Fontana e Pollock rappresentano un punto di non ritorno nell’arte del novecento, come Orson Welles nel cinema che crea i canoni espressivi del linguaggio cinematografico. Segnano definitivamente il passaggio dall’arte figurativa all’arte processuale attraverso il gesto. Forse l’arte relazionale non è altro che la conseguenza di questa rivoluzione?

P.M.: Burri e Fontana hanno eleminato la rappresentazione, la simulazione, la metafora e l’idea di spostare il problema verso lo spettatore lo diceva già Piero Manzoni negli anni 60 con il Placentarium: Il contenuto dell’opera non è l’oggetto ma la struttura psichica del fruitore.

L.G.: Ma voi “artisti relazionali” avete integrato il fruitore nell’opera

P.M.: misurando le sue reazioni nel mio specifico. E attraverso queste misurazioni ho anche creato il mio metodo compositivo una mappa a 10 emozioni. E la mappa può fare 3 milioni di incastri possibili. E’ interessante anche per me sperimentare questa composizione, sorprende anche me dopo che ho fatto una possibile traccia. Sono anche io un fruitore.

L.G.: E’ interessante la creazione del tuo modello di misurazione, e soprattutto come il fruitore si adatta.

P.M.:  Dal 1994 faccio ascoltare rumori facendoli descrivere non solo da un punto di vista cromatico ma anche estetico ed emozionale e attraverso questa misurazione io ho costruito una relazione tra le emozioni. Ad esempio ci sono rumori che attraggono delle emozioni come l’angoscia e la paura alcuni rumori come la gioia e il piacere, quali sono i rumori più brutti e belli, più intensi e cosi dicendo. Ma quello che produce il mio modello senza la sperimentazione non ci sarei mai riuscito.

L.G.: Quando hai creato questo modello?

P.M.: Dal 1996 al 1998. Il “correlatore acustico” è un programma informatico che mette in relazione queste dieci emozioni. Mi sono servito di due ingegneri del suono per costruire questo programma. E la particolarità risiede nel fatto che queste relazioni presentano dei valori minimi e massimi che non si ripetono mai fino a quando non hanno scoperto tutte le possibilità.  Ho usato anche di recente questo programma in una grossa istallazione a Pechino l’agosto scorso. Dieci diffusori collegati a dieci emozioni che ogni dieci minuti arrivava alla massima complessità e alla massima forza emozionale, al massimo conflitto e viceversa. Poi questa installazione è andata al museo MAC di Santiago del Cile dove è rimasta in collezione di una mostra internazionale. E’ un modello creativo, non sai mai che tipo di relazione ti restituisce.

L.G.: Ti sei formato negli anni 70 nell’ambito dell’Eventualismo. Nel 1988 la tua prima personale. Che cosa ti ricordi di quegli anni?

P.M.: Nel 1987 arrivo a Roma in quanto studente dell’Accademia delle Belle Arti, l’anno prima ero uno studente dell’Accademia di Frosinone dove ho avuto l’occasione di conoscere Sergio Lombardo che era un protagonista degli anni 60. Con lui ho iniziato un apprendistato presso il centro studi Jartrakor di Roma dove c’erano artisti del movimento Eventualista. Cosi mi sono tuffato nella ricerca più avanzata che in quel momento che c’era a Roma e nel luogo dove passavano tutte le figure di spicco dell’ambito da Argan, Simonetta Lux, e cosi dicendo. C’era un’idea diversa del futurismo che è stato presentato non come propulsione di un’idea Eventualista, come movimento che ha approfondito l’evento, come ci racconta Francesco Cangiullo nel suo libro “Serate Futuriste”, come primo evento partecipato, ma come un movimento affascinato dal progresso, dall’industria e dalla tecnologia.

L.G.: Roma come si presentava?

P.M.: Roma era una città divertente, diversa rispetto ad oggi. Ricordo che si faceva tanta ricerca, ma purtroppo poco alla volta si sono persi i riferimenti, ora sembra più una pista di atterraggio. Arriva William Kentridge, Bill Fontana al Maxxi, (il suo lavoro sul suono delle fontane lo trovo poco raffinato e sperimentale).  Arriva tutto dall’estero, l’Italia ha scelto di non fare ricerca nelle Università, nei musei non esiste una mediateca dove si può studiare, qui la burocrazia la fa da padrone, per accedere bisogna mandare una mail prima, all’estero non è cosi. La ricerca l’abbiamo delegata ad altri. I migliori riconoscimenti li ho avuto all’estero non qui. Forse non è un caso che Lucio Fontana ha presentato Il manifesto dell’Arte Spaziale in Argentina, e Marinetti quello Futurista a Parigi. Forse è una tradizione che viene da lontano. Siamo un paese colonizzato

