“Stavo solo vivendo quello che mi aspettavo di vivere senza lasciare che qualcosa di nuovo potesse davvero accadermi”

 

Si è aperta a Milano, presso il Padiglione di Arte Contemporanea, la mostra Record of the time, una raccolta di opere che tracciano il percorso eterogeneo e multiforme della carriera di Laurie Anderson.
La mostra, che è stata ideata dal Musée d’art contemporain di Lione e curata da Thierry Raspail e Jean Hubert Martin, presenta circa novanta opere che ripercorrono la carriera dell’artista statunitense, celebrando il talento che la Anderson ha esercitato nella ricerca musicale operando un vero e proprio sincretismo di generi; sperimentazioni che hanno anticipato un periodo (metà degli anni 80) di spiccato interesse per la tematica. 
L’attrazione per la musica da cui è affetta la Anderson si manifesta già all’età di sette anni quando comincia a studiare violino entrando di lì a poco, a far parte della Chicago Youth Simphony. Questo interesse viene presto affiancato dalla passione che la giovane nutre per le arti plastiche, e che riesce ad approfondire studiando Storia dell’arte al Barnard College e poi seguendo un Master in arti figurative alla Columbia University, dove si occupa principalmente di scultura. 
È un periodo di grande movimento nell’ambiente artistico ed intellettuale di New York, e molti sono i personaggi che la influenzano e con cui matura le sue potenzialità creative: studia Merleau Ponty con Arthur Danto, storia dell’arte con Meyer Shapiro e grafica con Tony Harrison, conosce Vito Acconci, Philip Glass e Sol Le Witt, di quest’ultimo segue i corsi di scultura, per poi diventarne amica. 
Il processo osmotico che mescola e contamina i due campi del sapere produce come effetto iniziale la sua prima opera figurativa (aveva già scritto testi teatrali d’avanguardia) si tratta di Automotive (1972) una performance organizzata a Rochester, nel Vermont, che consiste in un concerto composto da clacson di automobili diretti dalla Anderson che, per l’occasione, scrive una vera e propria partitura. 
Il carattere “diffuso” dell’opera, che trova la sua matrice nella sperimentazione dell’happening e dell’environment americano (Kaprow; Kirby), si coniuga con l’idea di una direzione del confuso frastuono dei clacson, intesa come vera e propria musica. 
L’artista si lascia sedurre da uno dei simboli che per eccellenza rappresentano il capitalismo americano, così come i futuristi avevano celebrato la macchina intonarumori con la stessa fascinazione positivista per il meccanico ed il macchinico. 
In questo periodo la Anderson compie dei viaggi che le permettono di confrontarsi con situazioni sociali e culturali molto diverse dalla propria; esperienze da “nomade” che la portano dal Polo Nord al Chiapas, luoghi in cui conosce aspetti non comuni nel turismo tradizionale, che la arricchiscono dal punto di vista conoscitivo e la rendono più sensibile ad alcuni temi sociali. 
L’educazione sentimentale che le viene fornita dal confronto con queste culture, la porta ad una maturazione sentimentale e spirituale che conduce l’artista ad un’adesione alla religione buddista, un culto privo di credo, che incentra la propria dottrina sulla tolleranza e sulla consapevolezza dell’essere umano. Una maggiore confidenza con sè stessa, la mette in una condizione mentale di grande apertura, e probabilmente è anche grazie a questo che riesce a concertare meglio i suoi interessi artistici. Ma il passaggio compiuto dall’artista non è lineare, né tanto meno netto. In effetti, le opere che l’artista realizza nel corso della sua carriera portano il segno della sua formazione musicale tanto quanto dell’esperienza scultorea minimale compiuta alla Columbia University. L’eredità lasciata dalle esperienze performative, conosciute nella frequentazione di molti artisti dell’avanguardia newyorkese sono poi leggibili nel suo modo di concepire la messa in scena dei suoi spettacoli, e delle sue letture. 
