Per delineare un panorama dell’arte contemporanea nella Polonia post-comunista, si potrebbe cominciare dalla mostra Il corridoio delle due banalità, svoltasi nel 1994, a cura di Milada Slizinska, nel Centro d’Arte Contemporanea, situato nel settecentesco Castello Ujazdowski, a Varsavia. Nei corridoi del castello, una doppia fila di tavolini contrapposti ospitava i lavori di due artisti concettuali, Ilija Kabakov e Joseph Kosuth, il primo dell’Est e l’altro dell’Ovest, che attraverso i loro scritti-riflessioni si esprimevano sulle condizioni dell’essere in due diverse realtà. Li divideva una linea simbolica. Una “sottile linea rossa” concretizzatasi materialmente nel cinquantennio comunista con la cortina di ferro, ma che da sempre divide l’Est dall’Ovest e passa proprio per i territori polacchi, una volta lungo le rive della Vistola, un’altra lungo le rive del Bug o dell’Oder, includendo o escludendo Varsavia dalle carte geografico-politico-culturali dell’Occidente. Intento della curatrice non era solo di stimolare un confronto sulle differenze, ma anche quello di rivendicare alla capitale polacca il ruolo di importante crocevia culturale. Un crocevia, non più una semplice linea di demarcazione, emblematizzato per l’occasione dal fatto che Kosuth, americano di provenienza ungherese, arrivò a Varsavia dal Belgio, dove abitava a quel tempo, mentre il russo Kabakov, dalla sua abituale residenza newyorkese.
La collocazione dell’esperienza artistica polacca nello scenario internazionale dell’arte e delle mappe culturali è un vecchio problema. Da tempo nella tradizione intellettuale si affrontano due opposte correnti – una che sostiene un forte legame con la cultura e la filosofia occidentale, l’altra che invece si oppone all’“occidentalizzazione” dell’Est e vuole individuare, nella parte “più giovane” del continente, valori innovativi che si contrappongano a quelli di un Occidente ormai giunto alla decadenza. Gli “occidentalisti” trattano l’esperienza artistica polacca come parallela alle avanguardie storiche o discendente da esse. Non così gli “slavofili”, che peraltro, invece di guardare a un patrimonio culturale comune a tutti gli slavi, rivendicano un’identità culturale polacca, spesso con risultati veramente singolari, come nel caso dell’arte sacra. 
Sei anni sono pochi per considerare gli eventi con giusto distacco, ma proprio il 1994 fu per l’arte polacca un anno di svolta sotto vari aspetti. Si era consolidata una nuova generazione di artisti, come Katarzyna Kozyra e Joanna Rajkowska, che finalmente poteva esprimersi liberamente e misurarsi in tempo reale con il resto del mondo. Nasceva una body art estrema e un medialismo polacco che si affermava sullo scenario artistico denunciando per la prima volta i veri limiti della rinascita culturale del paese: il cattolicesimo e il messianismo. Ma ormai la Polonia poteva e doveva confrontarsi con tutto quanto era venuto dall’Ovest dopo la caduta del Muro. Oltre a Kosuth e Kabakov, fra i vari artisti stranieri presentati al Castello Ujazdowski in un lungo ciclo di personali, c’erano in particolare Andreas Serrano, Jenny Holzer e Barbara Kruger. E il Chris Piss di Serrano (un crocifisso annegato nell’urina) venne censurato dalla curia polacca e si fu costretti ad escluderlo dall’esposizione. I manifesti della Kruger, con una sagoma femminile e la scritta “Chiedi l’educazione sessuale. Difendi i diritti delle donne. Il tuo corpo è il territorio della battaglia”, apparsi sulle strade di Varsavia, furono strappati dai giovani militanti cattolici. La sua mostra si svolgeva in concomitanza con il dibattito parlamentare sulla legge antiabortista che avrebbe poi sancito l’illegalità dell’aborto. Infine i grandi pannelli elettronici della Holzer (primi in Polonia e precedenti al diluvio pubblicitario di coca cola e cellulari), piazzati in due punti importanti della capitale per far lampeggiare gli slogan: “Salvami dal mio desiderio oscuro”, “Fai crescere il bambino e la bambina nello stesso modo”, furono bollati dalla stampa cattolica come pesante indottrinamento omosessuale.