L.G.: Io ho l’impressione che Roma non abbia un luogo specializzato per esporre l’arte contemporanea, pronta ad accogliere opere di varie dimensioni, dove si può fare ricerca, dove incontrare gli addetti ai lavori e non solo. A volte vedo anche tanta improvvisazione ma è una logica che riflette la nostra condizione politica e sociale. Il nostro sindaco, Virginia Raggi, ad esempio non ha alcuna esperienza politica, il partito cinque stelle non ha figure competenti nel campo politico, insomma sembra quasi che non serve più a nulla acquisire esperienza sul campo, specializzarsi, approfondire uno studio, acquisire competenze eppure noi italiani ancora oggi siamo richiestissimi in tutti gli ambiti ed in tutto il mondo.

P.M.: Io chiesi a Furio Colombo come mai avete permesso di mandare via la Olivetti dall’Italia che era un luogo di ricerca informatica, lui stesso mi rispose che fu un delitto, ma cosa è stato fatto dopo? Niente. Io vorrei continuare a lavorare in Italia ma la ricerca qui è veramente difficile, non ci sono laboratori nelle Università, nelle scuole.

L.G.: Non possiamo competere in ambito internazionale, forse.

P.M.: Siamo colonizzati sul piano internazionale è un pò diverso. Ma siamo interessanti per tutti, se tu pensi che la pop art ha scelto Venezia come trampolino di lancio nel 64, forse più per la location. Jhon Cage venne a Milano, non solo per partecipare a “Lascia o Raddoppia”, ma per andare a trovare Luciano Berio, compositore di avanguardia, pioniere della musica elettronica, faceva ricerca all’interno della Rai, ma erano altri tempi. Io ho scelto di lavorare da solo, mi sono un pò distaccato da quella corrente iniziale, certo è contro producente, ma mi diverto cosi e poi alla fine conta quello che tu fai.

L.G.: Quindi rispetto agli anni settanta ed ottanta, in questo contesto storico, l’artista preferisce lavorare da solo?

P.M.: Ma oggi qui bisogna essere una scheggia impazzita, imprevedibile anche a se stessi. Bisogna andare all’estero e starci il più possibile per essere considerati qui.

L.G.: Bisogna avere il marchio di altre nazionalità per lavorare in Italia.

Maurizio Cattelan lo ha capito bene.

L.G.: Come è nata la tua ricerca?

P.M.: Carrà nel 1913, nel suo manifesto “La Pittura dei suoni, rumori e odori”, dice che: qualsiasi succedersi di suoni, rumori odori stampa nella mente un arabesco di forme e di colori. Bisogna dunque misurare queste intensità e intuire questo arabesco. Pone la prima idea di misurazione da qui parte la mia riflessione e la mia ricerca. Più che Luigi Russolo, che ha lavorato ampiamente con l’arte dei rumori, ma che ha sempre considerato la composizione come un atto che avviene in modo creativo e libero e non come una forma sperimentale, da misurare. Con l’esperimento Miglioramento/Peggioramento sono andato a cercare, con la mia impostazione Eventualista, la prima opera partecipata della storia avvenuta nel V secolo a.C. ad opera di Policleto. Questo scultore greco realizzò due statue una secondo il suo criterio di bellezza e l’altra lasciandosi influenzare dal parere degli altri. Finito il lavoro lo ha mostrato al pubblico per avere un’opinione e per tutti la statua più bella era quella che seguiva i canoni di bellezza dello scultore. Questo mi ha messo in guardia sull’arte interattiva, quella partecipata, perché se coinvolgi delle persone lo fai anche per ottenere qualcosa di più bello, di meglio, il fine non è solo la partecipazione. Cosi ho creato Migliorare/Peggiorare e Bello/Brutto lavagne magnetiche, proposte in modo giocoso da Grazia Varisto negli anni 60, dove io non metto il mio contenuto ma le persone devono migliorare e peggiorare, costruire il bello o il brutto, l’unica cosa che ho fatto è scegliere dei parametri cioè bello o brutto. I risultati non sono entusiasmanti da un punto di vista estetico, quindi forse la partecipazione dello spettatore non sempre da buoni risultati è interessante oggi perché il pubblico partecipa, sembra avanzato, ma già nel 1988 in ogni caso non è detto che sia utile la sua partecipazione. Policleto nel suo testo scomparso ma che conosciamo attraverso vari passaggi afferma che la bellezza si ottiene attraverso molti calcoli. Io nel mio esperimento ho inserito un altro criterio quello del brutto. Rosenkranz, filosofo tedesco, autore dell’Estetica del Brutto (1853) sostiene che nel brutto ci sono potenzialità non a caso tutte le avanguardie hanno lavorato sul brutto, dal futurismo in poi. Russolo è stato il primo a dire che con il rumore, un elemento di scarto, si può fare musica, ecco la sua forza che ha prodotto una rivoluzione in ambito musicale. Policleto aveva pensato che con l’opera partecipata non si poteva arrivare ad un’opera d’arte emotivamente forte come la pensano oggi. Forse oggi nell’arte c’è stata una regressione.

