a proposito della mostra
Please Come Back. Il mondo come prigione?

 

 

 

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MAXXI – Galleria 5
a cura di Hou Hanru, Luigia Lonardelli

09 febbraio 2017 – 28 maggio 2017

Oggi che la comunicazione globale vuol dire anche controllo globale, che in nome della “guerra al terrore” post 11 settembre vengono applicati metodi disciplinari alle comunità, che la condivisione

figlia di internet e dei social network smantella la nostra privacy, la parola prigione assume significati decisamente nuovi.

26 artisti e oltre 50 opere raccontano il carcere come metafora del mondo contemporaneo e il mondo contemporaneo come metafora del carcere: tecnologico, iperconnesso, condiviso e sempre più controllato

Lo sviluppo esponenziale delle tecnologie digitali, l’avvento dei social network, l’utilizzo dei Big Data, hanno progressivamente e inesorabilmente cambiato la nostra società che assiste al crollo delle filosofie di condivisione sociale e urbana e all’instaurarsi di un nuovo regime che, in nome della sicurezza, ci spoglia, con il nostro consenso, di ogni spazio intimo e personale.

 

 

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NOTE-TESTI

  1. 1. John Berger , Ways of seeing, 1972, British Broadcasting Corporation and Penguin Books. Il libro è basato sulla serie televisiva dalla stesso titolo, condotta dallo stesso B erger nel 1971-1972.La sua posizione critica è considerata nell’ambito dell’Umanesimo Marxìsta, fondato sugli scritti giovanili di Karl Marx e sulla teoria dell’alienazione. Fu considerato dai contemporanei colui che demistificò la critica e la storiografia dell’arte dell’epoca.
  2. 2. Gilles Deleuze, Pourparler 1972-1990, Quodlibet, Macerata, 2000. Traduzione S. Verdicchio. Cit. nel catalogo della mostra PLEASE COME BACK. Il mondo come prigione? The World as a Prison?, a cura di Hou Hanru e Luigia Lonardelli, Mousse Publisghing, 2017, pag 176.
  3. Jan Batens, Hilde van Gelder, Critical Realism in Contemporary Art: araound Allan Sekula’s Photography, Universitaire Pers Leuven, 2006. Dallì’introduzione: ”Critical realism is a way of seeking to understand the social reality by critically ‘making notes’ of it. . . . As scratches of reality, Sekula’s photographs and films leave their traces in our minds. They encourage, yes, even force reflection, and through that, slow changes can probably become a reality, certainly at the level of the individual.”
  4. Elisabetta Benassi, The Bullet-Proof Angela Davis, 2011, Allestimento al MAXXI, foto Cecilia Fiorenza, Foto da video:Angela Yvonne Davis (1944, Birmingham, Alabama, USA) Fu cofondatrice del Movimento di Critical Resistence (Resistenza critica) volta alla abolizione delle prigioni organizzate come un complesso industriale.
  5. Fabio Mauri, Il Muro Occidentale o Muro del Pianto, 1993. Il Muro Occidentale o del Pianto, presentato nel 1993 alla XLV Biennale di Vanezia,è un muro di quattro metri, composto da una catasta di valigie di cuoio, di legno, di varie dimensioni, emblema della divisione del mondo, dell’esilio, della fuga, dell’esodo forzato. Le valigie del Muro Occidentale o del Pianto sono il bagaglio d’individui, anche immigrati o emigranti, non necessariamente vittime dell’Olocausto. Nella parte anteriore, le valigie compongono una struttura architettonica armonica e regolare, il retro, invece, è mosso, molto plastico, le valigie creano una serie di dislivelli, come accade nella natura umana. Negli anfratti del Muro Occidentale o del Pianto, gli Israeliti infilano rotoli di carta con le preghiere riguardanti gli affetti, l’anima, i corpi e il come vivere la vita terrena. Perché per gli ebrei il Muro è il luogo dove Dio ascolta sempre. Nel Muro, Mauri ha simulato queste domande in un unico rotolo di tela bianca. E’ una sorta di preghiera dell’arte. È piantato, in un barattolo, un rametto di edera rampicante, per significare che nessun eccidio può far morire l’Arte, ossia l’Uomo, profondo, giusto, che crede nell’Uomo. (Dora Aceto) from: http://www.fabiomauri.com/installazioni/muro-occidentale-o-del-pianto.html .H.H. Lim, H.H.Lim, The cage the bench and the luggage, 2011, Acciaio zincato e valigia di alluminio con lucchetti e catena / Galvanized steel and aluminium suitcase with padlocks and chain, 484 x 216 x 228 cm, Collezione dell’artista / Collection of the artist Courtesy Zoo Zone Art Forum
  6. Luigi Nono, Ein Gespenst geht um in der Welt Un fantasma si aggira per il mondo, per soprano, coro, orchestra, 1971Organico: 4 Flauti 4 Oboi 4 Clarinetti 4 Fagotti / 4 Corni 4 Trombe 4 Tromboni / Percussioni (Timpani, Tamburo con e senza corda 5  Gran Cassa = 4 esec.) / Archi (vl I-II, vle, vc, cb) – voce solista: Soprano – Coro: S-C-T-B. Testo: Karl Marx, Celia Sánchez, Haidée Santamaria e dei canti “Internazionale”, “Bandiera Rossa”, “Marcia del 26 luglio”; “L’oriente è rosso” Dedica: Ad Angela Davis, Bobby Seale, Ericka Huggins Durata: 28′ Editore: Ricordi, partitura 131806 Prima esecuzione: Colonia, Musik der Zeit II Westdeutscher Rundfunk, 11 febbraio 1971; Liliana Poli (soprano) – Kölner Rundfunkchor e Kölner Rundfunk-Symphonie-Orchester, Dir. Ladislav Kupkovichttp://www.luiginono.it/opere/ein-gespenst-geht-um-in-der-welt/ Fondazione Luigi Nono onlus .    Renato Guttuso, nel suo quadro I Funerali di Togliatti, (1972), la rappresentò a sinistra, accanto a Elio Vittorini, Jean Paul Sartre, e al suo autoritratto.
    Renato Guttuso a Roma

