Alessandra Troncone: Sin dagli Novanta lavori con il disegno e con il video, elaborando un linguaggio che reinterpreta il concetto stesso di videoanimazione. Il tuo lavoro si inserisce così nel ciclo Lithium non solo per il suo anticipare l’interesse – soprattutto in Italia – nei confronti di questo tipo di ricerca nell’ambito della videoarte, ma anche per la sua originalità d’espressione, che risulta un ‘ibrido’ di media differenti. Puoi spiegarci in cosa consiste la tua tecnica e qual è il ruolo attribuito al disegno e al video nel tuo processo creativo?
Elena Arzuffi: I disegni che compongono i video sono singoli frame, che come pensieri in sequenza compongono un discorso che apre a vari spunti di riflessione. Il video è nel suo insieme il risultato di una ricerca che comprende più sfumature ed in quanto tale per essere esternata, ha bisogno di più forme visive, più elementi per un unico puzzle. Ogni disegno è pensato sia singolarmente, sia in sequenza in funzione del prodotto finale. Sono arrivata a questo rendendomi conto che spesso con un’unica traccia grafica all’interno di un foglio non si esaurivano i contenuti che desideravo esprimere.

A.T.: Nei tuoi video le immagini disegnate sono alternate o sovrapposte ad immagini riprese dalla realtà. Quali sono le suggestioni che ti portano ad associare queste scene?
E.A.: Nella preparazione degli story-board mi aiuto con fotografie, collage, disegni semplici e disegni fra loro sovrapposti realizzati su carte di genere diverso. Di fatto quando lavoro a ciascun frame penso a come tradurre le mie sensazioni. Disponendo di un metodo di elaborazione grafica che desidera guidare la percezione mi muovo in modo che alcune tracce siano più leggibili e quindi più significative di altre e rendo più chiare certe immagini e più sfocate altre. Come nei ricordi o nei pensieri quando si cercano delle risposte o dei riscontri.

A.T.: Guardando i tuoi video ho pensato più volte alla flanerie surrealista, il passeggiare vagando senza una meta precisa che conduce ad insolite associazioni di immagini e di idee. Seguire le tue impronte – riprendendo il titolo di una tua opera – mette chi guarda nella condizione di perdersi tra i tuoi pensieri, tra i tuoi itinerari inconsapevoli. C’è, da parte tua, la proposta di un racconto, di un filo narrativo o si tratta di sequenze studiate per suggerire sensazioni e stati d’animo, agendo sul piano dell’inconscio, dell’irrazionale, della pura percezione?
E.A.: Lo stratagemma che perseguo è quello di oscillare fra la condizione del filo logico che ha una sua direzione e quella della libera associazione, al fine di calibrare le sequenze in modo che si mantengano leggere ma al tempo stesso cariche di comunicazione. Nel momento in cui riesco a far scattare il meccanismo della riconoscibilità piuttosto che quello dell’identificazione, credo che si possa dire che il lavoro sia in grado di funzionare perché riesce ad innescare delle domande ogni volta diverse….

A.T.: L’elemento sonoro è in molti casi il vero ‘animatore’ del disegno e delle scene che si succedono nei video. Da cosa ti fai guidare nella scelta della colonna sonora giusta? Chi ti aiuta in questo lavoro?
E.A.: Effettivamente il sonoro, che talvolta è composto da musica, altre volte da rumori che accompagnano le azioni dei personaggi o da eventi atmosferici in evoluzione, è usato come parte del linguaggio visivo. Nasce anch’esso nel mio pensiero durante la costruzione della sequenza delle immagini ed è un ingrediente del lavoro che contribuisce a fornire ritmo e a bilanciare cedimenti emotivi. È l’intuito che mi guida nella ricerca e mi avvalgo raramente di collaboratori, utilizzo librerie di suoni e rumori e taglio frammenti brevi di tracce esistenti.

