“L’essenza della scultura per me è la percezione dello spazio, il continuum della nostra esistenza”.

Con questa affermazione Noguchi sintetizza la propria concezione della scultura in termini di assoluto: assoluta è la dedizione alla ricerca artistica, come inscindibile è quest’ultima dalla sua ricerca d’identità, dalla propria esperienza umana.
Isam Noguchi nasce nel 1904 a Los Angeles. Suo padre è un noto poeta giapponese, Yonejiro (Yone) Noguchi, sua madre, Leonie Gilmour, una scrittrice americana: proprio questa origine rappresenta l’unione di due culture, due mondi che continueranno a incontrarsi e scontrarsi nella sua vita e nella sua opera. Noguchi vive la prima infanzia in Giappone e dall’adolescenza in America, ma non si sentirà mai soltanto giapponese o americano, non apparterrà esclusivamente all’una realtà o all’altra: perfino le sue ceneri sono sepolte metà a nella sua casa a Mure, sull’isola di Shikoku, metà in un angolo dell’Isamu Noguchi Garden Museum, di New York. Quando si diploma alle scuole superiori in Indiana, usa il nome di Sam Gilmour, e solo dal 1924 adotta il nome Isamu Noguchi, dopo aver lasciato la facoltà di medicina e scelto di dedicarsi completamente alla scultura.
Grazie ad una borsa di studi Noguchi ha l’opportunità di recarsi a Parigi e lavorare, in qualità di assistente, al fianco di uno dei maestri della scultura moderna: Constantin Brancusi. Questa esperienza segna profondamente l’artista, allora poco più che ventenne: l’influenza di Brancusi sul suo stile è estremamente evidente nelle prime opere astratte del 1928, ma continuerà ad apparire, ormai solamente come citazione, quasi un omaggio, in alcune sculture degli anni Ottanta. L’insegnamento fondamentale di Brancusi, che avviene in modo assolutamente non verbale, poiché quest’ultimo non conosce una parola in inglese e Noguchi ignora altrettanto il francese, si sviluppa su due diversi livelli. Il primo è di ordine pratico e consiste oltre all’uso dei diversi strumenti, dai più piccoli ceselli fino alle asce, nel metodo, che anche Brancusi adotta, del taglio diretto. Il secondo livello, che si può definire etico, è incentrato su quella che per Brancusi è una vera e propria dottrina: l’onestà verso la materia, ovvero non dare origine a forme che non siano in qualche misura consone alla natura stessa dei diversi materiali, il contatto diretto tra l’uomo e la materia e soprattutto la necessità di essere una cosa sola con ciò che si sta realizzando. Quest’ultimo aspetto, approfondito da successive ricerche, rimarrà una costante nel corso della produzione artistica di Noguchi che dura per più di sessant’anni. Altra costante è la continua sperimentazione di forme e contenuti nei molteplici campi in cui sfida se stesso ad andare oltre, al di lì dei significati più superficiali e della pura estetica.
Questo desiderio di ricerca è la causa e insieme il risultato dei molti viaggi che lo portano in Francia, Italia, Inghilterra, Spagna, Egitto, Russia, Cina, Giappone, India, Cambogia, Indonesia e Messico. Oltre a visitare e studiare i più noti luoghi d’arte, sui quali avrebbe dovuto realizzare un libro per la Bollingen Foundation dal titolo Environments of leisure, Noguchi cerca di entrare davvero nella cultura dei paesi ai quali si sente più legato. Soprattutto i viaggi in Cina e in Giappone arricchiscono in modo significativo il suo vocabolario artistico, sia dal punto di vista strettamente tecnico che da quello espressivo. A Pechino, nel 1930, studia per sette mesi con il maestro Ch’i Pai-Shih la pittura ad inchiostro tradizionale cinese; in Giappone, l’anno successivo, lavora la ceramica insieme al maestro Jinmatsu Uno, e vede per la prima volta un giardino zen. Il senso di equilibrio della composizione, la tensione tra il vuoto e il pieno, l’interrelazione della scultura con la terra e l’ambiente, le forme eterne modellate nel più fragile dei materiali, la sabbia e al di sopra di questa l’emersione delle rocce, come estremita di iceberg, da uno strato più profondo e primordiale. E’ l’insieme di questi elementi che lo colpisce e che Noguchi ricrea e sviluppa nella sua ricerca, apportando delle trasformazioni, a volte dei veri e propri stravolgimenti, per i numerosi progetti, non tutti realizzati, di parchi gioco e giardini.