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  7. Il 31 maggio 1968 nella rubrica di approfondimento del TG Rai il giornalista Gastone Favero intervista il filosofo tedesco Herbert Marcuse, membro della Scuola di Francoforte dove si fonda la teoria critica della società, insieme a Walter Benjamin, Theodor Wiesegrund Adorno, Erich FrommUlteriori notizie nel seguente link:http://intervisteintv.wordpress.com/2… Segnalo quanto scrive Domenico Scudero nel paragrafo La libertà a una dimensione (in Simonetta Lux-Domenico Scudero, Lucia Di Luciano, L’alba elettronica, Roma, Lithos, 2002, pp. 76-77): “Il 1964 è un anno snodo e simbolo di tutta la contemporaneità artistica. L’avvento di una precisa nuova identità del mercato, la cinica irruenza della speculazione e delle grandi multinazionali nel gioco delle parti di un’economia dell’arte sempre meno povera e disarticolata, ma prepara irrimediabilmente la nascita di quello che sarà soltanto pochi anni dopo il ’68. […] Il ’64, si diceva, segna la fine dell’utopia del primo consumismo europeo e Marcuse esprime bene nel suo testo L’uomo a una dimensione, la frustrazione nei confronti di un concetto molto relativizzato nell’ambito del sistema sociale, ovvero il senso di libertà, mai così forte, eppure mai così illusorio”.
  8. Nel libro sopra citato (Simonetta Lux-Domenico Scudero, Lucia Di Luciano, L’alba elettronica, Roma, Lithos, 2002) un Glossarietto anti-lineare (uno pseudo-glossario)è dedicato da chi scrive alle parole e gli autori di quel dibattito che sboccò appunto nel ’68. Fin dalla voce A/arte/ Opera aperta di Umberto Eco è un filo rosso che accompagna: ”/arte/A L’arte è pensata negli anni della apparizione delle neoavanguardie come metafora epistemologica. È il famoso termine che usa Umberto Eco nel saggio “Opera aperta” del 1959 (saggio derivato da una comunicazione al Congresso Internazionale di Filosofia dell’anno precedente, e il cui titolo sarebbe stato esteso a tutto il volume pubblicato nel 1962 da Bompiani), mostrando da un punto di vista condiviso dagli artisti, dai poeti e dai musicisti come e perché l’arte non rappresenti né copi il mondo”. Per Eco la funzione di un’arte aperta quale metafora epistemologica è suggerire (in un mondo in cui la discontinuità dei fenomeni ha messo in crisi la possibilità di un’immagine unitaria e definitiva) “un modo di vedere ciò in cui si vive, e vedendolo accettarlo, integrarlo alla propria sensibilità” (Eco). Per chi scrive, ciò significava “fine dell’avanguardia, cioè del processo agonistico e del progetto utopistico di trasformazione del mondo che la aveva storicamente caratterizzata (op. cit., pp. 48-49). Accettavo alla fine la disillusione definitiva sul possibile ruolo formativo dell’arte, riproducendo in quello stesso volume, alla voce R/ricerca ghestaltica/ l’articolo di Giulio Carlo Argan dallo stesso titolo, pubblicato su “Il Messaggero” di sabato 24 agosto 1963. Un ruolo che sembra venir rilanciato (da alcuni artisti e gruppi indipendenti), se l’istituzione pubblica dell’arte (il museo) lo vuole fare.
  9.  Di chi scrive, il capitolo Dall’opera aperta all’opera infinita, in Simonetta Lux, arte ipercontemporanea un certo loro sguardo…ulteriori protocolli dell’arte contemporanea, Roma, Gangemi, 2006
  10. Zygmunt Bauman, Vite di scarto, Roma-Bari, Laterza, 2005.Traduzione di Marina Astrologo, ,
    [Ed. originale: Wasted lives. Modernity and its outcasts, Polity Press, Cambridge 2003].  Cito dalla recensione di Laura Menatti  del 26/10/2005: http://www.recensionifilosofiche.it/crono/2006-03/bauman.htm, n. 5, marzo 2006
  11. Fin dall’inizio del millennio Hou Hanru sollecita a guardare l’arte – per quanto sperimentale sia, come a una normalità, pari alla normalità della vita. In « Moving Images of Pearl River Delta 1999-2003… 我的城市化 » 分类Category: 英文文稿 | English Essays & Interviews, Ou Ning ripubblica nel 2006 un’intervista a Hou Hanru, uscita per la prima volta in Art Union nel 2001, poi inclusa nel raccolta di testi di Hou Hanru On the Mid Ground (Timezone 8,2002). “Dopo aver lasciato la Cina nel 1990, per andare a Parigi,  gli chiede che cosa è per lui, curatore internazionale, una mostra e come si misura un curatore d’arte di un paese in rapido mutamento come la Cina con la presentazione dei più innovativi e sconosciuti artisti al grande pubblico? Come hai potuto realizzare la terza Biennale di Shangai, fuinanziata dal governo, includendo ciratori e artisti internazioonali dell’occidente? “ le risposte: 1: The reason why I originally accepted the Shanghai Biennale’s invitation was not because the exhibition had become more relaxed about the styles of works that could be selected, but because I liked the challenge. How to make the government acknowledge contemporary art, how to eradicate the long-term antagonistic relationship between contemporary art and the state, this for me was where the real experiment of the Shanghai Biennale lay. At the same time, the experiment was to raise a major question for the artists of China: after contemporary art’s antagonistic relationship with ideology, political structures and cultural institutions has been completely resolved, what kind of art can Chinese artists make? I feel that this is one of the biggest challenges they face. 2: . Both the Avant-garde and the non Avant-garde display a clear objective of material gain, and both bear something very sentimental. I feel the Shanghai Biennale gave me the opportunity to try to weaken this sentimentality and bring out a relatively normal mode of operation and existence, and to gradually introduce a normal system into China under abnormal conditions. We have to persuade the government to recognise contemporary art, and also teach the art galleries, museums and specifically the executive body of the Biennale how to operate normally, this is very important. Introdurre un Sistema normale dlel’arte in una Cina in continuo rivoluzioonamento, cioè in ujna Cina che è in condizioni a-normali. Il tema della “normalità” dell’arte e di un “euqilibrio” da ricercare, attraverso l’arte, con la finalità di ri condurre l’uomo globalizzato e dimezzato a una vita “normale”e a valori primari “normali” persiste e trascorre in tutta l’opera di Hou Hanru. È interessante ricordare come in Italia, alla fine degli anni 70 (proprio nel ’79-‘80), nel momento dell’esplosione della condizione post-moderna che prefigurava la poi definita condizione “globalizzata”, vi furono alcuni poeti e artisti detti della generazione del ’57 e riconsiderare la vita, per uscire dal disastro (vedi il libro di Claudio Damiani, La difficile facilità-Appunti per un laboratorio di poesia, Lantana, 2016).   Il Bishan project dell’artista Ou Ning è uno dei più fortemente sostenuti da Hou Hanru (gli altri sono, tutti qualificati come centri di formazione sociopolitica e creazione: Rockbund Art Museum, Shanghai / Times Museum, Guangzhou / Times Museum, Guangzhou sopra ricordato / Artist Xu Zhen’s Madein group / Yangjiang group ) cfr: https://www.nowness.com/story/hou-hanru-super-reality May 15, 2012/Hou Hanru: Super Reality/ The San Francisco-Based Curator Selects Five Leading Chinese Artists and Galleries.  Hou Hanru, acclamato dopo aver co-curato quella pietra miliare che fu la prima mostra di arte sperimentale contemporanea, China/Avant-Garde alla Beijing’s China National Art Gallery nel 1989,, poi direttore della seconda Guangzhou Triennial nel 2005, ed il Chinese Pavilion alla 52° Venice Biennale, appartiene a quella generazione di critici che hanno osservato la fine della rivolta negli artisti occidentali, dopo il 1968, e la persistenza –invece- di un ideale di sovvertimento e di trasformazione del mondo negli artisti cinesi: Harald Szeemann indicava questa potenzialità nel libro del 2004, di interviste a 23 artisti cinesi, appunto, Chinese Contemporary Art Awards 1998-2002, curato da Ai Weiwei, con saggi di Alanna Heiss, Harald Szeemann, Hou Hanru, Li Xianting, Yi Ying, and Uli Sigg. Tra gli autori, nel 2003, del libro How Latitudes Become Forms, Art in the Global Age (pubblicato dal Walker Art Center, curato da Philippe Vergne con contributi di Philip Büther, Vasif Kortun, Baraka Sele, Kathy Halbreich e testi di Paulo Herkenhoff, Steve Dietz, Cuauhtemoc Medina, Hidenaga Otori, Hou Hanru, Vishakha Desai), volevano rispondere all’interrogativo:”How can museums connect with new audiences through different practices, different scholarships, and different interpretive strategies that grow out of the sedimentation of their own history?”: il tema è il rapport tra museo/arte (di cui non +sono messi in dubbio ruolo e figura) e nuovi pubblici. E’ inoltre la questione della creazione di un nuovo internazionalismo, a petto –sembra- della perdita di centralità del progetto “occidentale” dell’arte”. Gli interrogativi di allora: “Does the global information age facilitate an international language of art and an alternative reading of history, from art history toward art histories? From the perspective of a museum of modern and contemporary art–a purely European construct–the art institution has to overcome a major contradiction, one that exists between its mission of permanence and its mission of change. How can cultural institutions contribute to the revamping of their own structures now that the hegemony of Western modernity is being challenged?”.