L’attenzione che l’artista manifesta nei confronti delle modalità di fruizione dell’opera d’arte è emblematicamente rappresentata dall’opera Handphone table (tavolo manofonico) del 1978. Questo tavolo costruito dall’artista contiene nella sua struttura un registratore nascosto che emette della musica. Secondo un particolare meccanismo poggiando i gomiti su due punti specifici del piano e mettendo i palmi delle mani appoggiati sulle orecchie, si crea il passaggio di onde sonore attraverso le braccia, ed il conseguente ascolto di una musica, non udibile altrimenti. 
Il doppio binario su cui si è formata culturalmente, quello plastico e quello musicale, trovano finalmente la possibilità di incontrarsi e mescolarsi in opere in cui questi due connotati si trovano al medesimo livello, e che riescono ad integrare mezzi assai diversi tra loro. Il simbolo che emblematicamente rappresenta questo connubio arte-musica è sicuramente il violino, che è anche la matrice artistica della Anderson, ed è il mezzo-simbolo delle sue ricerche. 
Il primo esperimento che l’artista ha fatto con questi presupposti è Tabe Bow Violin (1977): un violino su cui è installato un meccanismo di lettura di un nastro registrato, così da emettere musica indipendentemente dalla sonorità stessa dello strumento. L’artista crea così un nuovo strumento musicale che conserva iconograficamente gli aspetti della tradizione (il violino classico), ma che rivela, quasi sarcasticamente, l’arroganza e la potenza dell’intrusione delle nuove tecnologie. A cominciare da quest’opera, si definisce un sodalizio forte con il mezzo tecnologico finalizzato ai propri progetti di contaminazione; opere che investono i simboli della cultura alta con le tecnologie della società dei consumi, coreografati ed interpretati, oltre che riprodotti analogicamente. 
Dalla metà degli an ni 80, la rivoluzione informatica fa in modo che cambino i circuiti di diffusione dell’arte, modificando i sistemi di fruizione da parte dello spettatore e cambiando anche la modalità di creazione e progettazione artistica. 
Se in passato la telecamera e le registrazioni audio erano gestiti da personale specializzato ed erano limitati al ruolo di memoria degli eventi e delle performance messe in scena, ora l’artista concepisce le sue opere in funzione di questi stessi mezzi che, più “maneggevoli” e meno cari, diventano parte integrante e del proprio lavoro. 
Le opere di assemblaggio di quel periodo, cedono ora il posto a strumenti realizzati in modo professionale da tecnici come Bob Bielecki, un ingegnere del suono abile nel tradurre le richieste dell’artista. 
La Anderson si rende così partecipe del processo di innovazione che sta avvenendo in quegl’anni, partecipa attivamente al confronto dei mezzi che questo comporta per un artista, ma non ne viene sopraffatta, anzi li padroneggia, anche da un punto di vista tecnico, e li usa in modo consapevole. Intuisce fin da subito che il cambiamento che i nuovi media porteranno nel quotidiano sarà travolgente, un presagio che legge con curiosità ed entusiasmo, piuttosto che irretirsi o negarlo. Per la Anderson, il frutto dell’avvenuto cambiamento metodologico, è lo spettacolo United States, realizzato presso la Brooklin Academy of Music di New York, che comprende canzoni disegni, foto e stills da programmi tv, per una durata di otto ore. Lo show contiene inoltre la canzone “oh superman” un proclama contro le manipolazioni operate dai media sulla realtà, che sorprendentemente balza in cima alle classifiche. 
Questo spettacolo segna il passaggio del lavoro della Anderson dalla performance artistica ad una tipologia creativa che punta ad un pubblico meno esperto ma più esteso. Il passaggio ad un bacino d’utenza maggiore, ad una logica commerciale, porta l’artista a un confronto diretto con l’ondata di forte edonismo di quel decennio, che travolge la società occidentale, che fa tabula rasa dell’idealismo del periodo precedente. 
Molti artisti, che fino a qualche anno prima erano impegnati in una ricerca di tipo performativo ed “effimero”, ora passano ad un’oggettualizzazione delle loro proposte; alcuni di loro tornano alla pittura altri si rinchiudono in una torre d’avorio, in ambienti settari, lontani dalla società. In effetti, l’arte da questo momento diviene un fenomeno di mercato, e i primi ad accorgersene sono i galleristi che con i metodi del marketing costruiscono e trasformano gli artisti in vere e proprie star internazionali. 