Un esempio emblematico è il giardino che realizza tra il 1956 e il 1958 per la sede centrale dell’UNESCO, a Parigi. Noguchi utilizza tutti gli elementi tradizionali del giardino zen, come le pietre piatte disposte per il camminamento (tobi-ishi), il piccolo ponte sospeso sull’acqua, la simbolica montagna sacra (horai), la ghiaia, le rocce e gli alberi, scelti personalmente ed importati dal Giappone. Ciononostante Noguchi ne infrange costantemente le regole per la necessità tipicamente occidentale di riempire ogni minimo spazio, una sorta di horror vacui, e come dimostrano le continue discussioni con il maestro venuto da Kyoto per assisterlo.
Per l’esecuzione di altri progetti pubblici o di ampia scala Noguchi si avvale della collaborazione di architetti del calibro di Louis Kahn, I. M. Pei, Kenzo Tange, Marcel Breuer, essendo consapevole che le grandi opere necessariamente implicano forme di compromesso ed a volte lamentandosi della perdita di controllo che si incontra spesso lavorando con gli architetti!.
L’associazione con Kahn dura per cinque anni, dal 1961 al 1966, nel corso dei quali elaborano altrettanti progetti per un parco giochi da realizzarsi a New York presso il Riverside Drive Park, avendo come base il comune senso di rispetto per la natura, l’importanza attribuita da entrambi all’elemento luminoso come determinante nella composizione, lo stesso tentativo di conciliare l’immaginazione dell’uomo con le necessità della vita contemporanea. Malgrado proponessero all’interno di un paesaggio scultoreo collinette e specchi d’acqua, scivoli e cavità per strisciare, terrazze geometriche e anfiteatri, uno alla volta i cinque progetti vengono respinti con sarcasmo dal lungimirante commissario del dipartimento dei parchi di New York. Il coinvolgimento di Noguchi nello studio dei i parchi gioco, ai quali si dedica senza interruzione per tutta la vita, rivela due elementi fondamentali della sua opera: da una parte l’interesse e la cura che dedica all’infanzia, che viene vista, analogamente a Kandinsky e Mirò, come un periodo dalle possibilità illimitate, in cui l’arte è creata come espressione primitiva pura; dall’altra l’aspetto sociale che può svolgere l’arte nell’applicazione della scultura nel mondo reale, nell’attività quotidiana. Dagli anni trenta infatti comincia ad elaborare quest’idea, nata dalla coscienza sociale degli anni successivi alla grande depressione, di rendere la scultura utile alle persone. Questo è ciò che più tardi chiamerà la scultura degli spazi: ovvero approfondire la relazione tra scultura ed ambiente circostante e creare un luogo per la connessione ed interazione sociale, grazie allo studio di come le forme, specialmente quelle umane, interagiscono con gli oggetti e lo spazio che li contiene.
Questo impegno sociale sfocia nell’impegno politico in due momenti. Nel 1936 quando realizza il murale di ventidue metri per il mercato Abelardo Rodriguez a Città del Messico, dal titolo History Mexico, in cui un grasso capitalista attaccato da uno scheletro, una svastica gigante che schiaccia i lavoratori ribelli, un uomo che solleva il compagno caduto, sacchi di denaro, baionette, pugni sollevati lasciano intendere chiaramente il messaggio. E soprattutto nel 1942 quando, dopo l’attacco giapponese di Pearl Harbor, organizza una serie di manifestazioni insieme ad altri artisti e scrittori Nisei, ovvero giapponesi-americani, contro l’odio e il razzismo che gli americani loro dimostrano, e decide di vivere come volontario nel Colodaro River Relocation Center di Poston, in Arizona. Per alleviare il peso della detenzione tenta di creare un ambiente meno opprimente possibile ed organizza dei progetti che prevedono la lavorazione della ceramica e l’intaglio del legno, per far entrare se stesso e gli altri in contatto con la vita della comunità.
Noguchi lascia il centro sette mesi più tardi, dopo essersi scontrato con la realtà dell’impossibilità di migliorare realmente le condizioni di vita dei detenuti. Ma il desiderio di trovare uno sbocco sociale per la sua scultura, al di lì dei progetti pubblici, ha l’opportunità di divenire realtà, quando Noguchi costruisce la sua scultura degli spazi sul palcoscenico. In fatti oltre a sporadiche collaborazioni con Merce Cunningham e John Cage, Ruth Page e la Royal Shakespeare Company, per più di trent’anni dal 1935, Noguchi lavora al fianco della coreografa e danzatrice Martha Graham, ideando per i suoi spettacoli le scenografie e tal volta anche i costumi di scena.