  12. Stefano Taccone, Hans Haacke. Il contesto politico come materiale, Plectica, Salerno, s.d.) ma 2010 , pubblicato in concomitanza con la presenza di Hans Haacke come visiting Professor alla Fondazione Ratti di Como
  13. Utopia for sale?/ 15 febbraio – 4 maggio 2014 MAXXI-Galleria 5
    a cura di Hou Hanru e Monia Trombetta
    con il contributo dei team curatoriali del MAXXI arte e del MAXXI architettura 
    L’Utopia del potere monetario sta gradualmente sostituendo l’Utopia del bene sociale. L’Utopia è in vendita? La mostra è un omaggio ad Allan Sekula e vede esposti, oltre ai lavori dell’artista scomparso pochi mesi fa, opere video e installazioni ma anche disegni, fotografie di siti e paesaggi industriali dalle collezioni del MAXXI Arte e del MAXXI Architettura. I lavori in mostra riflettono sui temi della globalizzazione e sulla circolazione delle idee, dei prodotti e delle persone in un’epoca di vorticosi cambiamenti sociali, culturali ed economici. Bernd and Hilla Becher | Noel Burch | Gianni Berengo Gardin | Libero De Cunzo | Fei Cao | Adelita Husni-Bey | Li Liao | Pier Luigi Nervi | Allan Sekula | Amie Siegel
  14. Hou Hanru, acclamato dopo aver co-curato quella pietra miliare che fu la prima mostra di arte sperimentale contemporanea, China/Avant-Garde alla Beijing’s China National Art Gallery nel 1989,, poi direttore della seconda Guangzhou Triennial nel 2005, ed il Chinese Pavilion alla 52° Venice Biennale, appartiene a quella generazione di critici che hanno osservato la fine della rivolta negli artisti occidentali, dopo il 1968, e la persistenza –invece- di un ideale di sovvertimento e di trasformazione del mondo negli artisti cinesi: Harald Szeemann indicava questa potenzialità nel libro del 2004, di interviste a 23 artisti cinesi, appunto, Chinese Contemporary Art Awards 1998-2002, curato da Ai Weiwei, con saggi di Alanna Heiss, Harald Szeemann, Hou Hanru, Li Xianting, Yi Ying, and Uli Sigg. Tra gli autori, nel 2003, del libro How Latitudes Become Forms, Art in the Global Age (pubblicato dal Walker Art Center, curato da Philippe Vergne con contributi di Philip Büther, Vasif Kortun, Baraka Sele, Kathy Halbreich e testi di Paulo Herkenhoff, Steve Dietz, Cuauhtemoc Medina, Hidenaga Otori, Hou Hanru, Vishakha Desai), volevano rispondere all’interrogativo:”How can museums connect with new audiences through different practices, different scholarships, and different interpretive strategies that grow out of the sedimentation of their own history?”: il tema è il rapport tra museo/arte (di cui non +sono messi in dubbio ruolo e figura) e nuovi pubblici. E’ inoltre la questione della creazione di un nuovo internazionalismo, a petto –sembra- della perdita di centralità del progetto “occidentale” dell’arte”. Gli interrogativi di allora: “Does the global information age facilitate an international language of art and an alternative reading of history, from art history toward art histories? From the perspective of a museum of modern and contemporary art–a purely European construct–the art institution has to overcome a major contradiction, one that exists between its mission of permanence and its mission of change. How can cultural institutions contribute to the revamping of their own structures now that the hegemony of Western modernity is being challenged?” Nel 2013, con il suo contributo al libro Utopia & Contemporary Art ( Hatje Cantz,) che esplora i diversi modi in cui gli artisti e curatori hanno pensato e progettato “l’utopia”, rivisitandola o praticandola, Hou Hanru al MAXXI a Roma presenta “Utopia for Sale?”.
  15. È “lo spazio dimenticato” di Allan Sekula e Noel Burch, The Forgotten Space, (2010) nel video proiettato in “Utopia for Sale” (The Forgotten Space, 2010,video HD, 112’, Courtesy DOC. Eye Film, Amsterdam e/and Christopher Grimes Gallery, L.A.). Lo spazio e I luoghi o non-luoghi dimenticati del lavoro schiaivizzato, nel mo0ndo globale dell’economia del commercio. Al lavoro fotografico e video di Allan Sekula è stato attribuito l’impatto teorico di “Realismo critico”
  16. Evan Osnos, intervista Li Iao con il titolo What is an iPad Doing on a Pedestal at a Chinese Art Museum?, “New Yorker”, 2013. Osnos, commentatore di politica e affari internazionali sul new Yorker dal 2008, e autore di un libro non artistico come , “Age of Ambition: Chasing Fortune, Truth, and Faith in the New China, premette all’intervista: “My edited Q. & A. with Li Liao is below, but first a note on the context: his piece “Consumption” is one of fifty commissioned works by fifty young artists, now on display at the UCCA, in a terrific new exhibition called “ON | OFF.” Curated by Bao Dong and Sun Dongdong, the show is the most ambitious survey of work by artists born after the death of Mao and the birth of the economic boom. Why call it “ON | OFF”? The name comes from the familiar display of one of China’s most popular proxy services, the kind of technical detour that people, young ones especially, use to get around the Great Firewall. And, as the organizers put it, these artists have “grown up in a society and culture beset by binaries, constantly toggling between extremes.” Cfr: Keinsung Gallery site ed il collezionista di Li Liao, Alan Lau.
  17.  Adam Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, 1776
  18. 18. Emil Kaufmann, Tre architetti Rivoluzionari. Boullée, Ledoux, Lequeu, Franco Angeli editore MIlanop, 1976 (Titolo originale :Three Revolutionary Architects. Boullée, Ledoux and Lequeu, 1952. Transactions of the American Philsophical Society, Held at Philadelphia for promoting Useful Knowledge, New Series, vol.42, part.3, 1952)In BnF, Bibliothèque nationale de France, in Gallica, la bibliothèque numérique, Dossiers, Utopie: L’architecture visionnaireEmil Kaufmann, Tre architetti Rivoluzionari. Boullée, Ledoux, Lequeu, Franco Angeli editore MIlanop, 1976 (Titolo originale :Three Revolutionary Architects. Boullée, Ledoux and Lequeu, 1952. Transactions of the American Philsophical Society, Held at Philadelphia for promoting Useful Knowledge, New Series, vol.42, part.3, 1952).
  19. In BnF, Bibliothèque nationale de France, in Gallica, la bibliothèque numérique, Dossiers, Utopie: L’architecture visionnaire.cfr: http://gallica.bnf.fr/dossiers/html/dossiers/Utopie/T32.htm
  20. Cfr: http://design.repubblica.it/2016/04/19/superstudio-cinquantanni-di-design/#1. E’ collezionata al Les Turbulences – FRAC Centre in Orléans by Jakob + MacFarlane  gran parte dell’opera dei Superstudio ( cfr:http://www.frac-centre.fr/des-printemps-politiques-852.html e cfr: http://www.detail-online.com/article/les-turbulences-frac-centre-in-orleans-by-jakob-macfarlane-16586/. Sul Monumento Continuo e Aurélie Vernant: cfr: Cfr.: http://www.frac-centre.fr/collection-art-architecture/superstudio/monumento-continuo-64.html?authID=185&ensembleID=988.
  21. MLAC index 2000-2012. Museo Laboratorio di Arte Contemporanea, Roma, Gangemi, 2012, a cura di Simonetta Lux, con introduzione storica di Simonetta Lux e contributi di Giorgia Calò, Lucrezia Cippitelli, Simonetta Lux, Daniela Tortora, Alessandra Troncone. Collana di luxflux prototype arte contemporanea. Documenti V.
  22. Hou Hanru, Utopia in Action
  23. 23.La messa in scena del Parere sull’architettura di Giovanni Battista Piranesi|è stata promossa e realizzata dalla Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, febbraio 2007.Interventi di Marco Trisciuoglio, Marco Romano, Edoardo Piccoli.24.Altermodern at Tate Britain- 3 febbraio-26 aprile 2009. Sull’orlo della crisi economica europea/americana, la quarta Tate Triennial si interrogava:” Want to know what’s happening in contemporary art now?)
MAXXI calling: UTOPIA FOR SALE? PLEASE COME BACK! Ma da dove e verso dove?
 A proposito dell’arte nel mondo del controllo illimitato: da UTOPIA FOR SALE? a PLEASE COME BACK!

