Il Palais de Tokyo (www.palaisdetokyo.com), situato di fronte al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, è un vasto spazio di più di 20000 mq, di cui 5000 aperti al pubblico, inaugurato nel gennaio 2002, destinato ad essere “site de création contemporaine” sotto la direzione di Jérome Sans e Nicolas Bourriaud e la presidenza di Pierre Restany.

A un anno dalla sua apertura Elisabetta Cristallini ha intervistato Marc Sanchez, Chief curator.

Elisabetta Cristallini: Ci puoi raccontare come è nata l’idea di creare un luogo aperto all’arte contemporanea e qual è il progetto complessivo per questo spazio?                                                                                                                                                        Marc Sanchez: Il Palais de Tokyo è nato da un insieme di circostanze o, per essere più precisi, dall’incontro tra diversi progetti che poi si sono verificati essere complementari.
All’inizio, un luogo, appartenente allo Stato e reso disponibile per la revoca del progetto al quale era stato destinato. Uno spazio di grandi dimensioni, abbandonato dopo una prima fase di lavori che lo avevano svuotato di tutto il suo allestimento interno e ridotto allo stato di scheletro architettonico. Poi, il desiderio – ancora impreciso e mal posto in termini di contenuto – del Ministero della Cultura dell’epoca di fare “qualcosa” per la situazione artistica contemporanea. Infine, due giovani “curatori” indipendenti, che sognavano di unire le loro forze e le loro differenze per confederare, in un progetto comune, artisti, poteri pubblici e istituzioni private.
Dopo una prima fase di incontri e di tentativi diversi di definizione delle intenzioni è nato, nel 1999, il progetto per il “Palais de Tokyo, Site de création contemporaine”, una istituzione creata dallo Stato ma libera dai suoi mezzi per tentare d’inventare una situazione nuova che completi l’insieme delle proposte già offerte a Parigi e apra delle strade nuove. Un atteggiamento differente di fronte agli artisti, un’ampia apertura a tutti i tipi di pubblico senza mai sacrificare nulla al contenuto, uno spazio più vicino all’atelier o al luogo delle esperienze che al museo consacrante, un incrocio di generi, un’ampia apertura internazionale, una disponibilità al dialogo, una reattività agli eventi e alle proposte, sono alcuni degli assi di riflessione e di lavoro che articolano il progetto del Palais de Tokyo.

E.C.: Quanto del progetto si deve al presidente Pierre Restany? Mi viene in mente quando Restany all’epoca del Nouveau Réalisme affermava l’importanza dell’opera d’arte e dell’attività creatrice per la sua esistenza nel mondo e non per i suoi risultati estetici.                                                                                                                                                                                                 M.S.: Noi abbiamo avuto la grande fortuna di aver potuto scegliere la nostra équipe, il nostro programma ma anche il nostro consiglio di amministrazione. Abbiamo voluto che fosse composto da artisti, personalità del mondo della cultura e, naturalmente, da responsabili dei poteri pubblici, tutti favorevoli al nostro operato. Pierre Restany si è imposto con evidenza per garantire la presidenza. Il suo percorso sia come critico d’arte che come teorico, il suo interesse costante e dichiarato per le idee e gli atteggiamenti nuovi e la garanzia intellettuale che la sua presenza porta al progetto ne fanno uno dei nostri primi interlocutori con il quale confrontare la pertinenza delle nostre proposte. Il suo rapporto con l’arte è d’ordine filosofico tanto quanto estetico. E’, per noi, un personaggio essenziale perché lascia una libertà totale al progetto in termine di contenuto e d’orientamento ma è sempre presente per le decisioni importanti.

