Negli anni Ottanta era molto difficile ricevere informazioni e vedere arte dissidente proveniente dalla galassia sovietica. Se ne conosceva la radicalità per via dell’aura costituita da racconti e report mai abbastanza dettagliati. In una rara occasione presso la Sala 1 di Roma alla fine di quel decennio si presentò una mostra dal titolo Mosca: Terza Roma (1989). La galleria che ancora inglobava anche la sala grande, poi diventata un piccolo teatro, proponeva un allestimento realizzato appositamente da quegli artisti che vi partecipavano. Era, agli occhi di un giovane abituato alle sofisticazioni glaciali di quel periodo, una sarabanda di rumori e di cose, molte di queste di evidente provenienza da discarica cittadina. C’erano oggetti che sembravano gettati alla rinfusa, giornali, stoffe. C’era una radio accesa che insieme ad altri oggetti facilmente asportabili fu trafugata da qualcuno con l’incredulo disappunto di Mary Angela Schroth, direttrice dello spazio espositivo. In quell’occasione vidi per la prima volta dal vero un lavoro di Dimitrij Prigov e non era un lavoro che poteva dimenticarsi facilmente. L’artista aveva coperto una parte della sala con dei fogli del quotidiano Pravda e aveva dipinto sopra delle scritte, “glasnost, perestrojka”, realizzate con una pittura nera. Anche se dall’aspetto provvisorio e in qualche misura clandestino, quell’opera incideva lo spazio e la visuale dell’osservatore. Fu quella una delle più importanti mostre del decennio a Roma, per la sua virginea irruenza, la sua necessaria violenza, la sua comunicazione poetica. Da quel giorno non ho più dimenticato il nome di Prigov e ne ho seguito a distanza il lavoro. Era per me l’inesorabile maestro dell’arte contemporaena sovietica, più rilevante, per via della multidisciplinarietà, del suo amico Kabakov e tutti gli altri fautori dell’avanguardia moscovita.
Nel 2004 mentre curavo l’allestimento di una mostra di documenti d’arte presso le sale del MLAC della Sapienza si presenta un uomo dall’età indefinibile. Mi dice che Simonetta Lux gli ha detto di rivolgersi a me e di chiamarsi Dimitrij Prigov. Occupato com’ero dalle occupazioni pratiche ci misi un paio di minuti per realizzare che quell’uomo dall’aspetto modesto, leggermente barcollante sui suoi passi, fosse realmente Prigov, l’artista di cui sapevo per via della sua fama nel mondo underground e nell’avanguardia internazionale. Si era scusato della sua visita imprevista, ma, mi disse, voleva realizzare un progetto per l’università di Roma, un luogo che lo ispirava per via della sua storia e per altri motivi, aggiunse.
Nella mia esperienza di curatore e di storico critico d’arte ho incontrato decine di artisti ma nessuno che godesse di una così alta fama mi ha mai presentato la sua opera con la stessa affabile fiducia, con la stessa perplessa curiosità di sapere cosa ne pensassi e se potesse andare bene. Mi sforzai davvero per fargli capire che qualsiasi cosa avesse proposto a me andava bene e che lo conoscevo, stimandone la storia personale, da almeno due decenni, appunto da Mosca: Terza Roma. Prigov che sedeva di fronte a me con un fascio di disegni ancora stretti sotto l’avambraccio si stupì notevolmente che io ricordassi la sua opera di fogli di giornale e mentre gliela descrivevo mi fece vedere un suo bozzetto, disegnato con una bic nera su un foglio di cartoncino A4, che riproduceva qualcosa di simile.
Quando poi mi fece vedere il progetto che aveva voglia di realizzare per il MLAC fissammo subito una data e con un successivo scambio di mail da Londra, dove risiedeva, chiarimmo subito l’impostazione del lavoro. Oltre al problema dei soldi, che è comunque un problema irrisolvibile e perenne, avevamo capito che ce n’era un altro leggermente più banale: la mostra doveva essere allestita nei giorni di festività del museo, quindi senza alcuna assistenza da parte di personale, custodia, assistenti tecnici. Prigov sarebbe arrivato dalla Germania, dove stava realizzando un altro progetto, un venerdì sera. La mostra sarebbe stata montata il sabato e la domenica, sarebbe stata rifinita il lunedì e inaugurata il martedì. Mi aveva chiesto due barattoli di colore ad acqua nero, un telo nero e un centinaio di puntine da disegno. Insieme abbiamo montato quel lavoro che aveva ideato, lui aveva voluto comperare una tuta di carta bianca per dipingere e di quei due giorni conservo presso l’archivio del MLAc alcune foto davvero particolari.