Seeing comes before words. The child looks and recognize before it can speak. But there is another sense in which seeing comes before words. It is seeing which establishes our place in the surrounding world; we explain that world with words, but words can never undo the fact that we are surrounded by it. The relation between what we see and what we know is never settled.John Berger, Ways of seeing, 1972, incipit..(1)

[La visione viene prima della parola. Il bambino guarda e riconosce prima che possa parlare. Ma c’è un altro senso in cui la visione viene prima delle parole. E’ il vedere che stabilisce il nostro posto nel mondo circostante; noi spieghiamo il mondo con le parole, ma le parole non possono mai annullare il fatto che siamo circondati da esso. La relazione tra ciò che vediamo e quello che sappiamo non è mai risolta.]

“Nella situazione attuale, il capitalismo non è più orientato alla produzione, che speso relega nelle periferie del terzo mondo, persino nelle forme di produzione complesse come il tessile, il metallurgico o il petrolifero….petrolifero…la fabbrica ha ceduto il posto all’impresa…) Il Marketing è ora lo strumento del controllo sociale e forma la razza impudente dei nostri padroni. (…)  L’uomo non è più l’uomo rinchiuso, ma l’uomo indebitato”

Gilles Deleuze, Poscritto sulle società di controllo, “L’autre Journal”, n.1, maggio 1990. (2)

 

Le due tappe più acute della direzione artistica del MAXXI di Hou Hanru sono forse state le UTOPIA FOR SALE? (Utopia in vendita?) e la recente PLEASE COME BACK! Le collego strettamente grazie a un punto interrogativo (?) e a un punto esclamativo (!): in esse artisti prescelti ci invitano a osservare la nostra condizione, come Allan Sekula (nella mostra Utopia for sale?) le cui fotografie e video sono state definite “Critical Realism”, cioè un modo di cercare di capire la realtà sociale “prendendo annotazioni” criticamente, come graffi sulla realtà che lasciano tracce nelle nostre menti (3); o come Elisabetta Benassi, che ricreando effettivamente un oggetto cruciale della memoria obliterata di azioni ( The Bullet Proof Angela Davis) ci fa tornare alla mente il movimento di Resistenza Critica possibile (4 ) di cui Angela Davis fu tra i creatori per la abolizione del sistema carcerario statunitense, sempre più esteso e volto alla privatizzazione del sistema carcerario, sempre più apparente come un anticipo dell’attuale esteso controllo globale sulle persone: tema della mostra Please come back!

L’artista – diciamo a partire dall’epoca della rivoluzione industriale e della rivoluzione francese, cioè dalla fine del 1700 – si è fatto committente di se stesso, cioè ha esercitato la libertà di espressione conservando, proprio a partire dall’epoca che la negava, l’essenza dell’uomo come libero creatore ri-producente nella propria opera le condizioni della vita contemporanea. Il pensiero critico moderno ha attribuito all’arte cioè all’artista un ruolo centrale: quello di ricostituire in unità, nell’unità del segno o dell’oggetto o del gesto da lui prodotto, l’io diviso dell’umanità moderna. Di fronte all’opera d’arte – si crede universalmente – posso leggere quell’unità perduta, o almeno una sua traccia o un suo segno. Se con John Berger accediamo all’idea del processo di continuo aggiustamento tra ciò che conosciamo e ciò che vediamo –nel nostro caso, tra ciò che sappiamo [/ di noi stessi e del mondo] e ciò che l’artista ci dà a vedere, possiamo capire la persistente attrazione che esercita il museo o in generale i luoghi dove l’arte/l’artista si dà/ ci dà a vedere.

E’ la persistente attrazione di una illusione, del fantasma di una idea, che persiste malgrado il presente disorientamento e la persistente separazione tra mondo della vita e mondo dell’arte: tutti i punti di riferimento individuali e soggettivi, mascherati fin nell’origine del mondo moderno, sono ormai dissolti.

E tuttavia crediamo che persista –attraente- quell’illusione- in quella parte di noi [passiva, non creativa, consumante] aperta al turbine della comunicazione. Per questo la gente va al museo a incontrare l’arte.

Continuo a dirmi questo, ogni volta che mi offro –in un’occasione o in un’altra: in questo caso nella mostra al MAXXI PLEASE COME BACK – e mi aprocome una qualsiasi delle persone del pubblico del museo o dell’arte, a ciò che un artista (certo insieme ad un curatore) mi dà a vedere.  Prendiamo l’opera di Lim e l’opera di Elisabetta Benassi, le prime che incontriamo sparse dall’atrio del museo, e vicino al guardaroba, prima di andare su nel salone dove altre sono concentrate, proiettate su grandi schermi o appese alle pareti della grande sala panoramica vetrata che affaccia sul mondo (infatti la mostra fin dall’inizio appare sparsa a brandelli– e non lo è- da subito si pone ermeticamente al nostro approccio, costringendosi all’interrogazione, di noi stessi e del mondo).

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La prima opera che incontriamo appena varcata la vetrata di ingresso, è una gabbia di alluminio, con all’interno dei bagagli, valigie di acciaio (non vere come quelle del Muro del Pianto di Fabio Mauri) (5) e fuoriuscente una panca sempre come un’estroflessione della struttura metallica, alla quale l’artista malaysiano H. H. Lim ci invita a sedersi. Leggeremo nella sua dichiarazione di artista (in catalogo):” Non esiste nessuna gabbia che non rassomigli alla galera. Ciò che è straordinario, però, risiede nel fatto che le gabbie possono essere considerate da due diversi punti di vista: uno odiato e uno amato. La gabbia più odiata è ovviamente la galera, la prigione dell’uomo. Al contrario invece, il caveau del tesoro esercita su di noi grande attrazione. Questa attrazione però attua una forza tentatrice che ci rende vittime di una gabbia mentale. La tentazione provoca una contaminazione in grado di attraversare la nostra quotidianità, che è data dall’accanimento su ogni oggetto che ci circonda e da una costante autosorveglianza. Nella sua storia dunque l’uomo è stato capace di creare una gabbia per il tesoro e una per se stesso”. Ci sediamo cioè entriamo nell’opera di Lim e pensiamo alle nostre storie (siamo qui al museo in utopia in azione): io con 4 amici Stefania Vannini, responsabile del public engagement del MAXXI, la quale porta dentro il museo e rende partecipi dell’arte quelli che fuori dal Museo salvano istruendo (il Centro Civico Zero-con Save the Children, per migranti minorenni soli) od i salvati, come Mortheza Khalevi, minorenne migrante divenuto ormai fotografo e narratore della sua vita stessa: eccolo alle mie spalle. Lim ci ha immesso nel tema della mostra: nella sua complessità, nel fatto che il principio di sorveglianza (senza essere visti, senza far vedere), di punizione (il nostro prezioso tesoro, che ad altri è impedito custodire, con la privazione della dignità umana) e di permanente minaccia

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Ci viene incontro, mentre ci avviamo a vedere la mostra, una cabina vetrata, dentro sonora (poi sapremo che si tratta della composizione dedicata ad Angela Davis dal compositore italiano Luigi Nono nel 1972): è l’opera di Elisabetta Benassi (4), scopriamo subito leggendo lì accanto la palette a forma di “parola in fumetto”, che si eleva al nostro sguardo come la palette di un guida turistica che ci guida verso qualche altrove…: c’è scritto ” PLEASE COME BACK” (è la mostra di cui fa parte), Dentro le mura_Behind the walls (sono una delle 3 sezioni, scoprirò più tardi nel catalogo). E poi il nome dell’artista Elisabetta Benassi (Roma, 1966) il titolo dell’opera: The Bullet-Proof Angela Davis 2011, la tecnica e la materia di quell’oggetto: Struttura in acciaio e plexigas, registratore, acquerello su carta. E infine l’accenno di narrazione dell’opera da parte dei curatori (narrazione che noi se vogliamo dovremo per nostro conto continuare) che ci dicono della trasformazione in scultura di un frammento di immagine di un evento lontano (di 45 anni fa) che l’artista ci propone come azione della sua arte, convocandoci a ripensarlo: “Il 30 giugno 1972 al Madison Square Garden di New York, l’attivista Angela Davis (7) tiene un discorso, a pochi giorni dall’inizio del processo che le darà risonanza internazionale. In quella occasione, per il timore di attentati, l’oratrice è protetta da un o schermo antiproiettile. Recuperata da un’immagine d’archivio, questa struttura viene trasformata da Elisabetta Benassi in una scultura che nelle sue forme allude al minimalismo. Al suo interno un registratore riproduce in loop un pezzo che il compositore Luigi Nono 6) aveva dedicato a lei e ad altri esponenti del movimento afroamericano”. Angela Davis: rivedo i giorni della mia giovinezza, appena laureata, l’incontro con Herbert Marcuse a Roma, nell’Università La Sapienza: lo adoravamo per il suo Eros e civiltà (1955), leggevamo il suo Uomo a una dimensione (1964) (7).

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Marcuse: era stato il maestro di Angela Davis – ce lo fa riscoprire oggi Elisabetta Benassi- lo aveva incontrato in una manifestazione durante la crisi dei missili a Cuba, e ha ricordato più tardi, in un’intervista del 2007, nel suo metodo di insegnamento propose il pensiero critico e non l’apprendimento passivo. E le aveva insegnato che si poteva essere unitamente un accademico, un attivista, un intellettuale e un rivoluzionario. Vado all ricerca delle immagini originali della sua conferenza del 1972 (era un ciclo che ha fatto in tour attraverso tutti gli Stati Uniti), poco prima del suo processo per terrorismo (da cui fu assolta) e poco dopo essere stata liberata dalla prigione (dove era stata per undici mesi) grazie alla rivolta di artisti e intellettuali di tutto il mondo, tra cui appunto in Italia il compositore Luigi Nono e nel 1972 Renato Guttuso che la inserisce nel suo quadro I funerali di Togliatti (1972) (6). La potenza sintetica dell’opera di Elisabetta Benassi ci si ricostruisce intimamente, studiando on line i documenti dell’epoca: la violenza promessa e in ogni momento possibile contro la libertà di espressione delle proprie idee – fu necessario circondare Angela Davis di una cabina antiproiettile, lei che per prima ed unica forse al mondo ad aver affermato una posizione abolizionista–del sistema industrializzato-privatizzato carcerario americano ( se si escludono Marco Pannella ed il partito radicale italiano)-foriero –diceva fina da allora- di una nuova società schiavista: quale è quella di cui stiamo parlando.