E.C.: Parliamo del luogo. Gli architetti hanno voluto trasformare la severa e, al meno all’apparenza, rigida architettura fascista del Palais de Tokyo in uno spazio aperto, vivo e vivace come – avete scritto – la piazza Djemaa-el-Fna di Marrakech. Non ti sembra una  forzatura?                                                                                                                                                                                      M.S.: L’edificio del Palais de Tokyo è tutto il contrario di un’architettura rigida e severa. Al meno nello stato in cui l’abbiamo trovato dopo il suo completo smembramento interno. È apparso, allora, come un vasto territorio aperto e disponibile a tutti gli usi. Nello stesso tempo forum, atelier, luogo di spettacolo, piattaforma aperta a tutti gli interventi, il lavoro degli architetti è stato definire come questo spazio poteva portare qualcosa di più a ciò che si andava mostrando, all’attività che si andava svolgendo, agli individui che l’avrebbero vissuta. Djemaa-el-Fna è un mito. Quello di una piazza che si inventa attraverso il gesto stesso degli uomini, man mano che il tempo passa. Senza mai nulla di bloccato, nulla di definitivo, in totale trasparenza e nella convivialità degli estremi. Mai il Palais de Tokyo somiglierà a questa piazza di Marrakech, ma tutto è fatto per tenderci, tutto è fatto perché il modo di vivere questo luogo possa farvici pensare, anche solo per un attimo, come un referente poetico e virtuale.
Il Palais de Tokyo deve vivere delle sue contraddizioni. Noi dobbiamo farne una forza. Dobbiamo evitare che il luogo dia forma alle opere, dobbiamo trovare una via mediana tra il dolce conforto del lusso e la libertà selvaggia della terra incolta. Il luogo si costruisce man mano che si utilizza. È la sua frequentazione che gli dà forma, è il suo uso che determina la sua funzione. Il Palais de Tokyo è stato volontariamente aperto al pubblico prima di essere ultimato. Come una volontà architettonica e culturale. Si costruisce passo dopo passo, tra le esitazioni e il dialogo, senza ostentazione e con volontà. Sappiamo verso cosa andiamo, ma lo scopriamo ogni giorno.

E.C.: Quando dite di voler eliminare qualunque intervento estetico mi viene in mente l’ultima Biennale di architettura che Fuksas ha voluto sotto il segno di “less aesthetics, more ethics”. Si tratta di un riferimento solo casuale?                                        M.S.: L’intenzione degli architetti non è stata di eliminare ogni elemento estetico ma di definire le priorità. Siamo in un luogo che si trasforma ad ogni intervento d’artista. Deve essere dunque disponibile, pronto a tutto. Non deve essere pre-formato da un intervento estetico visibile e identificabile in quanto tale. È “nella condizione” come è stato trovato. La differenza può sembrare sottile e, soprattutto, non valida perché questo stato originario definisce ugualmente un’estetica, ma non è “volontaria”, può essere rimessa in discussione ad ogni intervento. Tutto è sistemato come se il luogo non abbia altra forma che quella di uno stato anteriore senza importanza. Ciò che conta è il progetto che ci si sviluppa, la vita che ci si crea, le azioni che rende possibili. Nella citazione di Fuksas, sostituirei dunque “ethics” con “life”.

E.C.: La parola chiave che avete utilizzato è “disponibile”, “apertura a tutto”, come pensate di raggiungere questi obiettivi?            M.S.: Questo obiettivo si raggiunge nel quotidiano. Attraverso il comportamento di chi conduce questo luogo. Non è molto difficile essere aperto e disponibile quando si è un’istituzione poiché molto rare sono quelle che lo sono. È sufficiente dunque fare un piccolo sforzo! Ma per essere più seri, direi che cerchiamo di essere attenti ai ritmi della creazione contemporanea. Come presentare l’opera che sta per realizzare un giovane artista se il programma delle mostre è completo per i prossimi tre anni? Come ricevere delle proposte se non si offre l’immagine di un’istituzione aperta? Speriamo dunque, per esempio, che la pianificazione della nostra programmazione ci permetta di realizzare una mostra in tempi molto brevi. Ci sforziamo di studiare e accogliere tutti i progetti di artisti che ci vengono proposti. Desideriamo affermare che la giovinezza non è questione d’età e, per questa ragione, esponiamo Louise Bourgeois insieme a Ed Templeton o Frank Scurti. Lavoriamo con ciascun artista in maniera specifica, per produrre opere nuove o realizzare un progetto che non potrebbe sussistere altrove. La disponibilità e l’apertura devono manifestarsi nei minimi dettagli ed essere sempre riattivate E’ un vero lavoro nel quotidiano ed è questo che dà senso al progetto del Palais de Tokyo.