L’artista comunista. Tutti i problemi dell’arte contemporanea nella Polonia odierna nascono dal fatto che la sua cultura troppo a lungo è stata colonizzata dalla storia, dalla politica, dalla religione e dalle ideologie. Già nel romanticismo all’arte fu assegnato un ruolo particolare ed improprio: essere l’unico territorio possibile del dissenso politico e morale. L’artista fu riconosciuto bardo delle libertà universali e portatore delle verità assolute. L’unione fra arte e messianismo si è consolidata a causa delle vicende storiche che per quasi 150 anni hanno costretto i polacchi a battersi per l’indipendenza del proprio paese diviso dalle grandi potenze europee. Il vero artista polacco doveva abbracciare la sacra causa patriottica che lo esimeva dal misurarsi con l’arte straniera e gli riservava una posizione di prestigio e l’ammirazione acritica dell’intera nazione. (E’ interessante osservare come questo metodo di strumentalizzare l’arte e la cultura venne riciclato ed assimilato da tutti i regimi del XX secolo. Il nazifascismo si è servito dell’arte per i suoi scopi propagandistici e lo stesso ha fatto il comunismo, investendo generosamente nel realismo socialista rilevanti fondi statali.) 
Il messianismo dell’arte polacca si risvegliò agli inizi degli anni ‘60, quando ebbe finalmente termine l’ibernazione del realsocialismo. Gli artisti sono stati fra i primi a chiedere la libertà di espressione e di attività culturale. Si opponevano alla macchina repressiva che attraverso la censura e la burocrazia s’intrometteva nel loro lavoro e nella loro vita personale, auspicavano un libero mercato dell’arte con circuiti e finanziatori privati, e lamentavano a gran voce la dolorosa mancanza del benessere e del lusso “occidentali”, sogno di tutta la nazione. Il paradosso storico ha voluto che, proprio nello stesso periodo, l’arte ad Ovest dalla cortina di ferro cominciasse a contestare il capitalismo e la mercificazione della cultura. Metabolizzata la Pop Art, l’Occidente sperimentava nuovi stili e linguaggi, mentre in Polonia Andy Warhol veniva considerato un cartellonista ed artisti come Rauschenberg e Jasper Johns dei semplici grafici. Dopo la via obbligata del realismo socialista, si tornava a una pittura profondamente radicata nella tradizione. Regnava il figurativo, l’astratto e il costruttivismo, che fu la vera avanguardia storica polacca fra le due guerre. Per contro performance, happening ed azionismo non furono mai accettati dalla politica del regime, la quale li classificava come pure dimostrazioni politiche. La cortina di ferro di fatto produceva una costante mancanza di punti di riferimento, ma non era solo questa la causa del ritardo culturale in Polonia. In realtà l’ambiente artistico non era particolarmente interessato a quanto succedeva fuori, e questo scarso interesse storico e critico nasceva in gran parte dal peccato originale degli artisti ed intellettuali polacchi: il tradizionalismo conservatore. Ed anche dal fatto che il ruolo sociale dell’arte e i privilegi dell’artista, mai messi in discussione, erano pur sempre collegati all’estetica ufficiale, per la quale l’opera d’arte, spesso sul versante del sacro, non aveva bisogno di scavalcare un certo paradigma formale.
All’inizio degli anni ‘70, con il “socialismo reale” si verificò un rapido processo di assimilazione delle nuove avanguardie storiche occidentali. Il modello socioeconomico a quell’epoca era un ibrido davvero singolare: un consumismo senza mercato e senza consumo. Nei negozi erano entrati i prodotti stranieri, ma la gente non aveva i soldi per acquistarli. Nella politica culturale del regime si avvertì una volontà di “occidentalizzazione”, che poi si tradusse nell’apertura a correnti straniere già storicizzate e in una maggiore permissività nei confronti degli artisti polacchi, mentre l’arte fu esonerata dall’obbligo di servire e rappresentare ufficialmente lo stato comunista. Così nel lessico ordinario entrò a pieno titolo l’aggettivo “popartowski” per definire la vera creatività artistica, che peraltro con la Pop non aveva, né poteva avere niente a che fare. Il processo di assorbimento dei termini avveniva prima della relativa analisi. Vennero qualificati pop-artisti polacchi Wladyslaw Hasior, Alina Szapocznikowa, Andrzej Wròblewski, Tadeusz Kantor – i primi ad introdurre nell’arte l’oggetto riciclato. Ma invece del readymade post-duschampiano, si parlava di “sacralizzazione”, “desacralizzazione” e “consacrazione” dell’oggetto. L’happening fu connotato con le attività artistiche di Kantor e con la rinascita del teatro d’avanguardia, reso poi famoso da Grotowski. Ma mentre in Occidente le azioni si svolgevano per la strada, fra la gente e lontano dai circuiti commerciali, in Polonia l’happening entrava in teatri e musei diventando una celebrazione paraliturgica. D’altra parte la teatralizzazione delle nuove avanguardie era un fatto naturale in un paese in cui la letteratura e la poesia sono sempre state considerate preminenti e prioritarie rispetto alle arti visive. Perciò fu ben accolta l’arte concettuale. Del resto in Polonia mancava la tecnologia occidentale, ma la sfera teorica era molto avanzata.
