Piero Manzoni.
A cura di Germano Celant
Napoli, MADRE (Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina)
20 maggio-24 settembre 2007.
www.museomadre.it

Una mostra antologica racconta la breve, seppur intensa, carriera artistica di Piero Manzoni. Sette anni di fervido lavoro, dal 1956 al 1963, rivivono nelle sale espositive del terzo piano del museo napoletano, accompagnati da pannelli che richiamano l’attenzione sugli avvenimenti politici, economici e culturali dello stesso periodo.

L’intento, come sottolinea il curatore Germano Celant, è quello di contestualizzare l’attività dell’artista lombardo; anno per anno, viene dunque mostrata la serie di eventi che ha caratterizzato circa un decennio di grande fermento politico e culturale, aprendo la strada a molti degli avvenimenti successivi. Nell’intero corpus di lavori di Piero Manzoni si riscontrano così le esperienze dell’Informale, della ricerca materica e segnica, ma anche componenenti proto-concettuali, nonchè l’idea di arte come evento, che annuncia le sperimentazioni Fluxus di qualche anno più tarde.

L’ingresso alla mostra avviene sotto l’insegna di una celebre frase manzoniana del 1960: “Non c’è niente da dire, c’è solo da essere, c’è solo da vivere”. Lungo la parete alla destra dello spettatore comincia il racconto storico, che procede di pari passo con il percorso creativo dell’artista. Punto di partenza sono gli anni 1956 e 1957: all’interno del dibattito milanese tra Spazialisti e Nucleari, a loro volta contrapposti alla ricerca astratta del gruppo MAC, Manzoni elabora un proprio linguaggio iconografico incentrato su ominidi ed impronte, che risente in modo evidente dell’indagine segnica di Giuseppe Capogrossi. Degli stessi anni però, sono anche le prime manipolazioni della materia “bruta”: olio e catrame creano indisciplinate ed amorfe aggregazioni di masse sulla tela, dove la materia è lasciata libera di agire. Opere di Enrico Baj, Jean Fautrier e Alberto Burri vengono messe in relazione al percorso manzoniano, lavori da cui però lo stesso Manzoni si allontana nel momento dell’approdo agli Achrome, titolo che accompagnerà diverse serie di lavori caratterizzate da materiali sempre differenti. Nella scelta dell’alfa privativo si legge la volontà dell’artista di procedere in modo differente rispetto ai monocromi di Yves Klein, così come si avverte l’intenzione di dare all’opera un’impronta meno soggettiva, più impersonale. La casualità con cui il caolino si rapprende prima sulle tele a riquadri, poi su quelle grinzate, assume una dimensione completamente diversa rispetto ai tagli premeditati di Lucio Fontana o al dripping di Jackson Pollock. L’espressività del gesto automatico dell’Action Painting viene negata dalla libertà assoluta concessa alla materia, il cui comportamento irrazionale si differenzia dall’automatismo della psiche.

Si succedono così intere sale di Achrome, mentre apprendiamo dal filone informativo che nel 1959 chiude la rivista “Il Gesto”, il cui secondo numero era stato legato al Bollettino d’informazione del Bauhaus Immaginista, e nasce “Azimuth”, fondata da Manzoni ed Enrico Castellani, quest’ultimo presente in mostra con una Superficie bianca dello stesso anno.

Alle opere fanno eco inviti e scritti in catalogo delle prime esposizioni dell’artista, custodite in teche di vetro e accompagnate da foto che ritraggono Manzoni al lavoro. Tra queste, gli scatti di Ugo Mulas, attento documentatore della scena artistica milanese alla fine degli anni ’50, le cui Tavole di verifica –indagine metalinguistica condotta sulla fotografia- sono in stretta relazione con le Tavole di accertamento manzoniane.