Oggi l’opera dell’artista è non solo connaturatamente “aperta” (come ci insegnava Umberto Eco nel saggio del 1962) (8),  aperta come un testo che permette interpretazioni multiple o mediate dai lettori”, è opera realizzata o prodotta con talmente tante (se non infinite) tecniche e procedure (da quelle antiche a quelle più tecnologicamente avanzate) da schiudersi appena, quasi a sfuggire a quell’unità che ognuno, dal mondo che sta fuori dell’arte e /o fuori dal museo, aspirerebbe o crederebbe di trovare nell’arte.

E tuttavia il curatore (il deus ex-machina dello spettacolo dell’arte) o l’artista stesso oppure insieme, offrono al nostro io diviso il filo d’Arianna di un rapporto critico possibile col mondo, – filo d’Arianna che può essere un titolo PLEASE COME BACK! o un sottotitolo, magari con un punto interrogativo: IL MONDO COME PRIGIONE? THE WORLD AS A PRISON? o una didascalia /messaggio nella bottiglia / dell’artista-  che ognuno di noi dovrebbe stringere tra le dita come Arianna, appunto, per indurci a misurare ciò che vediamo con ciò che sappiamo o andiamo a cercare di sapere, a misurarci con noi stessi, con il nostro sapere, per raggiungere un altrove, dove compiere una eventuale azione o dove altri stanno agendo. L’opera aperta è divenuta opera infinita (9) negli artisti che volgono al mondo il loro sguardo e ce ne rinviano segni frammentari o tracce che tocca noi estendere alla realtà delle cose e della condizione umana, eventualmente agire per cambiare: Che cosa sta facendo di noi il mondo del commercio globale, disinteressato del tutto all’uomo e alla persona?

Tra gli autori, filosofi, cui la mostra ci rinvia, Zygmunt Bauman, appena scomparso, è quello che più ci ha segnato accompagnandoci nel passaggio di millennio. “Bauman ha variamente analizzato il concetto di globalizzazione nelle sfaccettature e nelle crepe dell’anima che si producono nel cittadino immerso nell’assordante magma globale (o glomus, come direbbe Jean-Luc Nancy) sradicato e deterritorializzato. Per Bauman, le politiche neoliberiste hanno posto le condizioni per lo sgretolamento del tessuto sociale e per la crisi dell’identità del cittadino contemporaneo”. Bauman ci parla appunto di “Stato caserma” […] “Lo Stato del welfare (con precipuo riferimento all’Europa) è ormai surclassato. L’ultimo – opinabile per Bauman – tentativo di auto-legittimazione dell’entità statale è la famigerata questione della sicurezza / definita in un saggio del 1999, La società dell’incertezza, e che ora chiama la società liquido-moderna, (10).

Hou Hanru: l’ibridazione utopia/distopia.

La presidente della fondazione MAXXI ha detto essere questa “la più politica” tra le mostre realizzate finora. Credo tuttavia che Il deus ex machina di questa mostra il direttore artistico del MAXXI Hou Hanru (che la ha curata insieme a Luigia Leonardelli): non sarebbe d’accordo (11). Dichiara, sì, di voler fare riferimento, con questa mostra, alla questione del controllo onnipervadente, in ogni regime politico di oggi -democratico o non che sia- nel mondo globalizzato.

Ma nella conferenza stampa del febbraio scorso – ha detto esplicitamente ciò cui questa mostra vuol fare riferimento è il disinteresse per il diritto individuale della persona, che è lampante da parte di ognuno dei regimi o organizzazioni socio-economiche vigenti nel mondo. Insomma Hou Hanru ha posto una questione macro/micro global: come si regola l’organizzazione del potere rispetto alla libertà e al corpo della persona?

Questione che diventerebbe politica se vivessimo in un regime non democratico –cosa che fortunatamente quello italiano non è: perché se non fosse democratico, accadrebbe in Italia ciò che avvenne negli Stati Uniti il 19 marzo 1971, quando Thomas Messer, direttore del Guggenheim Museum di New York, scrisse la nota lettera di minaccia di cancellazione della mostra all’artista Hans Haacke (mostra che poi il 1 aprile di quell’anno fu effettivamente cancellata), in quanto alcuni scritti e immagini esplicitamente sostenevano “l’esistenza di cattive pratiche sociali” da parte di società immobiliari: il che contrastava con il fatto che lo statuto del museo Guggenheim perseguiva “obiettivi estetici ed educativi”, escludendo l’impegno attivo a fini sociali e politici: solo la forza indiretta e la forza esemplare poteva essere esercitata dall’arte all’interno dell’ambiente. (12) Certo, oggi in Italia, in aggiunta al ruolo istituzionale e pubblico che la Costituzione assegna all’arte, al Museo e ai luoghi della cultura,- ruolo di educazione e conservazione della memoria di valori che le opere d’arte collezionate dal Museo incarnano- è sbandierata dall’attuale ministro della cultura, la idea della funzionalizzazione economico/finanziaria dei luoghi della cultura e del museo in particolare: ma per ora lasciamo a molti colleghi, tra cui Tommaso Montanari, la acuta polemica sull’uso degenerato finanziario delle istituzioni museali e affidiamo alla ministra dell’Università e della ricerca scientifica Valeria Fedeli – che sembra volerlo fare- la promozione dell’uguaglianza di opportunità e di processi di “formazione continua” che paiono sempre più necessari, in una società afflitta da perdita di memoria e da analfabetismi di ritorno, avvertimento e lascito dell’amico e maestro, filosofo del linguaggio, Tullio De Mauro, che ci ha lasciato all’inizio di quest’anno.

Diciamo che il MAXXI e i suoi artisti stanno rilanciando il ruolo principale del museo e dell’arte contemporanea, rivolgendosi piuttosto ai cittadini che ai politici.

Molto più politico era stato Hou Hanru con la mostra del 2014 Utopia for sale? (13) Nella quale si chiedeva/ci chiedeva: Non è forse in vendita l’Utopia? Se l’Utopia del potere monetario sta gradualmente sostituendo l’Utopia del bene sociale?

Era stata, quella mostra di tre anni fa, realizzata senza catalogo, ma con un prezioso booklet, impostazione e premessa di quanto sarebbe avvenuto poi, al MAXXI, con la sua direzione artistica. Utopia for sale? è stata la dichiarazione di identità di Hou Hanru, peraltro già dichiarata attraverso i suoi numerosi libri ed interviste, e storie curatoriali attraverso il mondo. (14) La sua peculiarità: unire questioni del grande contesto (il mondo) e dello specifico contesto (quello dove si dà a vedere l’opera d’arte e/o un progetto curatoriale)

Una identità critica e non ideologica, una diagnostica dei processi globali in corso (un modo diverso di fare la storia attraverso l’arte e le opere fotografiche, video, ready made, di artisti): richiamare gli spazi dimenticati “fuori dalle nostre menti”, (15) i movimenti che si dispiegano dalle nazioni che producono a quelle che consumano (i film e le fotografie di Allan Sekula e Noël Burch);  i mutamenti dei valori e dei significati dell’arte e del design, la dissoluzione del senso originario dell’arte, attraverso 60 anni di trasmutazioni e transustanziazioni (i film di Amie Siegel Provenance e Lot 248, del 2013 sulle opere di design e architettura di Le Corbusier); la crisi del mondo fordista attraverso le foto di Berndt ed Hilla Becher, dei siti abbandonati della Germania industriale; le fotografie degli italiani- nella collezione MAXXI- Gianni Berengo Gardin (uno dei maggiori fotografi di documentazione sociale del novecento) e Libero de Cunzo, il fulcro della cui opera è il rapporto uomo ambiente e il paesaggio e ambiente urbani; l’opera progettuale ed in divenire di uno dei più grandi progettisti di edifici pubblici e popolari Pier Luigi Nervi (1891-1979; grattacieli, cattedrali, stadi, palazzi del lavoro, Palazzo Unesco); la giovanissima Adelita Husny-Bei, che collaborerà con Educational e public engagement Departement del MAXXI  diretto da Stefania Vannini; Li Liao che ha fatto opera della [sua] condizione di operaio precario e sottopagato.