A.T.: Spesso hai presentato i tuoi video come parte di più complesse installazioni, ricostruendo anche l’ambiente di ‘fruizione’ del video stesso. Come ti relazioni invece con il format espositivo proposto da Lithium?
E.A.: Questo format m’incuriosisce e intimidisce perché, da un lato, può essere percepito come omologante, ma tenendo conto del fatto che prevede anche la presentazione online di uno dei video in mostra, contemporaneamente all’esposizione in galleria, acquisisce un respiro mediatico che mi affascina.

A.T.: Nei tuoi lavori, come A jaunt e Impronte che qui presenti, la realtà esterna si sovrappone ad una dimensione domestica, così come le immagini fotografate si sovrappongono al disegno. Sembra dunque che questo contrasto tra dentro e fuori, intimo e pubblico, si riproponga nel mix di immagini e tecniche che utilizzi: da una parte il disegno come espressione della componente più soggettiva (medium ‘caldo’), dall’altra la fotografia e il video come tecnica impersonale, ‘fredda’. È possibile affermare che la stratificazione di significati nella tua opera passa proprio per la tecnica e il linguaggio che hai scelto?
E.A.: Il mio lavoro mi assomiglia molto, è il miglior antidoto all’ansia che ho trovato. Se non l’unico. Questa stratificazione di cui parli la riconosco in me stessa, di conseguenza il metodo e i contenuti si sono incontrati ed io li utilizzo nel tentativo di realizzare un lavoro semplice ma anche specchio della contemporaneità …

A.T.: Soggetti delle tue opere sono spesso figure femminili, silhouette appena tratteggiate che compiono gesti quotidiani all’interno delle mura domestiche. Questa indagine sulla femminilità, che tu tratti con una sensibilità appunto ‘femminile’, quale connotazione assume all’interno del tuo lavoro?
E.A.: Le silhouette che riconducono al corpo femminile – ma non solo – mi permettono di lavorare sulla riconoscibilità cercando di sfuggire agli stereotipi. Il corpo in generale comunica con le posture tanto quanto la parola, se non di più. Relazionarsi con lo spazio e con gli altri rivela molto di noi. Una profonda rilettura psicologica ed in parte antropologica delle relazioni mi influenza costantemente.

A.T.: Nelle immagini in sequenza che ci proponi è difficile rintracciare delle precise coordinate spazio-temporali. A questo si aggiunge il gioco di dissolvenze che suggerisce l’idea di un ricordo che via via va sbiadendo, lasciando spazio ad un senso di solitudine e di attesa per qualcosa che deve accedere o che forse non accadrà mai. Come si relazionano le tue opere al concetto di memoria?
E.A.: Uso la memoria ma non me ne faccio imprigionare. Credo nel detto “mai dire mai”. Ognuno ha il suo percorso. Anche le cose più impensate accadono e forse anche il lavoro lo potrà dire. Questo solo per suggerire che spero che il lavoro continui ad evolversi sostituendo alla malinconia anche altri infiniti timbri emotivi.

A.T.: Per concludere… come definiresti (in due parole!) la tua ricerca?
E.A.: Userò una frase che ho pensato per la domanda: ” cos’è per te il disegno?”, poiché è una risposta che vale per spiegare il mio lavoro. È l’attimo in cui l’inconscio incontra la realtà.

**Intervista realizzata in occasione della mostra Itinerari inconsapevoli nell’ambito del ciclo Lithium1, NOTgallery, Napoli (21 aprile-5 maggio 2011)

Da sopra:

Elena Arzuffi, L’attimo, 2011, rielaborazione grafica di fotografia con disegno, cm 21 x 29.7, edizione unica, courtesy l’artista.

Elena Arzuffi, Stenditoio, 2009, rielaborazione grafica di fotografia con disegno, frame del video a jaunt, cm 21 x 29.7 ,edizione unica, courtesy l’artista.

Elena Arzuffi, Sonno agitato, 2009, disegno e frame del video a jaunt, cm 21 x 29.7, edizione unica, courtesy l’artista.