Caratteri, linguaggi e materiali diversi, ma alleati da tempo, entrano in dialogo rispondendo alle sollecitazioni dei luoghi espositivi. L’opera materica e biomorfa della Koivisto, realizzata con pelli animali, risultava chiaramente site-specific in Scandinavia mentre le serie fotografiche della Peill, ritoccate con tecniche miste, hanno come soggetto gli studenti che abitano la stessa città universitaria in cui la mostra ha luogo.
Il gioco dialettico fra due artiste e fra lavori così diversi resiste efficacemente anche ai sottili rimandi ai diversi contesti e propone una serie di chiavi di lettura sintetizzati dalle tre parole: pelle, forma, mappa. Pelle come soggetto dell’immagine e come superficie e spessore fisico dell’opera; forma come interesse alla costruzione di un immagine totale per parti strutturate o suturate; mappa come itinerario antropologico costruito dalle immagini e come iconografia formalizzata dalla pelle.
Kaisu Koivisto nata nel 1962, vive e lavora a Pori (Finlandia).
Claudia Peill nata nel 1963, vive e lavora a Roma.
In occasione della mostra viene presentato un catalogo con testo in inglese, italiano e finlandese, e con immagini in b/n e a colori.
La mostra è realizzata in collaboarazione con l’Institutum Romanum Finlandiae, Roma; lo Studio Gianluca Lipoli, Roma; l’Istituto Italiano di Cultura, Helsinki.
E inoltre grazie a Suomer Taideakatemian Säätiö e Finnair.
La mostra resterà aperta dal 5 al 25 novembre 2001.
La mostra di Claudia Peill e Kainu Koivisto, inaugurata presso il MLAC dell’Università di Roma La Sapienza presentata da un testo del curatore. Il catalogo è disponibile presso il MLAC.
dal 5 novembre al 25 novembre 2001
kaisu koivisto > claudia peill
pelle > forma > mappa
di Augusto Pieroni
Cosa potrei mai dire della superficie, cioè della pelle di due lavori all’apparenza così distanti? Come potrei mai rendere più credibile la mia scelta di presentare e fondere due linguaggi, due mondi, tanto divergenti e impossibili da considerare come parti di un tutto? La cultura mediterranea d’Italia e quella baltica di Finlandia non sembrano avere molto in comune e tuttavia proprio questo rende interessante la loro coabitazione e il loro confronto. Laddove tecniche e temi divergono lì ci è dato di apprezzare l’intreccio di due canti, anziché semplici dissonanze. Se a semplificare il problema non basta la comune appartenenza al genere femminile e ad una stessa generazione, allora inizia per noi un interessantissimo gioco di abilità. Ulteriori problematiche sorgono al calarsi di questa mostra in un contesto finnico e solo poi italiano.
Ma risposte a simili domande – semmai se ne dovessero dare – andranno diluite nel dipanarsi di questo testo; e tuttavia non farò giustizia delle contraddizioni nelle quali credo risieda il senso del far arte e del vivere stesso. Lasciando da parte le note a margine, o piuttosto evocando l’arte attraverso le immagini, vorrei concentrarmi sui lavori e i linguaggi delle due artiste tentando di lasciar interagire gli elementi assonanti con quelli dissonanti. E così anche la mia partitura verrà eseguita.
Divergenza A
Da un lato è evidente quanto le installazioni fotografiche di Claudia Peill muovano una costante indagine sull’identità. Fotografando i volti e i corpi di persone l’artista ci mette nell’istintiva posizione di colui che vuole, senza speranza, identificare “chi” sia quello nella foto. Ma la Peill taglia, sfoca, rimpagina e duplica l’immagine sia sullo stesso foglio che nell’intera serie – sia essa un dittico o un trittico o di più. Così lei costruisce l’immagine totale per pezzi disilludendo ancor più la nostra aspettativa di esattezza nell’immagine. Cornici quadrate di metallo grigio scuro opaco, resine trasparenti date a pennello e campi di noncolore bianco o nero, tutti questi elementi completano e danno ritmo al lavoro, sottolineando la griglia visiva che regge la costruzione di un’immagine: il fatto complesso di fare semplicemente una foto. Questa forma d’arte cospira ovviamente con le vocazioni e le virtù della fotografia – come campo discorsivo e tecnico – tanto quanto con preoccupazioni pittoriche, installative e spaziali. Al tempo stesso però la Peill, mentre costruisce un evidente alfabeto di forme modulari, mette sotto processo la nozione di identità. Il suo lavoro smembra l’unità dell’immagine e la riinclude in una nuova forma fatta di textura, luce, peso. Quanto al colore, Claudia ha iniziato a stendere a volte una pelle di tono vivace, ma trasparente che riporta le forme alla loro genesi mentale. La struttura necessaria della sua arte ospita la realtà mutevole filtrata coerentemente dallo stile.