Non potevo staccarmi dalla visione delle vie del commercio mondiale, attraverso le fotografie di Allan Sekula (Fish Story,1989-1993) – colui che distrusse il confine tra pratica creativa e teorizzazione critica (18 Realismo critico) né dalla proiezione del video HD di Allan Sekula e Noël Burch The forgotten space (2010).

Lo “spazio dimenticato” è quello su cui si muove la rete transoceanica di trasporti dei beni di consumo mondiali. L’organizzazione è garantita da milioni di lavoratori sottopagati, cioè da una condizione umana francamente schiavistica. Al centro del film, realizzato in forma di documentario, si stagliano le enormi navi “container”, che con il loro viaggi avanti indietro trans-oceanici, garantiscono il sistema consumistico: un modo diverso di dire ciò che Zygmunt Bauman ci aveva insegnato con Vite di scarto (2007).

 Non mi ha meravigliato – dopo che avevo analizzato le straordinarie strutture a tenda di Pier Luigi Nervi a partire dagli anni ’30 (quando collaborava con Marcello Piacentini alla Casa Madre dei Mutilati, a Roma) e mi ha cionondimeno stordito la esibizione del magnifico progetto (dalla Collezione MAXXI) per le Cartiere Burgo, dove egli trova la soluzione di un edificio/macchina, cioè la creazione di un unico ambiente continuo di 250 metri per collocarvi la macchina continua per la produzione della carta. Un funzionalismo assoluto ed immaginifico nel gesto risolutivo dell’ingegnere, che ne ratifica la magnificenza ed il valore attraverso la storia: laddove peggiore destino di progetti modernisti illuminati ci viene mostrata nei film di , nei quali la artista ci dà a vedere la avvenuta metamorfosi in feticci collezionistici dell’opera e dello stile modernista di Le Corbusier a Chandigarh (15 agosto 1947), a suo tempo esaltati come soterici e highlighting , oggi – nel sistema finanziario dell’arte- oggetto di battute d’asta  a suon di milioni di dollari, mentre nel loro site specific – come a Chandigarh in India appaiono – nell’occhio impietoso della videocamera- abbandonati e ammucchiati come scarti in depositi polverosi dell’edificio stesso con cui in origine facevano corpo.

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5-6

C’era poi l’opera di Li Liao, Consumption del 2012, con la quale l’artista cinese aveva rappresentato, ( con un low profile concettuale) appunto 2 anni prima, la figura dell’artista e l’arte cinese del dopo-Mao: aveva esposto nel museo di arte contemporanea di Beijing e nella collezione di Beijing, per la mostra On-Off, un computer MAC (che egli aveva acquistato con quanto aveva guadagnato dopo aver lavorato per 45 giorni nella FOXCONN, la più grande ditta di produzione e assemblaggio di computer Mac), un Badge da lavoratore e la sua tuta da lavoro. Evan Osnos critico del New Yorker che lo intervista a Beijing scrive un pezzo dal titolo: Che ci fa un iPad su un piedistallo in un Museo cinese d’arte contemporanea? (16) Hou Hanru ci aveva dato insomma – con la mostra Utopia for sale? -di squarci di visione (frammentari ma precisi) sul macro mondo dell’economia mondiale, sul micro mondo della condizione umana dell’operaio sostanzialmente schiavizzato, e- cosa che ci parso assai più difficile da far percepire attraverso la narrazione critica, teorica o storica- l’attraversamento del tempo dove muore (o sembra morire) l’opera dell’artista, o architetto o designer muore: schiacciata dal sistema stesso dell’arte, che pure la ha a suo tempo legittimata.

Eccoci tornati a Please Come Back! la cui premessa era stata Utopia for sale? e forse, più di ogni altro, l’opera Li Iao Consumption.

In Utopia for Sale? macro diagnosi della “svendita” delle nostre irrealizzate utopie (la felicità in terra dell’uomo e come procurarla)

Please come back! è come un paragrafo della irremovibile legge del mondo della prevaricazione dei pochi sui molti, della disuguaglianza, dell’esclusione.

Come parlano gli artisti – oggi- di quella forma di prevaricazione che è il controllo delle masse, attuata fin dalla rivoluzione industriale e fin dalla rivoluzione francese con la ideazione architettonica e la realizzazione di isole concentrazionarie (carceri), nelle quali è possibile osservare, controllare e reprimere ogni recluso? Ed oggi realizzata con il sistema informatizzato di ripresa e comunicazione web?

Ma in più, come ne parlano i reclusi stessi, o gli uomini del mondo apparentemente di non reclusi, o i grandi teorici e analisti della condizione umana “sotto controllo”?

E perché farlo nel museo, che si occupa dell’arte – dicono gli oppositori dell’arte contemporanea- e non nei luoghi deputati a rispondere domande politiche o etiche, come questa?

A proposito di Li Liao l’intervistatore del New Yorker apprezzava che l’artista si fosse precipitato in medias res, diversamente dagli analisti in USA che –  egli nota- si barcamenavano sull’opportunità o meno della delocazione della produzione dei computer in Cina a basso costo: insomma detto cripticamente- Li Liao andava diretto all’uomo, alla condizione umana nella sua realtà corpo/lavoro, nella vita-

Perché non alla “politica” o alla “religione” o alla “scienza sociale”? E’ insomma – questa, posta nel Museo, una forma culturale di politically correct, o è il solo modo o il solo luogo possibile di porre la questione?

Sembra che oggi all’arte all’artista tocchi avviarci sul sentiero della riunificazione nell’uomo di ciò che il mondo moderno, cioè la scienza, la fabbrica, oggi l’impresa e la finanza, hanno diviso. Che tocchi all’artista o al poeta e l’istanza è palese– una riscrittura della storia, che appare suddivisa in narrazioni ed istanze indicibili e sublimanti la questione fondamentale: che cosa il moderno ha fatto della persona umana? Non è inutile ricordare le parole con cui nell’ Indagine sulla natura e la ricchezza delle nazioni Adam Smith scriveva in proposito, nell’epoca della invenzione dei Panoptici: l’uomo dimezzato nella sua personalità nei nuovi processi di divisione del lavoro, alle origini della catena di montaggio (egli descrive il nuovo iperproduttivo processo di produzione degli spilli), è necessario che sia ridotto così, per il benessere e la ricchezza della nazione (17)

Non l’arte come astratta parola ma uomini/artisti stessi hanno deciso nel loro percorso in quanto artisti di dare risposta formale/visuale a tale interesse o interrogativo, o –anche ben prima di oggi- semplicemente porlo, operando nel vasto campo dell’autonomia tematica e tecnica

Oltre agli artisti che espongono, vi è nel catalogo di Please Come Back! a documentazione di opere e progetti realizzati sul tema delle carceri e della carcerazione dal 1745 ad oggi, realizzate da architetti e artisti: un interesse grande continuo e critico degli artisti, oltre che degli architetti e progettisti (questi ultimi per lo più integrati agli ideali concentrazionari della società moderna). All’intellighenzia museale (a direttori, critici, storici dell’arte e dell’architettura, o curatori) tocca (è toccato) il proporne –criticamente- l’opera nella storia dell’arte.

Emil Kaufmann nel suo famoso saggio (18) chiamava rivoluzionari i tre architetti: Boullée, Ledoux, Lequeu: rileggere oggi quel saggio è impressionante. Progettavano per la società moderna, tanto per luoghi simbolici e istituzionali, non solo carceri, ma tribunali e, quanto per le dimore dei detentori del potere e della ricchezza, vere e proprie fortezze dove la visibilità (del dominato) e la invisibilità (del dominante) si articolavano entro alte murature esterne e circolarità distributiva interna. Grandiose finzioni architettoniche, che invece di rispondere a bisogni, dovevano incarnare valori e virtù. A proposito delle finzioni (che possiamo chiamare prefigurazioni) architettoniche e progettuali che precedono immediatamente la rivoluzione, il giudizio di Alexis de Tocqueville nel 1856, su L’Ancien Régime et la Révolution (19) : “Au-dessus de la société réelle, dont la Constitution était encore traditionnelle, confuse et irrégulière, où les lois demeuraient diverses et contradictoires, les rangs tranchés, les conditions fixes et les charges inégales, il se bâtissait ainsi peu à peu une société imaginaire, dans laquelle tout paraissait simple et coordonné, uniforme, équitable et conforme à la raison. Graduellement, l’imagination de la foule déserta la première pour se retirer dans la seconde. On se désintéressa de ce qui était, et l’on vécut enfin par l’esprit dans cette cité idéale qu’avaient construite les écrivains”. Il trattato più famoso, quello di Claude Nicolas Lédoux, L’Architecture considérée sous le rapport de l’art, des moeurs et de la législation, che esce nel 1804, scritto in parte alcuni anni prima della sua carcerazione, in parte sotto la rivoluzione, durante la carcerazione stessa e completato dopo la liberazione , pubblicato a sue spese, qui riprodotto nella sezione “fuori le mura” del catalogo: cioè tra coloro che hanno prefigurato appunto – oppure denunciato- al di là dello stesso carcere, una condizione umana semplificata, disindividualizzata e sotto permanente controllo.