Fulcro dell’esposizione sono le sale dedicate al 1960, che vedono succedersi le Linee, tracciate ed inscatolate, i palloncini con il Fiato d’artista, le Uova scultura e le scatolette contenenti la Merda d’artista. È in questi lavori che emerge la componente più duchampiana e dissacratoria dell’esperienza manzoniana; prendendosi gioco del sistema dell’arte, l’artista agisce all’interno di esso, sfruttandone i meccanismi e facendo di firma ed impronte digitali garanzia di autenticità. Torna alla memoria l’ampolla contenente l’aria di Parigi e la firma Richard Mutt posta su un volgare orinatoio. Nella lunghezza non verificabile delle linee manzoniane ricorrono gli Stoppages étalon, a cui è abbinato un tipo di pittura industriale –documentata in mostra- che avvicina queste opere ai lavori “situazionisti” di Pinot Gallizio.
Ma Manzoni va oltre, affermando l’elemento della corporalità come componente dominante e dando l’avvio alle possibilità performative del fare artistico, così come parallelamente succede negli Usa grazie agli Happenings di Allan Kaprow. Il coinvolgimento dello spettatore diviene anch’esso un presupposto fondamentale; invitato a divorare l’arte nella performance in cui l’artista offre uova sode firmate con l’impronta del pollice, si trasforma poi in scultura vivente grazie alla Base Magica, struttura minimalista sulla quale il pubblico è invitato a sostare.
Resta la questione della musealizzazione di queste opere; le performance rivivono sotto forma di documentazione fotografica, accompagnata dagli oggetti che assumono una dimensione di “feticcio”, come i palloncini sgonfi o le uova marcite. Lavori che nascevano da un intento critico, legati ad un’essenza effimera, trovano posto nelle stesse strutture messe sotto accusa. Inesorabile fallimento o inevitabile consacrazione?

Gli ultimi anni sono caratterizzati da serie di Achrome molto diverse tra loro: cotone idrofilo, polistirolo espanso, cloruro di cobalto, fibra artificiale, peluche, pagnotte ricoperte di caolino sono solo alcuni degli elementi che si succedono fino alla fine del percorso espositivo.
La tridimensionalità di alcune soluzioni, come l’aggregazione di sassolini, e soprattutto la ricerca su ingranaggi meccanici, quale il Progetto Placentarium, introducono anche alle sperimentazioni optical e cinetiche, che vedono la formazione negli stessi anni di vari gruppi artistici, tra cui il Gruppo T (in mostra è presente una Superficie in Variazione di Gianni Colombo). Nel 1962 vede la luce Opera Aperta di Umberto Eco, raccolta di saggi che insiste sulla pluralità di significati conviventi nelle opere contemporanee e che diviene manifesto delle esperienze artistiche degli anni ’60. Un anno dopo, il primo Festival Fluxus a Düsseldorf precede di pochi giorni la morte di Manzoni, avvenuta improvvisamente il 6 febbraio del 1963.
Chiude l’esposizione la Base del Mondo, parallelepipedo minimalista capovolto che si presta a sostenere l’intero pianeta, facendo di ogni cosa esistente un’opera d’arte. Il confine tra arte e vita appare così definitivamente compromesso, memore ancora una volta della lezione duchampiana.

All’inchiesta condotta da Fabio Mauri ed Achille Perilli nel 1961 sulla presunta morte della pittura, Manzoni era intervenuto parlando della necessità di una trasformazione, entro la quale l’artista utilizzasse solo “pensieri e materiali della sua epoca”. È in questa chiave assolutamente sperimentale che deve leggersi l’intero percorso dell’artista, tra legame con la prima avanguardia ed innovazione, provocazione e approvazione, critica al mercato e manipolazione di esso. Un percorso fondamentale per le successive esperienze europee e americane, che ancora oggi continua ad avere influenza sulle ultime generazioni.

 

Dall’alto:

Piero Manzoni, Achrome, 1958-59
Caolino e tela a riquadri cm 76×97
Collezione Privata, Italia
Courtesy Archivio Opera Piero Manzoni

Piero Manzoni, Linee, dic. 1959
Linea Infinita
Linea m 5,63 20,6×5,8 cm
Linea m 11,65 21,9×5,8 cm
Collezione Privata, Italia
Courtesy Archivio Opera Piero Manzoni

Piero Manzoni, Merda d’artista, mag 1961
Scatoletta di latta e carta stampata cm 4,8x ø 6
Courtesy Archivio Opera Piero Manzoni

Piero Manzoni, Achrome, 1961-62
Pallini di ovatta cm 20×25
Collezione Privata, Francia
Courtesy Archivio Opera Piero Manzoni