E.C.: Chi e come vengono scelte le attività e gli artisti che  presentate?   
M.S.: Abbiamo messo a punto un modo di lavorare e di prendere decisioni che è aperto e sottoposto a dibattito. La stessa funzione direttrice, incarnata da due persone al posto di una sola, mostra che il dibattito e il contraddittorio è presente all’interno stesso della funzione di direttore. Così è per il resto della catena delle decisioni. Tutto si discute, si tratta, è proposto al dibattito prima che la decisione sia presa. Naturalmente i direttori orientano le scelte secondo la propria sensibilità ma l’équipe ha il potere di rifiutare un progetto che propongono come invece ha la facoltà di proporne. Ciascuno s’impegna e il Palais de Tokyo non parla con una sola voce ma con quella di tutta un’équipe.
Per quanto riguarda gli artisti, le scelte sono soggettive e il programma si costruisce nella diversità. Nessuna direttiva ci è imposta, la libertà di programmazione è totale e non è che il riflesso del nostro impegno.

E.C.: Il Palais de Tokyo, nato sotto le ali del Ministero della Cultura e della Comunicazione, è un luogo istituzionale che però vuole porsi fuori l’istituzione?                                                                                                                                                                            M.S.: Il Palais de Tokyo è gestito da un’associazione, e questo gli conferisce una grande libertà di gestione e una grande flessibilità amministrativa. E’ posto sotto la tutela del Ministero della Cultura che versa una sovvenzione per il suo funzionamento pari circa al 50% delle risorse e che è il proprietario dell’edificio che lo ospita. L’altro 50% necessario per completare il budget per il funzionamento deve essere reperito con le proprie forze: incassi per gli ingressi, paternariati, mecenati privati e d’impresa, affitto degli spazi, ecc. Questo statuto amministrativo è un pegno per la libertà perché dimostra che il Palais de Tokyo è in grado di produrre importanti iincassi. Il personale è preso a contratto dall’associazione, e questo permette una completa libertà di reclutamento e di adattamento dell’équipe al progetto. Inoltre, come ho già detto prima, non c’è alcuna ingerenza da parte dell’autorità di tutela nella programmazione. Tutto ciò naturalmente inserisce il Palais de Tokyo talvolta sul terreno delle istituzioni talaltra su quello delle strutture autonome. Certamente, l’eventuale revoca dello Stato condurrebbe inevitabilmente all’interruzione del progetto ma, d’altra parte, l’impegno unicamente dello Stato non permetterebbe di realizzarlo. È quindi necessario intenderci e questo rende la situazione piuttosto dinamica.