Sarà forse per questo cambiamento di clima culturale che la Anderson cede alle richieste discografiche della Warner Bros accettando di firmare un contratto che la impegna per otto dischi. La commercializzazione del suo lavoro si accompagna inevitabilmente anche ad una crescita della sua popolarità che la rende una vera eroina dello star system. 
Nonostante questa impennata pop nel suo lavoro, lo stile della Anderson resta sempre caratterizzato da una sorta di stoicismo; il suo lavoro procede in modo etico con ritmi serrati, ma esente da quegli accenti aggressivi che possiamo rintracciare in altri personaggi. Il suo linguaggio è pacato anche quando i temi diventano di assoluta pregnanza politica: che si tratti di letture, di musica, o di opere plastiche, i toni della comunicazione restano fermi e decisi. Con uno pragmatismo anglosassone l’artista punta verso l’obiettivo del confronto e dello scambio con il pubblico, e con la società intera, convinta che non ci si possa esimere da questo, ma anche che si tratti di un’incredibile opportunità. 
Gli spettacoli della Anderson, dalla seconda metà degli anni 80, divengono sempre più tecnologici ed imponenti; ricordiamo tra questi This is the picture realizzato con Peter Gabriel per Good morning Mr. Orwell una proiezione di video curata da Nam June Paik, ma anche Home of brave (1985) un film-concerto diretto da John Lindley che ci riporta alla memoria il balletto triadico schlemmeriano, soprattutto per i costumi e le maschere. 
Degli ultimi anni, un’opera di forte impatto emotivo è sicuramente Dal vivo (1998), un progetto realizzato a Milano, con la collaborazione della fondazione Prada, che riprendendo le prime sperimentazioni videoproiettive degli anni 70, di vita ad un’opera di grande suggestione ed impatto emotivo, che concentra la propria attenzione sul tema della detenzione carceraria, e sui connessi con il concetto stesso di libertà personale. 
Ma l’impegno dell’artista nel sociale e quindi nella politica non è relativo unicamente alla produzione di opere che si occupino di questo, la Anderson partecipa a raccolte di fondi per la ricerca sull’AIDS e a concerti di beneficienza, per i bambini come per il Tibet. L’attivismo degli anni 70 è continuato nonostante scelte artistiche varie e per certi versi contraddittorie, e non ha perso il suo smalto concretizzandosi in impegno costante nel sociale, e a prese di posizione nette sul fronte politico. 
Nel vernissage inaugurale per la presentazione della mostra di Milano la Anderson ha ribadito con candore e fermezza la sua opposizione alla politica del presidente americano, “non mi piace nulla della politica di Bush”, ha dichiarato. 
In effetti, il suo impegno contro la guerra è ufficiale dal 14 giugno 2002, quando la Anderson insieme a personalità di spicco della cultura americana (tra cui Noam Chomsky e David Harvey) ha firmato un manifesto contro la guerra pubblicato sul The Guardian. Con lo slogan “NOT IN MY NAME” il gruppo di intellettuali ha denunciato il ridicolo e semplicistico paradigma bene-male con il quale l’amministrazione americana, non sapendo fornire valide motivazioni politiche e morali per l’attacco, ha disegnato la geografia mondiale, ed ha motivato il conflitto. Una guerra, per i firmatari, sbagliata, immorale, illegittima, a cui dichiarano di non voler partecipare, rifiutando i sillogismi di Bush; uno tra tutti il celebre “con noi o contro di noi” , uno slogan che ben sintetizza il manicheismo dell’amministratore texano, adoperato in modo strumentale alla propria logica di potere. 

 

La mostra resterà aperta fino al 15 febbraio 2004
Padiglione d’Arte Contemporanea, via Palestro 14, 20121 Milano
www.pac-milano.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dall’alto:

Handphone Table, Installazione

Una scena di Home of the Brave

Still dal video PSA: National Anthem

Una scena della piece Moby Dick