Divergenza B
Da un altro canto riconosco a Kaisu Koivisto un fortissimo senso scultoreo e installativo, la capacità di tradurre in segni ogni oggetto biologico. Al tempo stesso l’artista focalizza così intensamente lo sguardo sugli animali che questi da soggetti di arte di genere, divengono esseri reali pronti a incorporare ogni tipo di riferimento simbolico, tranne quelli tradizionali. Gli animali divengono metafore delle relazioni umane con la natura e la cultura verificando l’ambiguità dei concetti che la civiltà occidentale vi annette. Nel lavoro della Koivisto gli scarti animali sono usati spesso e combinati come elementi modulari infinitamente modificabili, specie nella loro intersezione con i siti espositivi. La Koivisto elabora nuove creature senza nome od oggetti privi di ogni uso convenzionale inducendo così sentimenti instabili fra disturbo ed eleganza. Direi che la giovane artista finlandese perlopiù usi lavorare con fantasmi: ogni oggetto infatti risuona di varie vite precedenti: prima come parte di un animale, poi come riarrangiamento commerciale umano di tali materie prime. Materiali così pesantemente connotati si riferiscono direttamente al ruolo giocato dagli animali entro le società civili e al di là dei loro confini. Mentre ne esauriamo le riserve di energia – pellicce, carni, pelli, grassi, corna – raramente ci rendiamo conto della loro presenza attiva nella nostra quotidianità. La Koivisto inserisce una sensibilità, a volte anche ironica, a questi temi nel proprio temperamento artistico senza per forza tradurre proclami animalisti in installazioni poveriste.
Note chiave
Fare foto – sia esso all’Università “la Sapienza” o al mercato interetnico di Piazza Vittorio a Roma – costringe Claudia Peill a non farsi notare lasciando che la gente viva la propria vita senza posare per lei, né contro di lei. La lente e l’otturatore allora catturano dei particolari ravvicinati in bianco e nero di ogni tipo di segni di identificazione: dai segnali di un’intera generazione, ordinari e transnazionali: cinture, anelli, pettinature o piercing, fino a segni distintivi strettamente etnici. Tutti questi minuti particolari granulosi formano una sorta di mappa dei molteplici flussi delle identità: etniche, regionali, culturali, comportamentali, personali. Ma la macchina fotografica fissa anche sguardi teneri, bocche aperte nel dialogo, matite di studio ora utili a tener su una crocchia. Questo risultato da solo sarebbe però troppo diretto. Per rendere forma queste prove, tradurre gli indizi in sezioni e i frammenti in porzioni ci vuole un gran travaglio decostruttivo. Il lavoro finito risulterà dal riassemblaggio di parti di queste immagini in una sequenza in cui il colore apparirà solo dall’esterno dell’immagine: i suoi codici culturali potrebbero alterare la superficie del lavoro e la sua tensione. La pelle degli individui, trapassata da anelli, nero ebano sotto turbanti candidi, esibita sotto corti top, rasata sulle teste dei giovani, tanto importante quanto quella del lavoro, con la sua miscela attenta di pittura, plastica e fotografia in ogni passo del processo: dallo scatto alla frenetica attività di camera oscura, dall’accoppiamento delle immagini al loro assemblaggio fino alla cornice e all’installazione in sito.
