Nell’intervista raccolta da Francesca Alfano Miglietti nel 1997, rispondendo alla domanda sulla differenza di sensibilità, rispetto ai problemi sociali, tra artisti di nazionalità mista ed artisti con un’unica nazionalità Sükran risponde: “Le persone troppo legate alla propria terra , alla propria nazione, in molti casi rischiano di vivere conformisticamente (…) invece gli artisti che hanno il coraggio di spostarsi – sia fisicamente che psicologicamente (essere nomadi è più un fatto psicologico) hanno più chances di non essere bigotti, ma anticonformisti e “scomodi”.
Patrizia Mania nel saggio L’esperienza interiore individua due grandi filoni, la disperazione e la speranza, ai quali ricondurre l’intero percorso dell’artista. Molti dei lavori di Sükran Moral sono fisici, di una materialità sorda, assoluta, sembrano aggiungere una dose di sfacciata intensa drammaticità al surplus di realtà che esibiscono e si pensi a Speculum, Manicomio, Dolore, Zina; al contrario, altri anelano alla leggerezza, alla levità, ad una vaporosa perdita di gravità, a un’ascesi spirituale, come Hamam, Bülbül e Despair mostrano chiaramente. Nel suo saggio Domenico Scudero ricorda un’azione che lo ha visto coinvolto accanto all’artista turca: “mi avvicinavo alla platea del pubblico e chiamavo ad alta voce Sükran Moral. Lei appariva da un soppalco, come al solito agghindata al suo modo da diva oscura e inquietante dal passo felpato (…) allora le chiedevo: Sükran Moral cosa vuoi dire sulla storia dell’arte? A quel punto iniziava a parlare ad alta voce, ma soltanto in turco (…) Appena smetteva l’arringavo di nuovo: va bene, d’accordo, ma allora cosa ne pensi della storia dell’arte?” Scudero si rammarica di non possedere la documentazione della performance, che egli considera la prima intuizione dell’artista attraverso il percorso che va dalla serie Diffidate della Storia dell’arte a Espulsa e a tutta la produzione di radicalità performativa concettuale che è nella matrice linguistica più inerente al carattere dell’artista.