Il giorno dell’inaugurazione mi scusai con lui perché la mostra era stata visitata da pochissime persone, ma lui mi rispose che non gli importava, e che sapeva per esperienza che non c’era sperimentazione nella mondanità e che una mostra con pochi visitatori è una mostra d’avanguardia oppure una mostra da dilettanti. Aveva quantomeno la tranquilla certezza di un non essere un dilettante, e mi disse anche, mostrandosi in tutta la sua sorridente disinvoltura, che l’essere considerato un maestro della letteratura russa contemporanea lo poneva al riparo da eventuali depressioni. Mi fece vedere le sue poesie assicurandomi di scriverle anche per tenersi in esercizio e che ogni giorno sentiva il bisogno di scriverne almeno una. Una al giorno è una mia abitudine, mi disse. C’eravamo seduti ad un tavolo di una trattoria familiare a San Lorenzo e Dimitrij Prigov durante tutto il tempo rimase assorto nei sapori, come di uno che quando svolge un’attività deve concentrarsi totalmente. Quando risaliva in una pausa dalla contemplazione del cibo chiedeva degli studenti che frequentano l’università. Era curioso di sapere se avrebbero visitato la mostra e gli assicurai che molti sarebbero passati nei giorni successivi. Era per lui un lavoro complesso. Voleva dialogare con le culture universitarie europee, ma Roma lo interessava particolarmente. Mi disse che aveva in mente anche altri progetti in altre università facendomi intendere che quella fosse per lui una priorità esistenziale. Amava gli spazi universitari, mi disse, perché erano gli unici spazi del libero pensiero, non quello dei docenti intruppati, ma quello degli studenti, istintivi, veloci nei giudizi, spassionati e feroci. Ma anche generosi, duttili. Quella della formazione attraverso l’azione dell’arte era per Prigov una sorta di missione, come se attraverso questa performance continuativa potesse epurare i fantasmi della sua vita, che rendeva palese nei suoi contatti amichevoli, durante i primi colloqui. Quando mi disse che era stato a lungo rinchiuso dal regime sovietico in una struttura per malati di mente, e che questa era la prassi per la rieducazione di individui devianti, lo fece scrutando la mia reazione. Credo fosse per Prigov il modo per esaminare a fondo un interlocutore. La mia reazione di tranquilla solidarietà lo aveva reso sorridente. Mi spiegò nel suo inglese stentoreo e di poche parole cosa fosse la dittatura del pensiero unico e di come lui e pochi altri l’avessero combattuta agendo prima nel buio dell’underground e poi platealmente. Adesso, mi diceva, alcuni sono morti, e molti vivono come me principalmente all’estero. Poco è cambiato, solo la forma esterna. Non aveva rivendicazioni, ma constatava di come, sostanzialmente, le dinamiche di controllo fossero comuni in qualsiasi sistema politico della contemporaneità e a cui l’individuo non poteva far altro che opporre una azione critica, un modo d’agire che fosse tutt’uno con la consapevolezza. Parlando avevamo scoperto di avere dei riferimenti comuni nella Scuola di Francoforte, in particolare Marcuse e Adorno.Il suo disappunto era nei confronti del design d’artista, ovvero quel modo di definirsi del lavoro di un artista all’interno del mercato, ripetitivo e stilistico. La sua visione del mondo dell’arte era distaccata, perché mi spiegò, poteva vivere dignitosamente grazie alle sue attività e ai suoi diritti letterari. I suoi romanzi sperimentali sono stati tradotti in molte lingue e la critica concorda nel definirli grandi momenti della letteratura contemporanea. Lui attraversava il mondo del sapere letterario indifferente quasi a tutto il corollario di combenevoli e di accademismi. La sua era una vita interamente dedicata all’arte e alla letteratura. Ma Prigov era nato performer d’avanguardia e lo è stato sino in fondo.
Il 17 luglio del 2007, mentre lavorava con entusiasmo ad una sua nuova performance presso l’Università di Mosca, Dimitrij Prigov, l’uomo appassionato del mondo, l’artista cosmopolita si è spento. Il suo cuore, ancora giovane, non ha retto la tensione di una vita stressata dalla perenne transitorietà, appesantito dal dolore della verità sulla condizione umana. Quando ho saputo di aver perduto questo grande amico solidale l’ho rivisto col pensiero il giorno di un nostro casuale incontro, qualche giorno dopo esserci conosciuti. Attraversavo Campo dè Fiori, era autunno inoltrato, l’aria era fresca e ventosa, la piazza illuminata dai suoi fiochi fari giallognoli. Entrato nella Piazza da via dei Giubbonari ho incontrato il profilo di un uomo a pochi metri dalla nera statua di Giordano Bruno a cui dava le spalle. Fissava immobile la sagoma dei tetti nella mia direzione. Mi vide non appena lo riconobbi. In un primo istante mi era sembrato di rivedere la figura di Gregory Corso, nella sua immobilità estasiata in uno dei suoi rari momenti di sobrietà, poi Prigov m’aveva salutato annuendo pensieroso. Lo invitai a bere qualcosa insieme, ma lui mi fece un cenno con la mano, più tardi, disse, adesso voglio cogliere l’atmosfera di questa città. E rimase lì immobile e squattrinato, con la sua giacca che lo faceva più simile ad un barbone che ad un protagonista della cultura internazionale contemporanea. Mi sono chiesto a lungo inoltrandomi per i vicoli del centro che diavolo di mondo fosse il nostro, in cui un individuo geniale come Prigov fosse esautorato quasi dalla vita, emarginato e cancellato, magari in attesa d’essere consacrato per sempre nell’olimpo dell’arte quando la sua morte avesse permesso di specularci sopra.

Dall’alto:

Dimitrij Prigov mentre realizza la sua installazione al MLAC, 2006. (Foto Domenico Scudero)

Dimitrij Prigov e Domenico Scudero in una fase dell’allestimento al MLAC, 2006. (Foto DanRec)

Dimitrij Prigov, On the Boundary of the Black, veduta delle due sale espositive, MLAC, 2006. (Foto Domenico Scudero)

Dimitrij Prigov, Angolo rosso, tecnica mista sul giornale pravda, installazione alla Sala 1, 1989. (foto Massimiliano Ruta)