Negli anni ‘70 matura anche il concetto di arte “non politicizzata”. Gli artisti occidentali prendevano posizioni politiche e quelli polacchi le distanze da tutto ciò che fosse ideologico, rivolgendosi unicamente ai valori “universali”. In quel periodo l’unica posizione non compromettente era tenersi lontano dall’unica politica possibile, il comunismo di regime. In Occidente la contestazione si sposava con la filosofia di sinistra, ma sulle rive della Vistola questa visione sarebbe stata ovviamente un controsenso.

La contestazione continua. Gli anni ‘80 in Polonia sono il periodo di attesa della grande liberazione, e questa attesa produce di nuovo un’arte impegnata. La generazione dei giovani artisti viene segnata dal colpo di stato di Jaruzelski (1980-81) e dalla rivoluzione di Solidarnosc. Nel periodo del governo militare tutti gli intellettuali si ritirano dalla vita pubblica per creare il circuito alternativo della cultura. Le mostre si svolgono nelle case private e nelle chiese. L’arte polacca ha deciso di raccontare il tramonto dell’utopia comunista attraverso il recupero del suo linguaggio tradizionale. Lo spazio della provocazione protetta lo garantiva soltanto la Chiesa, perché nelle istituzioni governative il regime poteva intervenire liberamente. Da questa simbiosi nasce un “neo-espressionismo religioso” carico di messaggi cristiani e di misticismo. Il prezzo della protezione era il compromesso. Il nuovo mecenate limitava il linguaggio troppo radicale e le tematiche non cattoliche, e i neo-espressionisti polacchi sono presto costretti a smorzare i loro colori nella retorica del martirio della nazione, miscelata al mito di Solidarnosc e all’angoscia esistenziale. La maggior parte di essi finisce per produrre kitsh da bancarella, mentre solo pochissimi, come Edward Dwurnik e Leszek Tarasewicz, riescono a creare un lavoro in grado di superare la prova del tempo. Le loro opere infatti sono state presto assorbite dal mercato internazionale.
Particolarmente interessante di quel periodo è l’affiorare delle azioni di gruppo. Erano compiute da artisti che si univano tra loro e, pur senza spogliarsi della propria identità, lavoravano alla stessa opera o a un’idea comune. Nascono i collettivi artistici: “Il Gruppo”, “Cerchio dei Clips”, “Lodz Kaliska”, “Alternativa Arancione”, “Luxus”. Le azioni che svolsero negli anni ‘80 possono delineare un certo situazionismo polacco. Specie gli artisti di “Luxus” e “Lodz Kaliska” operavano sul versante della vita privata, compiendo in modo anarchico atti di contestazione. I loro happening erano di solito una festa permanente che durava anche per settimane. Nel coprifuoco imposto dal regime, festeggiare parodiando l’assurdità della vita diventava l’unica opera d’arte possibile. Però ben presto questa contestazione continua finì per sconfinare in un nichilismo improduttivo che si limitava a celebrare “la libertà nella schiavitù”. In quello stesso periodo, peraltro, tanti artisti polacchi si sono dedicati al recupero della tradizione duschampiana e all’installazione, nonostante che spesso la scelta dei ready made ricadeva su banali stereotipi: il pane, la croce, la luce, il fuoco, l’acqua. Furono comunque esperienze formative per diversi giovani, oggi riconosciuti in ambito internazionale, come Miroslaw Balka, Marek Chlanda, Krzysztof Bednarski, Zofia Kulik, Zbigniew Libera.
La seconda metà degli anni ‘80 segnò la riscossa delle arti visive e delle grandi mostre generazionali. Il tramonto del comunismo si avvicinava fatalmente, la politica culturale dello stato non era rigida come una volta e lasciava spazio all’iniziativa dei curatori e dei primi finanziatori privati. Lo testimonia la retrospettiva L’Espressione degli anni ‘80, organizzata nel 1986 a Sopot, vicino Danzica, da Ryszard Ziarnkiewicz, poi diventato direttore della prima rivista teorico-critica polacca “Rivista d’Arte”. Gli spazi espositivi appartenevano alla catena di gallerie statali BWA (Ufficio delle Esposizioni Artistiche), e grazie allo sponsoring poterono partecipare alla mostra oltre 1500 opere. Un anno dopo si svolgeva la prima esposizione in uno spazio privato, intitolata “Che c’è?” (effettuata curiosamente con contributi statali), mentre nel Museo Nazionale, a Varsavia, si apriva una seconda grande retrospettiva “Il realismo radicale. L’astrazione concreta”. Per la prima volta nella cattedrale dell’arte polacca entrava una giovane avanguardia d’opposizione. Il 1988 fu l’anno de “L’Arsenale”, mostra visitata da oltre 100 000 persone (l’inaugurazione fu trasmessa da CNN in 120 paesi), un record mai registrato. 
