Roberto Perciballi (Roma 1964) “pank”, grafico pubblicitario, ragioniere, portiere, falegname, restauratore, calciatore, autista, barista, cassiere, pittore, tecnico delle pulizie, allestitore di mostre, musicista, elabora immagini con il computer, poeta e scrittore. Vive, ed è sfruttato a Roma.
Roberto Perciballi: Sono perfettamente cosciente che non cambia niente, difatti tengo ancora in vita i B-Riot come vent’anni fa! …e presto faremo un nuovo cd, finalmente. Non sembro cambiato no? Anche quello che subiamo quotidianamente però, non è cambiato per niente e questo mi preoccupa. Comunque io sono e suono (canzone dei Klaxon)… ancora e mi diverto più di prima; in più, di prima, uso altri mezzi, altre possibilità per esprimere dissenso. Riassumendo brevemente: non posso fare altro. Sono schiavo del lavoro da sempre, da quando ero pank e ancora oggi, ogni giorno, mentre pulisco, mentre lavoro, penso sempre alla stessa cosa: quello che mi piacerebbe fare a me durante il giorno invece di stare li a respirare polvere. Così, per scaricare la coscienza (arte) e la rabbia (musica) dall’ennesima giornata persa dietro alle necessità, ho iniziato a dipingere quadri, scattare fotografie, produrre azioni di arte pratica. La coscienza mi si è allargata, è cresciuta grazie ai mezzi di comunicazione. E grazie alle mie ridottissime finanze faccio questa specie di controinformazione. Un tempo si poteva dire resistenza solitaria, oggi direi sopravvivenza documentale.
V.G.: Dici che nulla è cambiato? Nel 1970 la “libertà in cattedra” titolava un supplemento dell’Espresso – una foto in copertina ti ritraeva bambino in atto di tirare dei libri scolastici in aria – ; lo stesso titolo è diventato poi un personalissimo spunto critico per esporre un tuo percorso installativo al Museo Laboratorio di Arte Contemporanea presso l’Università “La Sapienza” di Roma, a cura di Simonetta Lux e Domenico Scudero, lo scorso autunno 2003. Esiste questa “libertà” in cattedra?
R.P.: Quel bambino che nel 1970 è fotografato mentre tira dei libri in aria è stato, ironicamente, il mio incontro con la cultura. Avevo solo sei anni e ricordo ancora benissimo che il dopo-fotografia aveva fatto piangere non pochi bambini dato che i libri, una volta lanciati, ricadevano istantaneamente sulle piccole teste dei malcapitati infanti con relative urla di madri isteriche.
Lo spunto è stato questo; dopo 33 anni quasi precisi (la copertina è del 27 settembre 1970, la mostra inaugurava il 25 settembre 2003) posso dire che quel botto, quel rumore di libri dolorosi sul mio viso è stato il mio, personalissimo, incontro con la cultura e se così è stato quello che mi meraviglia ancora oggi è che i dolori non sono mai finiti, ma si sono inesorabilmente moltiplicati.
La Libertà in cattedra è un titolo molto bello, mi piace tanto perchè riassume in due parole tutta la visione che ho sull’arte, che ho della vita, il mio motivo principale.
Nella mostra è stato come far vedere al re della pulizia e dell’igiene, nel suo più intimo castello lucido e cromato, che il suo modo di essere oggi non è reale, non è al passo con i tempi, come quasi non esistesse perchè si sporca tutto, ineluttabilmente.
La cultura insegnando pulisce mentre l’amara realtà sporca. Un semplice sguardo in questa piega bianca e nera dove lo spettatore, anche non volendo, modifica il lavoro tramite lo sporco dei suoi piedi su quella moquette di candido pelouche bianco.
Questo é quello che ho fatto all’università oltre alle tredici grandi fotografie bianche e nero appese sulle pareti che Claudio e Riccardo Abate (una a colori) mi hanno scattato durante una mia reale giornata di lavoro.