E.C.: Avete pubblicato un libro, dalla grafica minimalista che ricorda i pixel dei pc, che raccoglie le risposte ad una sola domanda rivolta ad un vasto pubblico dell’arte: “Qual è il ruolo dell’artista oggi?”. Cosa è emerso da questo sondaggio e qual è stato il criterio di scelta dei vostri interlocutori?                                                                                                                                        M.S.: Questo libro non è un sondaggio. Abbiamo semplicemente desiderato affrontare una questione fondamentale in un modo diverso. In effetti, il libro di cui parli è il secondo. Il primo, pubblicato nel giugno 2000, poneva la domanda: “Che vi aspettate da un’istituzione artistica del 21° secolo ?”. Abbiamo fatto questa domanda nel momento stesso in cui preparavamo l’apertura del Palais de Tokyo. Come per verificare se il nostro progetto avrebbe incontrato le aspettative del pubblico. La condizione era di rispondere brevemente, come per provare che si può rispondere semplicemente ad una domanda complessa. Per scrivere come si parla. E siccome questa domanda è stata posta a centinaia di persone, tutte legate, in tutti i modi possibili, al mondo della cultura, il risultato è stato un panorama stupefacente di diversità, d’invenzione, d’immaginazione. Poi abbiamo desiderato porre una seconda domanda che, questa volta, trattasse del ruolo dell’artista oggi. E da qui è uscito il secondo libro, pubblicato per l’apertura del Palais de Tokyo, nel gennaio 2001. Questi due libri sono stati una sorta di manifesto del modo in cui noi desideriamo affrontare certi problemi: dando la parola piuttosto che prendendola, privilegiando un approccio differente ai problemi, più aperto, meno accademico. Certamente queste questioni avrebbero potuto essere trattate altrimenti, in profondità e privilegiando l’analisi. E’ anche quello che facciamo pubblicando libri di base che affrontano il lavoro degli artisti con rigore e critica. Ma questi due libri, che abbiamo chiamato “Tokyobooks”, pubblicati nel momento in cui il Palais de Tokyo stava nascendo, sono stati importanti per noi. E sono dei bestsellers! Ora stiamo preparando la terza edizione!

Per rispondere alla tuo quesito sul criterio che abbiamo utilizzato per scegliere a chi andava rivolta la domanda, direi che è stato altamente soggettivo e aleatorio. Tutto si è basato sugli incontri: musicisti, architetti, artisti, scrittori, stilisti, poeti, la maggior parte sono persone che abbiamo incrociato durante la preparazione del libro, ai quali, tra le pieghe di una conversazione, è stata rivolta la piccola domanda. Altri erano più lontani e siccome avevamo voglia di sentire anche la loro risposta abbiamo fatto in modo d’incontrarli. È importante capire che questi libri sono stati fatti in maniera molto naturale, come un gioco, con, all’inizio, solo una vaga idea di dove volevamo arrivare.

E.C.: Che risonanza ha avuto a livello internazionale l’iniziativa di aprire un “luogo della creazione contemporanea” non solo nel mondo dell’arte, ma più in generale nel pubblico?                                                                                                                                M.S.: Il Palais de Tokyo era molto atteso. Ne siamo rimasti sorpresi noi stessi perché non abbiamo avuto alcuna campagna pubblicitaria preliminare. Tutto si è fatto con un passa parola. Poi, all’apertura c’è stato un vero dispiegamento umano! Dieci mila persone al giorno durante la prima settimana! Certamente tutto ciò si è poi presto placato ma, a tutt’oggi, dopo più di un anno di attività, la media della frequenza è di circa mille persone al giorno. Che è molto per un luogo dedicato solamente alla creazione contemporanea la più avanzata che, per il grande pubblico, non è di facile accesso. Perché una delle particolarità del Palais de Tokyo è di mescolare veramente ogni tipo di pubblico, di tutte le età e di qualunque formazione. Una recente inchiesta analitica ci ha mostrato che, in linea generale, le reazioni sono molto nette: si adora o si detesta; si torna spesso o non ci si rimette più piede. Il luogo ha una forte personalità e mette un po’ il pubblico alla prova. È proprio quello che vogliamo: che l’incontro lasci delle tracce, che sia entusiasmo o che sia disgusto, ma che soprattutto non lasci indifferente!

E.C.: Quali i programmi per il futuro?                                                                                                                                                           M.S.: Il programma per il futuro è vasto! Raggiungere i nostri obiettivi, riuscire nell’impresa e provare che abbiamo ragione a crederci. Non lasciarci colpire dalle critiche più di tanto. Soddisfare gli artisti. Soddisfare il pubblico. Essere noi soddisfatti. Già questo è molto!
Per arrivarci abbiamo un programma denso e impegnativo: molti progetti di personali per mostrare l’attualità degli artisti, qualche mostra tematica per avere uno sguardo sul presente, molti eventi puntuali, una boutique che apre presto e che non sembra una boutique, pubblicazioni, dibattiti, musica, per farla breve, qualcosa di cui occuparci ancora per un discreto periodo di tempo.