Sempre il 1988 vide la nascita del Centro d’Arte Contemporanea nel Castello Ujazdowski, a Varsavia, pensato come “laboratorio pubblico” di sperimentazione e forum di discussione, con molte analogie con l’Istituto d’arte contemporanea di Londra. Unitamente a Zachenta (la fondazione degli “amanti dell’arte” creata all’inizio del secolo scorso) e al Museo d’Arte Contemporanea di Lodzo (uno dei più antichi d’Europa), il Centro era destinato a diventare il più importante polo di riferimento per le arti visive nell’Europa dell’Est, con un budget interamente a carico dello stato.

La realtà post-ideologica. Il tramonto del comunismo fu per l’arte polacca un’esperienza esaltante, ma alla caduta del Muro non seguirono i cambiamenti che la società artistica si aspettava. Nel periodo comunista la Polonia era il paese dove l’arte e la cultura venivano apprezzati più che altrove nel Blocco e gli artisti avevano le maggiori libertà di contatto con l’Occidente. Ed ecco che però, nella nuova realtà di libertà reale, la società ha smesso di colpo ad interessarsi all’arte. 
Finalmente liberi di consumare secondo ritmi capitalistici, i cittadini sono stati attratti da altri “musei contemporanei”, gli sterminati ipermercati stranieri che le multinazionali della grande distribuzione hanno moltiplicato in Polonia. Mutavano i bisogni della nazione, più sedotta dagli infiniti prodotti esteri del consumo di massa che dai discorsi elitari ed ermetici sull’arte nazionale, oltretutto ben lontana dal rinunciare alle sue abitudini messianiche. Sta di fatto che dopo i cambiamenti ai vertici del ministero della cultura e delle strutture statali, troppi post-comunisti non sono mai venuti fuori dalla sacrestia di una Chiesa che, oltre a un ruolo politico, rivendicava anche quello di guida culturale, e così, invece di guardare avanti, hanno preferito dare spazio ad artisti discriminati per motivi politici dal vecchio regime, anche se culturalmente poco significativi. Per contro nello stesso periodo si sono formati giovani critici che con non poche difficoltà hanno saputo riqualificare l’attività artistica con la sperimentazione di nuovi linguaggi ed iniziando a perlustrare territori fino ad allora marginali o proibiti: la sessualità, la religione, la diversità, la criminalità, il rapporto con la realtà postmoderna. La maggior parte di essi si è riunita attorno a Zacheta (diretta da Anda Rottenberg), al Castello Ujazdowski e alla “Rivista d’arte”. Il capitalismo s’era instaurato velocemente in un paese in cui il mercato dell’arte contemporanea era del tutto assente e la nuova classe media impreparata rispetto al collezionismo e a una moderna fruizione estetica. La prima galleria commerciale si aprì a Varsavia nel 1988, ma fallì dopo pochi anni. La grande catena delle gallerie statali BWA fu parzialmente privatizzata, ma i “galleristi” vi proponevano dell’artigianato locale che comunque non reggeva la concorrenza con il design di importazione. Invece si sono aperte molte gallerie antiquarie, frequentate dai nuovi ricchi che preferivano investire solo in opere del XIX e dell’inizio XX secolo, con tematiche rigorosamente legate alle burrascose vicende nazionali.

Dall’alto:
Robert Rumas, Gesty
Zbigniew Libera, LEGO, Obóz koncentracyjny, 1996
K.M. Bednarski, Ritratto totale di Karl Marx, 1978
Katarzyna Kozyra Piramida zwierzat, 1993, Centrum Sztuki Wspólczesnej w Warszawie
K.M. Bednarski, Marx Galaxy, 1985
K.M. Bednarski, La rivoluzione siamo noi(omaggio a Joseph Beuys), 1986 
K.M. Bednarski, makieta pomnika Spotkania z Federico Fellinim, 1994
Edward Dwurnik, Katyn, z cyklu Droga na Wschód, 1989 
RafalBujanowski
K.M. Bednarski, Moby Dick, 1987