Disarticolata, priva di un programma, di una identità riconoscibile, di una dimensione storico epocale congrua, la 52ª Biennale di Venezia sotto la direzione di Robert Storr si mostra organismo fragile, in fase di deperimento avanzato. Qualcuno ha voluto leggere questo dato come il sinonimo della libertà espressa dal “pensa con i sensi senti con la mente – l’arte al presente”, una specie di passepartout per giustificare in linea teorica qualsiasi cosa e valga il suo contrario, per cui risulterebbe sufficiente constatare l’impossibilità di controllo su tutto e riconoscere come possibile qualsiasi proposta. Il che equivale ad affermare tutto e nulla. Un immediato senso complessivo di pressapochismo fornito al visitatore non solo scorrendo tra le opere ma anche trovandone conferma nel testo riportato in catalogo dove Storr afferma: “La semplice asserzione su cui si fonda la 52ª Biennale di Venezia allora sarà che indipendentemente dal successo riportato da filosofi e ideologi nel persuadere la gente che non si tratta solo di utili ipotesi di lavoro ma di categorie intrinsecamente e storicamente veritiere, le molteplici sfide che la comprensione della realtà ci pone e così pure il concreto flusso dell’esperienza superano di gran lunga la capacità di contenerle di sistemi, teorie e definizioni. L’immaginazione è il bacino di raccolta nel quale si riversa questa eccedenza e l’arte interseca i canali che ricollegano segmenti prima separati della coscienza allargandola e riempiendola come il fertile delta di un fiume”.

Troppo spesso i labili confini della poesia, della liceità a non dover spiegare alcunché, nè tantomeno giustificare eventuali scelte, hanno rappresentato il rifugio e l’emancipazione da qualsivoglia responsabilità. Se, come accade in questa occasione, in nome della libertà creativa ci si appella all’assenza di limiti e a sostegno si fa richiamo ai sensi, impiegando l’apparente antinomia tra il pensare con i sensi e il sentire con la mente si sale a bordo di una scialuppa dove la sostanziale liceità del tutto esime dall’obbligo del dover significare.

E così questa Biennale stabilisce il record della latitanza. Latitanza dalle problematiche, prese di posizione e anche tensioni di dialogo, comprimendosi in un personalistico percorso nel quale neanche le presenze hanno ugual peso. Talune appaioni incisivamente rappresentate da sequenze intere di opere, quasi dei palinsesti, si veda il caso di Sigmar Polke, tal altre affiorano timidamente anche se orgogliosamente con contributi unici, come è il caso di Giovanni Anselmo. Si potrà obiettare che non è la quantità ma la qualità a fare la differenza ma vero è che alcuni artisti sembrano accolti in maniera dissennata e immotivatamente si registra un surplus di loro opere francamente inspiegabile.

In questo paesaggio sconfortante, sono, come da tradizione, i padiglioni nazionali a dare la migliore risposta alla evidente crisi della formula della mostra a tema. E, tra questi, si segnala la splendida confezione narrativa-investigativa di Sophie Calle al padiglione francese; il padiglione americano che deve il lustro di quest’anno alla controversa figura del compianto Felix Gonzales Torres, l’esule cubano che ha saputo fare della propria diversa emozionalità un serbatoio di energie da devolvere per il consumo altrui. E poi ancora, la complessa installazione di Masao Okabe nel padiglione giapponese per la fatica di pensare possibile scrivere il presente sulle rovine disastrose del passato, come un effettivo ricominciare da capo, il padiglione egiziano con le opere di: Haiam Abd El-Baky, Sahar Dergham, Tarek El-Koumy, Ayman El-Semary, George Fikry, Hadil Nazmy, per la straordinaria equivalenza contestuale con il paesaggio culturale d’appartenenza e infine quelli, fuori porta, irlandesi, dell’Irlanda del nord e dell’Irlanda, mirabile affresco del disagio comunicativo odierno, quello di Will Doherty e straordinario criticismo, quello messo a punto da Gerard Byrne. Un discorso a parte meritano poi il padiglione africano che si mostra con la mostra “Check List Luanda Pop” autenticamente vigoroso e energizzante, quello turco con gli ambienti domestici, laboratori socio-antropologici di Hüseyin Alptekin e quello italiano che ci costringe innanzitutto ad un doveroso richiamo al cahier de dolèance ancora non sufficientemente scritto per lo scippo perpetrato proprio dell’edificio e che così lo ha relegato al termine del percorso espositivo in un padiglione ancora da fare nel quale ha trovato parziale riscatto per l’impeccabile e raffinata installazione ambientale di Giuseppe Penone che nella fluidità mielosa della resina degli incavi fa trasudare anche gli spettatori di incanto.

Che dire poi del Padiglione dell’ILA quest’anno ubicato nella suggestiva cornice del Collegio degli armeni dove i territori tracciati e avvistati dalla curatrice Irma Arestizábal appaiono nella loro molteplicità uno dei contributi più vitali alle potenzialità linguistiche interpolate nella cultura visiva contemporanea? Senz’altro il meglio che se ne possa riconoscere, se non altro per il radicalismo concettuale espresso dal cubano Wilfredo Prieto, per l’impatto con la sofficità dell’ambiguo ambiente in polyestere del salavadoregno Ronald Moràn, per l’ironia sottile delle bandiere “svuotate” di Paola Parcerisa proveniente dal Paraguay, per i reportages del cubano René Francisco, per la ricerca spasmodica e impossibile di afferrare tutta la realtà nelle tante inquadrature dell’ambiente fotografico di Cinthya Soto della Costa Rica. In una parola, un insieme vitalistico.

Fuori dai giardini della Biennale, per i soli giorni dell’apertura il barcone del P.S.1 con le performances organizzate dal PAN di Napoli e con il progetto Art Radio Venice Live una presa al vivo sonora dello stato dell’evento nelle voci dei protagonisti presenti e intercettati, vero cuore pulsante di quel che sarebbe auspicabile si facesse in futuro: ascoltare e interpellare per progettare non in proprio ma nella condivisione.

Ma le emergenze? Certamente non sono state tra i punti all’ordine del giorno conseguiti dal progetto di questa edizione che pure se le era poste tra gli obiettivi. Una biennale che ci lascia con l’amarezza di un’occasione mancata, scialuppa pericolosamente alla deriva.