Esiste la libertà in cattedra? Ancora no, purtroppo, ed è la ragione per cui ancora butto soldi; in fondo è una questione di passione… invece di spendere in calcio, moto, auto, e vestiti, butto soldi in contrapposizione, come tra l’altro fanno tutti gli artisti che da sempre investono nella loro follia e sulla loro pelle…
V.G.: Il pavimento della sala espositiva totalmente ricoperto di peluche bianco, come dicevi, veniva sporcato dal passaggio degli astanti; lo spettatore entra fisicamente all’interno dell’installazione e, contaminando il candore della moquette, traccia l’orma visibile del suo passaggio. Notavo come lo stesso percorso fosse stato impostato su una serie di evidenti (e meno evidenti) contrapposizioni: bianco(della moquette)/nero(del passaggio); pulito/sporco; libertà/cattedra; autore/spettatore; lavoro manuale/lavoro intellettuale, etc…
Esporre un percorso installativo presso un luogo “non casuale” – il Museo Laboratorio di Arte Contemporanea (MLAC) si trova al centro esatto della Città Universitaria, con tanto di sede nell’edificio del Rettorato(!) – è anch’essa una scelta paradossale, che gioca un ruolo preciso e perfettamente in linea con la necessità di esporre un segno forte nel cuore dell’istituzione (universitaria)? Oppure quel luogo è stato scelto perché rappresenta una sorta di “compromesso” tra istituzione e libertà? Seppure “in cattedra”? R.P.: L’insegnamento dell’arte è sempre stato difficile e mai lo è stato come oggi. La tecnologia ha dato agli artisti mezzi e modalità incredibili rispetto anche solo a cinquant’anni fa rendendo la spiegazione spesso in ritardo se non completamente assente, quindi l’insegnamento pulisce, arricchisce, ma con i suoi tempi e modi e rispetto alla realtà, alla contemporaneità.
Sporca o non insegna a tempo, direi, forse gli manca la musica, il ritmo… così, al pubblico che ha visitato la mostra ho detto che senza di lui, senza i nostri problemi quotidiani, il mio lavoro non esisterebbe. Al tempo stesso sussurro a quel mondo culturale che, per esempio, ha fatto rimuovere lo striscione-opera di Mauro Folci “Disobbedienza Cadaverica” appeso sulle mura in piazza della Minerva… oppure al rimestio codardo provocato dal lavoro di Sukran Moral… per un paio di gambe aperte… sussurro appunto, che già solo queste reazioni giustificano la mia mostra, la mia rabbia. Rabbia, energia, più pulita possibile; come vogliono loro certo, ma con sopra sempre quello che dico io.
La Libertà in cattedra viene reclamata! E gli viene posta una semplice domanda: perchè quel suo modo di elaborare il progetto crea un sotto e sopra automatico? Perchè in definitiva boccia? Crea l’insufficienza, il malefico cinque in pagella, il cattivo, il non-buono, lo sporco?
Ecco, come credo abbia parlato la mia mostra nel cuore dell’Università di Roma; nel centro della cultura. E, guarda caso, il Museo Laboratorio sta proprio dietro il Rettorato, sotto la platea dell’Aula Magna, come un cuscino che sembra dire: “sotto ‘ste chiappe nun se scureggia!”.
Per fortuna nelle dualità, e come voleva lo sporco dimostrare ulteriormente, ecco l’altra visione, opposta a questa biblioteca cieca: sono coloro che permettono di esporre il lavoro ad un certo tipo di artisti. Politici? Sociali? Boh?! A me piace dire “incazzati”, come Simonetta Lux e Domenico Scudero che, tra mille difficoltà, permettono di vedere altri mondi. Proprio come loro stessi, come istituzione, si contrappongono al sistema solo-consumistico dell’arte. Una mostra dove il singolo non esiste, minimo c’è un doppio… whiskey versato per terra, tra puzza di peti e sporcizia.
V.G.: Prima mi parlavi del tuo atteggiamento di “sopravvivenza documentale”, cosa intendi?
R.P.: La sopravvivenza documentale lascia più tracce possibili come documentazione del percorso della propria vita, come un testamento intimo, come a dire: posso solo documentare quello che mi avete fatto e detto, da parte mia posso inventare e lasciare progetti per aiutarvi, non e’ vietato. Gesti che si posso intendere in mille modi, spesso spendendo anche poco con foto, disegni, azioni, musica, parole; insomma il bello è che potete fare come vi pare e con i mezzi che avete. Ma questo, naturalmente, lo è solo se vi pare.
V.G.: Roberto Perciballi: cantante, addetto alle pulizie, pittore (ricordo la serie “Vegetebol”), autore video, scrittore, artista e performer… hai ricoperto, e ricopri, una serie di ruoli molto diversi. “La libertà in cattedra” nella complessità dell’installazione, e partendo dalla tua personale vicenda biografica, riflette profondamente sul tema del lavoro, ma anche sulle contraddizioni del “sistema” dell’arte. Quale relazione esiste per te tra questi due campi?
