Si è conclusa a Venezia il 21 novembre la XII Biennale di architettura, curata per la prima volta da un architetto donna, Kazuyo Sejima, già nota per aver vinto lo scorso anno il Pritzker Prize. Sulle pagine del “Sole”, qualche tempo fa, Fulvio Irace si chiedeva se di questa rassegna nel tempo sarebbe restato qualcosa oltre il titolo, indubbiamente felice, o se non sarebbe scivolata nel dimenticatoio, come tutte quelle che l’hanno preceduta, fatta eccezione per la prima, quella del 1980, citata in ogni storia dell’architettura. In effetti le proposte dei 46 architetti invitati dal curatore a People meet in architecture – questo il titolo della rassegna che veicola un’idea di architettura con finalità di aggregazione e d’incontro – sono così variegate che è difficile estrapolarne un’idea univoca forte. Ciò nonostante emergono almeno due precisi ambiti di riflessione: il primo è quello dell’interesse per lo sconfinamento tra le arti. Gli artisti presenti sono infatti così numerosi, da ricavarne l’invito a guardare alle loro sperimentazioni per un’architettura che sia anche esperienza sensoriale, fenomenologica, una produzione a tutto tondo. Apre la lunga infilata delle Corderie la lettura che il regista Wim Wenders fa del Centro Rolex di Losanna, recentemente creato dalla stessa Sejima, una lettura che cerca di cogliere lo spirito del luogo, proponendo un rapporto di empatia fisica con la costruzione. Gli edifici parlano, sostiene Wenders, alcuni con un filo di voce, ed è necessaria una particolare sensibilità per coglierne l’essenza: gli ambienti vanno odorati, respirati, toccati. L’immagine percepita può essere però ingannevole, come i lampi di luce che Olafur Eliasson ottiene illuminando improvvisamente degli spruzzi d’acqua in un ambiente totalmente buio; oppure avere la consistenza eterea del coro a 40 voci di Janet Cardiff, un lavoro del 2001 che qui rivela insospettate valenze costruttive; o ancora l’impalpabilità avvolgente della nube firmata dai tedeschi Transsolar e Tetsuo Kondo Architects.
La seconda indicazione che emerge dalla rassegna è la necessità di orientare l’architettura verso una leggerezza concettuale e materica. Anche i premi assegnati dalla Giuria internazionale recepiscono quest’attenzione. Il premio alla carriera – assegnato dal curatore – è stato infatti tributato a Rem Koolhaas che, dopo essere stato il teorico del fuck the context, ha optato da tempo per il rispetto delle preesistenze e il loro riuso. Il premio della miglior partecipazione nazionale è andato al Regno del Bahrain che in realtà ha proposto la negazione stessa dell’architettura, con una serie di “zattere” di legno che la popolazione ha spontaneamente organizzato lungo la costa, come aree di ritrovo, proprio per sventare un progetto di massiccia edificazione. Il Leone d’Oro per il miglior progetto è andato ad un’architettura tracciata con fili sottili, ai limiti della percepibilità, dei giapponesi Junya Ishigami + associates con Architecture as air: Study for château la coste. Curioso il fatto che, fin dall’inaugurazione, una parte di questo lavoro fosse rovinato a terra, ma la sua invisibilità ha fatto sì che pochissimi se ne siano accorti. Ed ancora menzioni speciali per il team cinese Amateur Architecture Studio con il loro Decay of a Dome, un’architettura fatta di semplici pezzi di legno modulari, montabili e smontabili in pochissimo tempo; nonché per il giardino progettato dall’olandese Piet Oudolf, apparentemente spontaneo e dimesso, organizzato nell’area de “Il Giardino delle Vergini”: tutti interventi con un’impostazione lieve e totalmente reversibili.
Variegate le proposte dei padiglioni nazionali: dai particolari architettonici logorati dall’uso, dal collettivo belga Rotor, ai rigorosi piani per lo sviluppo di Copenaghen, formalmente e concettualmente affascinanti. Il Giappone presenta il gruppo Bow-Wow che opera recuperando gli spazi residuali tra un edificio e l’altro, facendoli diventare minuscoli giardini, piccole aree di aggregazione intorno alle quali rimodulare lo spazio domestico.
Deludente il padiglione Italia che, dopo una didascalica rassegna dei cantieri degli ultimi vent’anni, affida a quattordici architetti le riflessioni sul futuro, concretizzate in un farraginoso piano rialzato, parzialmente accessibile, sul quale sono collocate maquette incomprensibili di teoriche riflessioni. In pochi mesi la polvere che vi si è depositata ha trasformato il tutto più che in modelli di futuri complessi urbani, nella soffitta di un dismesso luna park.
Dall’alto:

Padiglione del Regno del Bahrain

Transsolar e Tetsuo Kondo Architects