Da Vita futurista (1916) a Ballet mécanique (1923) di Fernand Léger; dai film provocatori dei Dadaisti e dei Surrealisti ai lavori Pop di Andy Warhol, il cinema ha da sempre affascinato i pittori, sedotti dal desiderio di cimentarsi con l’arte del secolo moderno, e da loro adottato non solo come strumento di registrazione ma anche come mezzo di indagine temporale e di realizzazione dell’’immagine. Ma cosa deve il cinema ai pittori?
Le prime teorie sul cinema come arte nuova risalgono agli inizi del Novecento, esse mirano ad un tipo di ricerca che conferma la differenziazione del nuovo mezzo tecnico espressivo dalle arti tradizionali. Il problema di tradurre la composizione pittorica in termini cinematografici, è stato affrontato per prima dai pittori delle Avanguardie (Hans Richter, Viking Eggeling, Luis Buñuel, Salvador Dalì) e proseguito dai migliori registi americani degli anni Quaranta/Cinquanta (Maya Deren, Kenneth Anger, Stan Brakhage) che si collocano con i loro film in una posizione antagonista rispetto al cinema commerciale; fino all’affermarsi del cinema underground di Andy Warhol, autore di film che conoscono uno straordinario successo di critica e di pubblico.
Durante gli anni Sessanta gli artisti sentono il bisogno di avvicinarsi alla cultura dei mass media sconfinando tra pittura e cinema. Nasce così il cinema d’artista, diverso nella forma e nei contenuti, pronto a trasgredire ogni regola nell’universo della mercificata società di massa, poiché non cerca ad ogni costo i consensi del grande pubblico.
Mentre alcuni film-maker usano pellicole 35mm e si avvalgono di una vera troupe (è il caso di Mario Schifano e di Romano Scavolini), molti di loro, invece, adottano semiprofessionalmente la pellicola in 16mm; altri ancora si avvicinano al cinema a livello amatoriale, usando l’8mm e il super8. L’uso di pellicole a passo ridotto e di pellicole scadute, ha fatto si che la maggior parte dei lavori cinematografici fosse poco conosciuta per l’oggettiva difficoltà di reperimento delle copie, prematuramente danneggiate se non addirittura perse. Il cinema d’artista nasce quindi al di fuori dei normali circuiti produttivi e distributivi, senza un programma comune e una cultura di riferimento alle spalle. Ciononostante il rimando più immediato va, oltre alle Avanguardie dei primi del Novecento, al New American Cinema. La rassegna del N.A.C., presentata da Jonas Mekas a Torino nel 1967, produsse quasi immediatamente in Italia la nascita della Cooperativa del Cinema Indipendente. Incoraggiati dai bassi costi di autoproduzione, i film-maker nostrani, consapevoli della mancanza di un mercato reale, si uniscono con lo scopo di creare nuovo canali per la distribuzione, tentando di istituzionalizzare un lavoro altrimenti disperso. Malgrado non vi siano affinità linguistiche, questi giovani artisti sono accomunati dal senso di sperimentalismo che permea totalmente il loro operato cinematografico. Vi è inoltre in tutto il cinema d’artista un aspetto militante in sintonia agli avvenimenti del ’68: servirsi della macchina da presa per la registrazione immediata dei fatti e la circolazione di un’informazione altra rispetto a quella trasmessa dal potere politico. La Cooperativa del Cinema Indipendente, destinata ad esaurirsi dopo appena quattro anni, viene fondata a Napoli nel 1967, successivamente con sedi a Roma e Torino. Nella prima edizione del catalogo della C.C.I. compaiono i lavori cinematografici di Angeli, Bacigalupo, Baruchello, Bignardi, Capanna, De Bernardi, De Rinaldo, Dogliani, Elia, Epremian, Ferrero, Grifi, Leonardi, Loffredo, Mantelli, Menzio, Oriani, Patella, Serna, Siniscalchi, Turi e i fratelli Vergine. L’’anno seguente si aggiungono i nomi di Bargellini e Festa. Si occupano del movimento indipendente le riviste romane «Cinema e Film» (trimestrale fondato e diretto da Adriano Aprà nel 1967) e «Filmcritica». La prima manifestazione della Cooperativa ha luogo al Filmstudio70 nel 1968, dove si susseguono una lunga serie di rassegne sull’underground; l’anno dopo il cineclub romano proietta il film collettivo della durata di 25 minuti Tutto, tutto nello stesso istante (1968) realizzato da Bacigalupo, Bargellini, Baruchello, Chessa, De Bernardi, Epremian, Leonardi, Lombardi, Meader, Mencio, Turi e Vrergine. Ispirato al clima politico che aleggiava in quel periodo, il film doveva essere un di banco di prova di quella sintonia e compartecipazione che si era creata fra gli appartenenti della Cooperativa.
Alla C.C.I. aderiscono artisti quali Luca Maria Patella, Gianfranco Baruchello, Nato Frascà e Ugo Nespolo che già da qualche anno si servono della macchina da presa per le loro indagini sull’immagine in movimento, a scapito del tempo narrativo. Lo scopo della loro adesione alla Cooperativa è quello di occupare un nuovo circuito, diverso dalla galleria.
La verifica incerta (1964/65) di Gianfranco Baruchello e Alberto Grifi è da molti considerato il manifesto del cinema underground italiano. Il nucleo del film è costituito da una serie di immagini di Marcel Duchamp girate nel 1963 da Baruchello. Nel resto del film, della durata complessiva di trenta minuti, i due registi tentano di distruggere con divertita ironia la sintassi cinematografica hollywoodiana, sezionando circa centocinquantamila metri di pellicola americana degli anni Cinquanta/Sessanta destinata al macero, ricostruendo storie ad incastro.
Non tutti gli artisti, interessati a proseguire sulla pellicola ricerche e sperimentazioni iniziate sulla tela, aderiscono alla Cooperativa. Mario Schifano, ad esempio, è uno dei più interessanti registi del cinema italiano d’avanguardia mai entrato a far parte della C.C.I. Egli sperimenta il mezzo cinematografico fin dal 1964, raggiungendo la massima soddisfazione con la realizzazione della Trilogia comprendente Satellite, Umano non umano e Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani (1968/69). Nei suoi film sono spesso ripresi amici, fatti e personaggi della vita quotidiana in un gioco di sovrapposizioni e dissolvenze incrociate.
Anche Romano Scavolini non aderendo alla C.C.I. rimane un autore isolato. I suoi film, pur basandosi su un’accurata qualità dell’immagine, sono da considerare sperimentali a tutti gli effetti per la mancanza di una storia e l’assenza del dialogo. Scavolini è uno degli autori ad aver sofferto maggiormente della censura poiché, a differenza degli altri film-maker che mostrano i loro film all’interno di un circuito limitato, egli cerca di muoversi nel normale circuito distributivo, così come fanno Carmelo Bene e Franco Brocani.
La fine della C.C.I. coincide fatalmente con il passaggio, sempre più frequente da parte dei film maker, dalla macchina da presa al videotape. Nel 1972 Massimo Sarchielli e Alberto Grifi cominciano le riprese di Anna che può essere considerato come l’ultima esperienza del cinema underground. Sono 11 ore di filmato, poi ridotte a 3 ore e 45 minuti, in cui viene ripresa una sedicenne hippy incinta e drogata che gira randagia per Piazza Navona. Il video, trasferito su pellicola mediante un apparecchio costruito dallo stesso Grifi, è stato presentato nel 1975 alla Biennale di Venezia.