In Frontier partendo dagli elementi base e dagli spazi simbolici che ha visto in Giappone, in particolare i giardini zen di Kyoto e le scene del teatro Noh, Noguchi disegna una struttura minimale per il ritratto che la Graham offre della vita dei pionieri delle pianure americane. Noguchi definisce lo spazio della danza con due semplici linee, date da due corde tese tra le due estremità superiori del proscenio verso il centro in basso del fondo: in questo modo evoca i grandi spazi del West, le linee convergenti dei binari, il cielo immenso e la pressione emotiva, data da questa sorta di triangolo rovesciato, che viene esercitata sui vulnerabili coloni. Noguchi inserisce anche la propria esperienza personale, pensando alla sua accoglienza negli Stati Uniti e alla sua origine giapponese. Alla base della lunga collaborazione di due personalità molto diverse e forti stanno la reciproca fiducia, l’intuito e il loro metodo di lavoro, in cui lo scambio è continuo: la Graham inizia col raccontare una storia mostrando alcuni dei suoi movimenti, dopo di che Noguchi crea un modello scultoreo su un palcoscenico in miniatura nel suo studio; a questo punto lo presenta alla danzatrice, che in genere vi adatta la sua coreografia. Noguchi installa i lavori sul palco e la Graham, così come non taglia o altera la parte musicale delle sue performance, accetta ogni suo suggerimento sull’uso dello spazio. Molti dei disegni di Noguchi contengono elementi simbolici astratti: alcuni appaiono strettamente collegati alle ricerche formali del momento, come lo specchio biomorfico per Herodiade del 1944; altri sono semplici oggetti della vita quotidiana, decontestualizzati ed usati simbolicamente, come ad esempio la fune che rappresenta il labirinto della mente di Errand into the Mazedel 1947.
La scenografia a cui è più legato personalmente rimane quella per l’Orpheus di George Balanchine, con le musiche di Igor Stravinsky. Noguchi la interpreta come la storia di un artista accecato dalla sua stessa visione e tentato dal possesso materiale: proprio in quegli anni, intorno al 1948, si trova a riflettere sugli effetti negativi di un successo e una fama ormai mondiale.
Dalla metà degli anni Quaranta Noguchi nella scultura tout curt ha raggiunto una maturità espressiva che lo porta ad una sperimentazione sempre più estesa di materiali e processi compositivi. La precarietà causata dalla Seconda Guerra Mondiale è riscontrabile in una serie di opere in cui traspare un profondo pessimismo a partire dai titoli: This Tortured Earth e Memorial to the Man, più tardi chiamata Sculpture to Be Seen fron Mars, e in una serie di sculture che definisce interlocking, ovvero assemblate in diverse lastre. Noguchi stesso spiega che in quegli anni a New York le lastre sono la forma più diffusa in cui è possibile reperire marmo, poiché così veniva usato per ricoprire le mura dei palazzi. Questa necessità diventa un’occasione per un nuovo metodo creativo: la successione degli incastri va calcolata al millimetro, non essendo possibile l’uso della colla e data la fragilità del materiale. Proprio questa fragilità interessa Noguchi, perché esemplifica l’impermanenza propria della vita. Come si legge nella poesia giapponese la perfezione di un bocciolo può essere solo temporanea: una bellezza fragile è quella che commuove di più. Noguchi accetta in questo modo l’effimero, che aveva fino ad allora rifiutato. In oltre queste figure mostrano l’esplorazione di una nuova percezione dello spazio e di una frammentazione delle linee come dei significati. Continua la sua ricerca della definizione del vuoto, attraverso nuovi equilibri e tensioni tra spazi negativi e positivi. “E’ lo scultore che ordina e anima lo spazio, che gli da un senso” dichiara durante la mostra Fourteen Americans al MoMA di New York nel 1946, dove appaiono queste opere per la prima volta, ottenendo un enorme successo. Dopo una prima ricerca degli ultimi anni Venti sulle figure astratte, Noguchi torna più volte su alcune di quelle linee, di quelle curve biomorfiche di derivazione surrealista, contrapponendole e alternandole a forme geometriche. Fin dagli studi di medicina Noguchi è affascinato dalle forme della materia vivente e allo stesso tempo nutre un enorme interesse per la tecnologia e per il suo uso al servizio dell’uomo; la sua lunga amicizia con Buckminster Fuller, l’ideatore delle cupole geodetiche, è una continua fonte di scambi in questo campo. Lo studio e lo sviluppo di un immaginario organico al fianco delle forme rigidamente geometriche è solo uno degli elementi che generano un equilibrio, un’armonia degli opposti che rappresenta la cifra stilistica riconoscibile in tutta la sua opera: la tradizione insieme all’innovazione, l’astrazione di fianco al concreto, influenza orientale nel mondo occidentale, l’antico e il moderno, la lavorazione manuale e l’utilizzo della tecnologia.