R.P.: Ho davanti una vaga idea di arte, nebbiosa ma chiara, lontanissima ma certa: penso a quando una persona fa quello che gli piace fare nella vita e questo gli permette di vivere… la vita dovrebbe essere arte, questo regalo magnifico ha bisogno di tutto per essere migliore e l’arte gli è indispensabile, perché porta con sé il concetto. Concetto dell’arte a cui manca solo la pratica. Dato che io, per vivere, devo fare le pulizie.
V.G.: E allora, visto che per vivere fai le pulizie (all’Università) e che hai creato un percorso artistico che, sempre all’Università, torna sotto forma di esposizione mostrando un Roberto Perciballi double-face, al lavoro, artistico/intellettuale ma anche pratico, mi chiedo: in questa tua doppia veste che ha invaso un museo, che posizione assumi rispetto a ciò che è ritenuto “qualificante” e rispetto a ciò che, al contrario, de-qualifica?
R.P.: Qualificante è avere un obbiettivo per tanti, potenzialmente per tutti.
Dequalificante è avere tanti obbiettivi tutti per sé stessi.
Nel mio caso, qualificante è stato fare la mia prima personale all’Università “La Sapienza”, de-qualificante è andare tutti i giorni all’Università “La Sapienza” a fare le pulizie, ma questo ripeto è molto molto… personale? E in fondo mi dà da vivere e sostiene, come può, la mia arte… quindi è de-qualificante? Ci sono cose nella vita che sono bianco e nero allo stesso modo e non si riconoscono più.
In realtà, ho iniziato a pensare ad un lavoro sul lavoro (“La Libertà in cattedra”, n.d.r.) dopo il rinnovo della carta d’identità. Per un caso, una coincidenza, sono venuto a conoscenza di una storia che mi ha colpito molto, molto forte, e che può far riflettere su ciò che io ritengo de-qualificante.
Una mattina di alcuni anni fa andai alla anagrafe del primo municipio, in via Petroselli per rinnovare la carta d’identità. Mi trovai lì verso le nove e notai, entrando, un signore in piedi, vicino all’ingresso con una borsa da lavoro in mano. Lo notai perchè era il signore che per oltre trent’anni avevo visto proprio allo sportello delle carte d’identità, ma lì per lì non pensai nulla. Feci la fila, pagai le marche comunali e richiesi il documento; allo sportello c’era ora una una donna bionda di qualche anno e pensai che il signore di prima osservasse forse un turno di riposo o magari era in ferie, così tranquillo me ne andai, dopo aver lasciato la richiesta di rinnovo.
Una settimana dopo tornai per il ritiro e sempre sulla destra della cancellata d’ingresso rividi di nuovo il signore delle carte d’identità e questa volta mi domandai proprio: ma che cazzo fa questo, sempre qui? Incuriosito sul serio feci la fila e quando vidi la signora bionda dello sportello non potei fare a meno di chiederle: “mi permetta una domanda signora, ma il suo collega che per anni era qui, al suo posto, ora perchè è sempre lì, vicino l’ingresso dell’anagrafe?”
La signora mi guardò teneramente, il suo sguardo ora era languido, melanconico e rispose quasi sussurrando: “sà, un vero dramma, è andato in pensione da tre mesi e tutte le mattina alle otto è pronto per iniziare la giornata, come se nulla fosse; non sappiamo più che fare…”. Ribattei ancora mentre raccoglievo le orecchie che nel sentire quella risposta mi erano cadute a terra: “ma perchè lo fa?”
La signora disse: “ha fatto per quarant’anni sempre lo stesso lavoro, non aveva una passione, un hobby, niente, nemmeno il calcio in televisione, speriamo non faccia stupidaggini! Viene tutte le mattine e fa almeno dieci/venti volte avanti e indietro prima di tornare a casa; arriva alla fermata dell’autobus, si ferma e torna indietro indeciso; un incubo, poverino…”
A quel punto trovai solo la forza di dire: “grazie di tutto signora, arrivederci”.
V.G.: Quindi secondo te è realistico oggi pensare al linguaggio dell’arte ipotizzando un obiettivo potenziale per chiunque? R.P.: Obiettivo etico si, eccome, per il resto penso all’arte pratica… infatti.
Realisticamente il linguaggio dell’arte permette all’individuo lo scarico personale della coscienza, questo si, ma il problema è avercela, la coscienza… (citazione presa dai Fioretti di San Francesco…)