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7 – 8

In questa sezione gli si accompagnano le paradossali anarchiche finzioni urbanistiche, architettoniche e progettuali dei Superstudio (il collettivo fondato nel 1966 a Firenze da Adolfo Natalini e Cristiano Toraldo di Francia, due giovani appena laureati alla facoltà di Architettura.). Il Monumento Continuo, (1969) esposto nel 1972 alla mostra al MOMA di New York Italy-The New Domestic Landscape (la mostra che rese famoso il design italiano nel mondo).I Superstudio lo creano come una non-architettura, vogliono abbattere i confini della disciplina utilizzando nuovi linguaggi [sono quelli dell’arte rinnovata di allora] per esprimersi, “come body art, scritti, performances, installazioni, filmati” e ripudiano in questo modo l’architettura stessa in quanto codifica del modello borghese della proprietà”, l’urbanistica stessa “in quanto formalizzazione delle ingiustizie sociali presenti, finché architettura urbanistica e design non punteranno a soddisfare le necessità primarie dell’uomo”(20).

Ai due fondatori Adolfo Natalini (1941), Cristiano Toraldo di Francia (1941), si aggiunsero, Roberto Magris (1935-2003), Piero Frassinelli (1939), Alessandro Magris (1941-2010) et Alessandro Poli (1941).

Dobbiamo a Aurélien Vernant la scheda su Monumento Continuo- 1969-1970. ”Forgiando queste proiezioni distopiche sulla constatazione intuitiva e realista di un’epoca, Superstudio costruisce la rappresentazione sintetica e critica di una umanità entrata nell’era dell’immagine, della rete e della comunicazione totale”.

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9-10

Projet manifeste de l’architecture radicale, le «Monument Continu» fut présenté pour la première fois lors de l’exposition Trigon à Graz en 1969. Conçue comme un modèle d’urbanisation globale, cette grille tridimensionnelle parcourt la surface de la Terre en franchissant mégapoles, montagnes et océans. Développé par Superstudio jusqu’en 1971 à travers des dizaines de dessins, photomontages et storyboards offrant des visions spectaculaires (aqueduc romain traversant le Colorado, ceinture enserrant l’Acropole d’Athènes ou la ville de New York, etc.), le projet opère des mises en situation de ce que les «histogrammes» avaient défini au plan théorique: l’architecture réduite à l’état de neutralité absolue. Absorbant tout sur son passage, transcendant toute notion d’échelle et de localité, réduisant la Terre à un paysage unitaire et infrastructurel, le «Monument Continu» offre une image immuable et inaltérable, sans début ni fin. Forgeant ces projections «dystopiques» sur le constat intuitif et réaliste d’une époque, Superstudio construit la représentation synthétique et critique d’une humanité entrée dans l’ère de l’image, du réseau et de la communication totale”.

Con Gli Atti Fondamentali (1971-1972) la serie di lavori teorici, collages utopistici e film sperimentali volti a esplorare le vie di una “rifondazione antropologica e filosofica dell’architettura” i Superstudio aprono e confrontano “la questione dell’architettura con l’essenza della vita umana”. Senza indicazioni predefinite, fanno scorrere scene della vita quotidiana, scene domestiche, ordinarie e banali: attribuiscono all’uomo stesso la qualificazione e l’invenzione dello scenario e dello spazio che risponda ai suoi bisogni: ma in quasi mezzo secolo ciò non è avvenuto, sono state anzi esautorate nell’individuo le potenzialità creative ed espressive. E dunque? Per questo io che ho vissuto l’epoca delle utopie ed attraversato il progresso distopico attraverso quasi cinquant’anni, parlo di disillusione o illusioni perdute della mia generazione (21).

Secondo Hou Hanru l’artista contemporaneo (lo ha sostenuto in mirabili scritti e interviste, fin dal 2001,) ci propone utopie in azione, (22) attraverso la attivazione della nostra coscienza dello stato delle cose e di quel desiderio di normalità della vita individuale, fatta di pace, salute protetta, consumo regolato secondo necessità.

Il fatto che l’artista abbia reso o renda visibile la odierna sottomissione al controllo (che si argomenta ambiguamente nella forma della reclusione o della protezione: la sicurezza), è il più rilevante gesto, di fronte alla assenza e alla difficoltà di accesso ai luoghi della reclusione, fisica o immateriale che sia, (carcere o inseguimento on line di ogni nostro movimento e azione nel mondo).

In Italia dobbiamo a Marco Pannella, al Partito Radicale, oltre alla battaglia per i diritti universali della persona, la affermazione della necessità dell’accesso alle carceri, l’avvicinamento alla persona, la contestazione della pena non riabilitativa in quanto anti costituzionale, la moratoria dell’ergastolo ostativo (il fine pena mai).

Per il modo in cui l’artista ha reso visibile la questione della carcerazione  e oggi del controllo universale della persona, in un linguaggio apparentemente deludente apparentemente inefficace: low profile communication, come si direbbe in termini diplomatici, ci fa pensare ad un automatismo o tecnica di sopravvivenza, rispetto ad un contesto politico autoritario e dittatoriale in cui eventualmente operare: come le Carceri di invenzione di Giovanni Battista Piranesi, che si fece anche drammaturgo, nel 1765 con il Parere sull’architettura nel quale dialogano Protopiro e Didascalo, di una polemica contro l’adesione acritica e ideologica alle imposizioni illuministiche e razionaliste di un’architettura del controllo (23).

Delle sezioni in cui è organizzata la costruzione del libro sulla mostra Please come back!, Piranesi è documentato nella sezione “Dietro Le Mura”, insieme a tutti coloro che hanno come lui reso visibile, immaginato (perché invisibile), oppure progettato (dei panoptici per la sorveglianza a partire dal 1700 ad oggi), oppure denunciato, con le loro diagnosi , dipinto (chi la ha vissuta): dal Carcere Mamertino di Roma (VII secolo a:C.) a Jeremy Bentham, Willey Reveley, (nel ‘700), ai centri sempre panoptici degli anni ’20 del 1900 (Usa e Cuba), a Michel Foucault, Dave Eggers col suo libro Il cerchio, e gli artisti Elisabetta Benassi, Gianfranco Baruchello, Rossella Biscotti, Mohamed Borouissa (Algeria), Chen Chieh-Jen (Taiwan), Harun Farocki, il collettivo Claire Fontaine, Gülsün Karamustafa (Turchia), H.H. Lim(Malaysia), Berna Reale (Brasile), Shen Ruijun (Cina), Zhang Yue (Cina): Colpiscono quante altre opere di quanti artisti sul carcere sono documentate –tutte incentrate sulla gabbia (esser visti e non vedere): da Alfredo Jaar, a Michelangelo Pistoletto

11-12

Possiamo parlare talora di un low profile realism (di un realismo a basso profilo) o di un understatement, o di tracce e resti di situazioni non accettabili:  a meno che ciò avvenga in un processo di attivazione dell’immaginazione che può darsi –come ha scritto Claire Fontaine con l’opera d’arte: non una relazione qualsiasi, non un incontro qualsiasi, ma in quelle speciali condizioni con cui ci si presenta l’opera d’arte. Claire Fontaine, eteronimo che sta per un collettivo costituito da, fondato in Italia nel 2004, in un’intervista del 2012 al “Philosophical Journal of the Indipendent Left”, “Radical Philosophy”, dal titolo opportuno e chiaro “Giving Shape to Painful Things/Dare forma a cose dolorose” chiarisce proprio il maggiore elemento di interesse per l’artista, per l’uomo contemporaneo globalizzato e de-individualizzato, cioè il processo di soggettivizzazione  (subjectivation) nell’incontro con l’arte da parte del pubblico, contrapposto all’ossessione per l’oggetto/opera –da parte del collezionista (e capitalismo in generale) ossessionati invece dall’influenza del soggetto sull’oggetto: la mano dell’artista, il prodotto risultato di un processo attivo che si vuole sottrarre, possedendolo.