La scelta del materiale diventa fondamentale e di questi aspetti solo formalmente dualistici rappresenta la sintesi che si può maggiormente apprezzare nelle sue ultime opere, come Great Rock of Inner Seeking, del 1974, che rappresentano il culmine della sua produzione artistica. Queste sculture sono realizzate in granito e basalto, che si trovano in abbondanza a Mure, sull’isola di Shikoku, dove Noguchi dal 1969 stabilisce un secondo studio, che dopo la sua morte verrà trasformato in museo, e dove trascorre tre mesi in primavera e tre in autunno ogni anno. Le qualità di questi materiali, più duri dei precedenti, rallentano il ritmo del suo lavoro e focalizzano il suo interesse sulla pietra in modo nuovo. Restringendo l’attenzione sulla pietra, Noguchi lascia spesso parte della superficie rocciosa non lavorata, rivelando che è stata estratta dalla terra e mostrando la sua “pelle” naturale. La pietra diventa il simbolo della natura e scolpire la metafora del confronto da parte dell’uomo con il temporale, l’impermanente.
La materia della scultura di Noguchi si espande, non ha limiti: può essere qualsiasi elemento. Negli anni Quaranta ad esempio realizza le prime opere che definisce Lunar, ovvero delle sculture in magnesite che inglobano una lampadina e risultano autoilluminate; dallo sviluppo di queste singole sculture creerà degli interi interni dai soffitti lunar, estendendo la nozione e la fruizione di scultura illuminata e rendendola completamente ambientale. La luce stessa diventa materia scultorea quando crea nel 1951, mutuandola dalla tradizione giapponese, la sua prima lampada Akari. Il nome che sceglie Noguchi è significativo: vuol dire insieme illuminazione e leggerezza, in contrapposizione alla pesantezza, deriva infatti dall’ideogramma che combina il sole e la luna. L’idea che sottende è quella dell’unione di leggerezza, come essenza e luce, come consapevolezza. Negli anni successivi si cimenta nell’investigazione delle possibilità scultoree dell’elemento acqua, realizzando delle fontane che sono tra i suoi progetti più ambiziosi. Per la fontana per Hart Plaza di Detroit, del 1972-1979, si avvale di disegni innovativi, materiali all’avanguardia e per la prima volta dell’ausilio del computer. Utilizza ancora l’acqua nella sua connessione tradizionale giapponese con la pietra in diverse e notevoli opere, per ricreare il senso di pace e meditazione dei giardini zen: nella fontana del Billy Rose Sculpture Garden al Museo di Israele, del 1960-1965, nel palazzo della Corte Suprema di Tokyo, del 1974, nel Domo Ken Sculpture Garden a Sakata, in Giappone, del 1984 e nel Sunken Garden di Chase Manhattan Bank Plaza del 1961-1964, nel centro di New York.
Tutti questi progetti pubblici sono soltanto una parte di quelli che ha realizzato, come i due ponti per il Parco della Pace a Hiroshima, del 1951, o l’irreale Sunken Garden per la Beinecke Rare Book and Manuscript Library della Yale University a New Haven, del 1964, o sono rimasti solo sulla carta, come il monumentoMemorial to the Dead per i caduti di Hiroshima, del 1952, o la tomba del presidente Kennedy a Washington. In Entrambi i casi, in modo ancora maggiore rispetto al parco giochi di Riverside Drive, Noguchi soffre il peso della bocciatura del disegno a livello personale: “Non potevo evitare di sentirmi rifiutato dagli Stati Uniti, così come lo ero stato dal Giappone”.
Purtroppo, come avviene spesso, soltanto verso la fine della sua vita verrà accettato completamente come artista al di lì dell’appartenenza all’uno o l’altro Paese: nel 1986 rappresenta gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia, e riceve il Premio Kyoto dalla Fondazione Inomori e nel 1987 la National Medal of Arts alla presenza del presidente Reagan, nel 1988, l’anno della sua morte, viene insignito del Terzo Ordine del Sacro Tesoro dal governo giapponese e dell’Award for Distinction in Sculpture dallo Sculpture Center di New York.      

Dall’alto:
Akari, 1985, Museo Seibu Tokio

Lunar Infant, 1944, Isamo Noguchi Foundation, New York

Mu, 1951-52, Univesitˆ di Keio (Tokyo), giardino

Isamu Noguchi che lavora a Mu, 1950

Roar, 1966, Isamu Noguchi Foundation, New York

Jardin Japonais, 1956-58, sede centrale dell’Unesco, Parigi

Isamu Noguchi nel suo studio, 1945

Set dell’Orpheus, 1948, coreografia di George Balanchine, Ny City Ballet

Sunken Garden per la Beinecke Rare Book and Manuscript Library, 1960-64, Yale university, New Heaven, Connecticut

Great Rock of Inner Seeking 1974, National Gallery of Art Sculpture Garden Washington, D.C.