L.G.: Parlami di Ambienti acustici.

P.M.: I miei primi esperimenti erano legati non solo al suono ma anche al colore, e quindi i miei parametri non erano solo emozionali ma anche estetici. Mi occupo di musica, sono iscritto alla Siae faccio partiture musicali per esecutori professionisti, come nel 2009 a Napoli per un quartetto oboe e soprano, ne ho costruite diverse. Ho una tastiera a campionatore emozionale e li faccio musica elettronica.  Gli Ambienti acustici sono ambienti totali dove creavo strutture cromatiche in relazione al suono, il rumore.

L.G.: Che cosa sono Le passeggiate emozionali?

P.M.: Vengono da lontano. Quando studiavo all’Accademia passeggiavo in campagna. Leggevo Zola che diceva che un quadro lo puoi percepire solo se ti avvicini o ti allontani in un certo modo. Poi ho conosciuto Mauro Bortolotti, compositore tradizionale, che grazie a lui ho fatto la prima composizione nel mondo della musica colta, la prima uscita utilizzando strumenti musicali, sembra poco ma quando una persona ti aiuta soprattutto un esperto di quel settore è molto. In ogni caso lui un giorno mi disse che Ennio Morricone prima di sedersi alla scrivania per comporre fa il giro di tutta la casa che è enorme. Oggi mi alzo presto spesso e passeggio prima di iniziare la giornata 5 chilometri.

L.G.: Forse è un modo per connettersi con la propria istintualità, con l’inconscio, il proprio mondo interiore. Freud consiglia una posizione orizzontale per farlo, voi musicisti passeggiate! 

Come ti definisci come artista?

P.M.: Non un artista, una persona come tutte le altre. Duchamp ne sarebbe stato contento.

L.G.: Che musica ascolti?

P.M.: Da musica colta o non.

L.G.: Che stai ascoltando in questo periodo?

P.M.: Io associo la musica a momenti della mia vita ed in questo momento Xenakis, Bach, i Nomadi. Guardo San Remo per capire le nuove tendenze. Gabbani per esempio è diventato parte delle mie lezioni. E’ divertente che una musica cosi semplice abbia un successo cosi. Lui sostiene che la sua musica è frutto di una ricerca, a quanto pare anche la banalità per essere attuale vuole trovare l’interazione con la sperimentazione che non ha. Quindi la musica che ascolto non sarà certo quella che ti ho detto ma sarà una musica che dovrà venire, dove probabilmente dovrò contribuire anche io.

 

http://www.pieromottola.it/Piero_Mottola/home.html

 

 

1. Piero Mottola, photo Luisa Galdo, 2017

2. Francesco Moschini, Piero Motolla e Sergio Lombardo, A.A.M. Architettura Arte Moderna, 5 marzo 2007
Photo Gabriel Vaduva / Archivio FFMAAM

3.Chinese Voices, Museo Macro di Roma, 2017

4. Chinese Voices, Museo Macro di Roma, 2017

5. Sequenza Cromatica E.37. Tempera vinilica su tela. Dimensioni cm 1200 x cm127 collezione Museo Macro, Roma, 1999

6. Articolazione cromatica a spirale, tempera vinilica su tela. Dimensioni cm 150 x cm 135. Complesso Monumentale San Michele, Roma 2007

7. Stupore, tempera vinilica su muro, photo Simone Corelli, 2009

8. Scatole sonore, 1996/2012, Museo Arte Contemporanea Avana, Cuba

9. Modello di relazione cromatico emozionale

10. Piero Mottola – Passeggiate Emozionali. Dal rumore alla musica relazionale, Testo.

11. Incontro con gli studenti dell’Università del Cile al MAC di Santiago. 2016

12. Chinese Voices, passeggiata emozionale per 64 voci, 2017

13. Cuban voices, 2017