Non è neppure casuale che sia assunta a titolo della mostra l’opera di Claire Fontaine Please Come Back!: interpretata sia come sottrazione ad una condizione di reclusione e controllo, sia come invito al ripensamento di una lunga storia passata di azione critica dell’arte sull’economia e sulla organizzazione dello stato moderno.

Più il profilo è basso e più l’opera criptica, più stuzzicante è l’invisibile e lo stimolo allo svelamento.

Più vengono evocati e prodotti al nostro sguardo parziali immagini o frammenti (vivisezioni di luoghi), più si stimola alla ricerca della verità della condizione allusa. Stimolo a chi? Ma chi andrà a fare la sua ricerca e percorrere le “stazioni dolorose”? della nostra condizione attuale? Nessuno, dico nessuno, degli artisti (in mostra), dei teorici, dei filosofi di riferimento (antologizzati in catalogo) di Please come Back! (e riferimenti anche nostri) dà una risposta alla possibilità di tradurre le tracce di conoscenza o le testimonianze in azione, in società alternative.

Nell’ambito della mostra Please Come Back!  il MAXXI ha aperto, tuttavia, a un certo avvicinamento alla concretezza fisica e psicologica della condizione umana contemporanea, attraverso una serie di proiezioni di incontri. Un progetto educativo: “Oltre il muro” rivolto a una classe di una scuola secondaria insieme a ragazzi inseriti nei circuiti giudiziari minorili, Il workshop dell’artista Claudia Losi, in collaborazione con Francesca Dainotto e Vic-Volontari in carcere, un incontro con donne recluse a Rebibbia per una riflessione sul vivere da lontano la propria genitorialità; una giornata di studi curata da Luca Zevi su “Gli spazi della pena oltre il carcere come Istituzione totale”.

Forse la giornata più impegnativa, il 26 marzo 2017, una giornata di dibattito (terza tappa del progetto The Indipendent a cura di Giulia Ferracci, sulla identificazione e promozione di piattaforme indipendenti) “Terzo Tempo /Overtime”, organizzata dal gruppo transnazionale European Alternatives (presenti tra i suoi membri Ulrike Guerot e Niccolò Milanese). Al suo interno, la presentazione del progetto di “Terzo Spazio” di Jonas Staal incredibilmente visualizzato in strutture circolari non diverse dai progetti concentrazionari avveniristici settecenteschi esposti in “Please Come back!” (24). In diverse occasioni, ha informato Staal, come nel nel 2012 al New World Summit a Berlino e nel 2016 a Rojava; nel 2014 Beyond Allegories, nel parlamento di Ansterdam, con rappresentante dei rifugiati; New Unions a Krems nel 2012, ci siamo proposti con l’idea che “noi abbiamo il potere dell’immaginazione come nelle avanguardie” e che “non dobbiamo immaginare un nuovo potere ma uno spazio per un nuovo potere”. Abbiamo ascoltato alcune vivaci anche se brevi contestazioni. Sia da Maria Hlavajhova (direttrice del museo BAK di Utrecht), che ha affermato la necessità di interlocuzione con la istituzione politica per mutarla, agendo diversamente dal potere economico che tende a operare contro l’istituzione politica appunto, per esautorarla: “Jean Monnet pensava a una Repubblica Europea e non a un insieme di nazioni: passi fondamentali saranno l’equità fiscale e l’accesso ai diritti sociali”. Interrogativi di Marcelo Exposito (artista e vice-presidente del Parlamento spagnolo): come fare una arte politica che abbia effetti politici e si trasformi in atto politico? Come riprendere il controllo del territorio? Che risposta alla questione della citizenship?

Il più acuto e preciso è l’intervento della prestigiosa artista cubana Tania Bruguera che abbiamo visto all’opera alla Tate, nel 2009, alla grande mostra Tate Triennale sul tema “Alter/Modern” curata da Nicolas Bourriaud, nella quale nel grande Salone dell’ex Centrale Elettrica ora Tate faceva immettere in mezzo al pubblico le famose guardie a cavallo londinesi che sospingevano verso le mura con una fermezza piena di violenza il grande pubblico del museo: come a “sciogliere un assembramento pericoloso” per la società e non autorizzato: la consueta lucidità di quella artista all ricerca dalla metà degli anni ottanta dei fondamenti critici e attualizzabili del movimento moderno e all’opera in particolare a Cuba, contro il regime repressivo e di supercontrollo di Fidel Castro. (24)

Eccola chiedere a Staal: “Ma quale è il processo con cui arrivi al Terzo Spazio?”

“Occorre sostiene Bruguera- una mutua emancipazione, riflettere su tutto politicamente, non managerialmente!

E’ illegale il modo in cui trattiamo oggi i migranti: sarà il nostro disonore di domani!

L’arte a cui dobbiamo guardare è quella di Marcel Duchamp, un’arte che anticipa, piuttosto che un’arte di reazione (An art that anticipates than an art that reacts) Non un’arte site specific, ma un’arte time specific. Ci sarà un’arte per l’Europa se l’estetica sarà un’etica”.

Che fare, con tutto quello che sappiamo di noi?

13 – 14

Didascalie immagini

colonna a sinistra:

1 Claire Fontaine, Please Come Back (K Font), 2008,tubi fluorescenti bianchi, acciaio montato su una struttura di ponteggio, rilevatore di movimento. Foto insieme allestimento al MAXXI.

2 CHEN CHIEN-JEN, People Pushing, 2007-2008,Courtesy CHEN CHIEN-JEN Studio, still dal video

3 Renato Guttuso,  I funerali di Togliatti, 1972,(particolare, con Angela Davis), acrilici e collage di carte stampate su carta incollata su quattro pannelli di compensato, 340 x 440

nel testo:

1 H.H.Lim,, The cage the bench and the luggage, 2011, acciaio zincato e valigia di alluminio con lucchetti e catena / Galvanized steel and aluminium suitcase with padlocks and chain, 484 x 216 x 228 cm

2 Elisabetta Benassi, Bullet-Proof Angela  Davis, 2011,allestimento al MAXXI, foto S. Lux

3 Angela Davis mentre, protetta nella cabina a prova di proiettile, nel 1972, parla dei diritti civili in America. Still dal film The Black Power Mixtape 1967-1975,film documentario diretto dal regista svedese Göran Olsson, documenta le lotte per il diritti civili degli afroamericani.

4 Elisabetta Benassi, Bullet-Proof Angela  Davis vista dall’alto mentre si sale verso la Sala  5 del MAXXI, foto S.Lux.

5 – 6, Li Liaio, Consumption,2010, computer Mac e tuta da lavoro, esposti al  Museo di arte contemporanea di Beijing nella mostra On/Off . Tuta e Badge di lavoratore sono esposti a Roma al MAXXI, nel 2014, nella mostra Utopia for Sale? a cura di Hou Hanru.

7  Giovanni Battista Piranesi, Carceri d’Invenzione, (1745- 1750), tav. VII

8 Claude Nicolas Ledoux, La città ideale di Chaux, (1771-1793)

9 SUPERSTUDIO, Monumento Continuo, 1969-1971,”Un Lago di nuvole tra eterne montagne”, Disegno e fotomontaggio, cm 47×64,5.

10 SUPERSTUDIO, da Gli Atti Fondamentali (1970-1971): 5 fictions imaginées – Vie ; Education ; Cérémonie ; Amour et Mort ., collezion e FRAC-Orléans.

11 Rossella Biscotti, The prison of Santo Stefano, Cell, II, 2011, lamina di piombo, cm 220x 50’0, Fondazione Museion, Bolzano

12 Zhang Yue, Painting Project, 2011, 30 disegni, tecnica mista su carta, dimensioni variabili.Courtesy l’artista e Galleris Yang.

13-14 Shen Ruijun, Abuse (Thunder Series), 2009,inchiostro, tempera, acquerello su seta / Ink, tempera, watercolor on silk, cm 43 x 51, Courtesy l’artista / the artist e / and Gallery Yang. I quadri nell’allestimento al MAXXI.

15 Zhan Yue, The Empire Plan, 2013, computer e stampante 500 fogli (dimensioni variabili), courtesy l’artista e Galleria Yang

10 ZHANG YUE_THE EMIPIRE PLAN  2002