Uno dei materiali di base per Kaisu Koivisto la pelle animale, perlopiù col vello. Potenzialmente quindi il suo discorso potrebbe vertere sui beni di lusso come le pellicce e gli articoli in pelle. E invece le sue sorgenti sono i mercatini delle pulci e i mattatoi. Attraverso le sue strutture così elegantemente formalizzate l’artista infatti mette in luce il rapporto spesso violento che ci lega agli animali. I beni di lusso al contrario non hanno anima e hanno perso la memoria. Riflettono solo il loro incredibile valore e di conseguenza il loro forte potere sociale. L’artista finnica sottrae i resti animali al loro percorso codificato – sulla soglia del loro consumo totale e della morte – arrestando ma non cancellando i segni del decadimento: sono quelli la parte più importante. Nei suoi lavori eleganti e ironici le pelli creano mappe per tutti quei territori in ombra dove aleggiano fatti brutali e memorie represse. Gli animali non sono più i protagonisti delle favole: la favola ancora fittizia quanto lo è un’opera d’arte, ma dietro nasconde un profondo sentimento della vita. Materiali consunti combinati con elementi contemporanei come l’acciaio, la plastica e tessuti, divengono strutture sinuose e biomorfe, spesso domestiche e divertenti o apparentemente funzionali, che rimandano ovviamente alla tradizione razionalista seguente ad Alvar Aalto. E però la bellezza dell’arabesco, la regolarità delle forme semplici bilanciano oggi la shockante verità dei materiali. I sovratoni antropologici, attentamente filtrati quando non rimossi dai maestri razionalisti e minimalisti, tornano ed esplodono nel lavoro di Kaisu. Questa spinta verso il lato oscuro della natura è il suo contributo più originale alla propria forte tradizione formale.
Linee di fondo
La pelle come un vestito.
La pelle come la soglia fra l’abito e la carne. Spesso entrambe le cose insieme.
La pelle del lavoro e quella della nostra identità.
La pelle come mappa di un viaggio a ritroso nel tempo alla ricerca della verginità perduta da sempre dalla civiltà occidentale.
La pelle come il soffice territorio che percorriamo soprappensiero dimenticandone il carico di esperienza, la polvere di vita e morte che grida da dentro i suoi marchi e le sue ferite.
La pelle come un potenziale archivio invisibile di segni di identità.
La pelle come la pergamena originaria sulla quale sono disegnate tutte le mappe.
Le mappe come geografie dell’esistenza.
Le mappe come astratte sinossi generali.
Le mappe non somigliano mai alla vita, sono forme di vita in sé.
Le mappe amministrano il diritto di appartenenza, non il suo senso.
Le mappe riassumono le differenze, equalizzano i conflitti, arrotondano gli angoli, spianano altitudini e sprofondi.
Le mappe come regolamenti e valori traslati in linee, segni, bordi, colori.
Le mappe testualizzano i percorsi e traducono la vita in forme.
Un testo è una partitura: un gioco pubblico, la messa in atto di una serie di variabili, eseguite fingendo che tutto abbia senso. Il testo una sequenza, una catena di pensieri in forma, una mappa che mappa il suo autore prima del proprio oggetto. E però al lettore non sono date verità, solo certezze. Di fronte al lettore il testo è la pelle completamente tatuata di un autore nudo. E l’autore è tuttavia un attore: che gioca al serpente, pronto a cambiare di nuovo pelle.













Dall’alto:
1. Meret Oppenheim (1913-1985) L’cureuil, 1960
2. Mario Giacomelli (1925-2001), Scanno, 1957
3. Daniel Spoerri (1930-), Restaurant de la City Galerie, 1965
4. Mike and Doug Starn (1961-) Convex Cloud, 1991
5. Rebecca Horn (1944-), The Cellar, 1981
6. Pascal Kern (1952-), Sculpture, 1997
7. Alvar Aalto (1898-1976), vaso Savoy, 1936
8. Paolo Gioli (1942-), Torso, 1983
9-12. Claudia Peilli. Installazione al MLAC, novembre 2001
13-19. Kaisu Koivisto, Installazione al MLAC, novembre 2001