Lunedì 6 aprile alle ore 18:00, presso la sala multimediale del MLAC – Museo Laboratorio di Arte Contemporanea, Sapienza Università di Roma, si inaugura 5 tavoli al MLAC, un laboratorio di ricerca sul rapporto tra cura e critica del lavoro artistico, a cura di Aurelio Andrighetto e Domenico Scudero.

I collegamenti tra l’arte e i saperi, che la scrittura critica rende visibili, diventano evidenti anche nella cura espositiva, quando la critica è solidale con la cura integrandone i processi. L’esito finale della cura integrata dalla scrittura critica non sarà la semplice esposizione di opere ma di rapporti articolati e complessi. L’esposizione sarà quindi la forma attraverso la quale rendere visibili tali rapporti.
Cinque tavoli al MLAC esplora le possibilità di questa forma ricomponendo i materiali e le idee già raccolte in # 3 KBW (www.warburghiana.it).

La ricomposizione sui tavoli del MLAC, aiutata da un uso libero e fluido della tecnologia elettronica, avverrà ininterrottamente dal 6 al 24 aprile. Una maratona alla ricerca di una forma che è al contempo, come scrive Malcolm McLaren riferendosi ai suoi nuovi brani musicali, meaningless and meaningful.

McLaren, nel suo contributo, illustra la tecnica del cut-up da lui usata per creare ritmi e atmosfere e suggerisce una prima traccia di lavoro. Altre saranno proposte dai curatori nel corso di questo esperimento espositivo, che prenderà il via nel momento stesso della sua inaugurazione coinvolgendo attivamente gli studenti dei Master in Curatore e il pubblico. I visitatori potranno così sperimentare nuovi modi di esporre le relazioni tra le idee e i materiali già raccolti in # 3 KBW.
Saranno disponibili per i 5 tavoli al MLAC: un estratto da The last silent movie di Susan Hiller, un adattamento di First travels in the 3rd Millennium di Philip Corner e Manuel Zurria, una nuova versione di Is this guilt in you too? (Study of a car in a field) di Ryan Gander, tre fotografie della performance Magneto di Cezary Bodzianowski, la serie fotografica Timeline di Jorge Molder, la documentazione di un workshop di Studio Azzurro con un gruppo di studenti, due estratti da E.S.P. di Melvin Moti. Verranno presentati anche i lavori di Mariella Bettineschi, Gianluca Codeghini e Jenny Magnusson che hanno gentilmente concesso la courtesy. Tra i materiali anche un contributo dello storico dell’architettura Joseph Rykwert, intervistato dall’artista Dario Bellini (estratto da Qui, forse! note sulla città). La storica dell’arte Paola Mola, il critico d’arte Elio Grazioli, il critico cinematografico Bruno Fornara hanno generosamente contribuito con un intervento originale; Marco Belpoliti con un suo articolo sulla distinzione tra “attuale” e “contemporaneo”. Completano due contributi di ricercatori scientifici: Howard Gardner, Professore di conoscenza ed educazione alla Harvard Graduate School of Education, risponde a un quesito sul rapporto tra percezione visiva e linguaggio; Olaf Blanke, direttore del laboratorio di neuroscienza cognitiva presso la Ecole Polytechnique Fédérale di Losanna, propone due studi sviluppati dal suo gruppo di ricerca. Infine il contributo di Malcolm McLaren che suggerisce la prima traccia di lavoro per la ricomposizione dei materiali e delle idee sui tavoli del MLAC.

L’evento fa parte del ciclo espositivo del MLAC diretto da Simonetta Lux e curato da Domenico Scudero, realizzato con il contributo della Regione Lazio per la ricerca “Applicazione nuove tecnologie multimediali arte contemporanea” e con il sostegno della Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università La Sapienza.
L’evento è realizzato con la collaborazione di Roberto Crippa e Claudia Bianchi.

La mostra 5 tavoli al MLAC  è stata allestita dagli studenti del Master di I livello in “Curatore di Arte Contemporanea: metodologie e pratiche dell’organizzazione completa dell’evento artistico” e del Master di II livello in “Curatore di Arte Contemporanea”. Pubblichiamo di seguito i resoconti della loro esperienza curatoriale.

La mostra resterà aperta dal 6 al 24 aprile 2009.

 

Per caso… un gomitolo rosso.
di Silvia Bucchi

Materiali di svariato genere, testi, serie di immagini, fotografie singole, video, interviste, lettere, commenti… Questo è stato il punto di partenza. E la direttiva: riunirli attraverso connessioni di senso. Le nostre connessioni. Ci si è posto così un duplice problema. Il primo: sulla base di quale o quali criteri ricercare tali nessi di significato? Il secondo: come dare a tutto questo la forma di un evento espositivo concreto e fruibile?
Forse perché sembrava più semplice, forse perché più divertente (dato che era tutto da creare da zero), si è deciso di partire dalla questione pratica, ovvero l’allestimento.
La prima idea è stata di appendere le serie di fotografie (di Jorge Molder e Ryan Gadner) al soffitto con un filo invisibile, per rendere la consequenzialità delle immagini e per l’effetto estetico. Ma non ci sono fili invisibili in dotazione al Museo Laboratorio, solo…un gomitolo di filo di cotone rosso.
Ed ecco all’improvviso l’idea che ci convince tutti: collegheremo i materiali che ci hanno sottoposto non solo per connessioni concettuali, ma anche concretamente.
Un vero e proprio fil rouge che mostri visivamente i collegamenti tra frasi e immagini.
A questo punto restava da scegliere quali testi utilizzare per la mostra. Abbiamo scelto le frasi e le immagini che più ci hanno colpito singolarmente e ci siamo confrontati per restringere la selezione e trovare un comune accordo. Ci troviamo così nuovamente al fulcro della mostra: la ricerca dei collegamenti dei concetti e delle immagini. E come se si trattasse di un processo a metà tra brainstorming e libere associazioni, abbiamo sparso le frasi stampate in italiano ed in inglese a terra e ne abbiamo scelta una da cui partire. In questo modo, una dopo l’altra, abbiamo legato tutte le frasi e le parole fino a formare due serie distinte da collocare lungo le pareti. I legami di senso sono arrivati uno dopo l’altro, senza un tema o un criterio precostituito. E dalle due serie sono nate connessioni differenti per le stesse frasi che, collegate in modo diverso, acquistano nuovi significati. Allo stesso modo la disposizione è stata fatta un po’ per caso, un po’ con criteri geometrici di simmetria ed asimmetria, un po’ con trovate divertenti ed un po’ con attenzione all’effetto estetico e visivo. Sempre procedendo passo dopo passo, man mano che si lavorava, senza uno schema pensato in anticipo e poi riprodotto. Infine, abbiamo suggellato la nostra installazione a parete con il filo rosso, lasciandolo però pendere a terra per lasciare visivamente aperta la serie di connessioni e parole.
Seguendo lo stesso principio abbiamo collocato le frasi stampate (le stesse che abbiamo collegato a parete) sparse sui tavoli nella stanza (i cinque tavoli che danno il nome alla mostra), insieme a cinque gomitoli di filo rosso, disteso o arrotolato, ma sempre con un’estremità pendente fino a terra.
È un invito esplicito al pubblico a creare da sé le proprie connessioni di senso tra i testi, poiché queste non sono mai univoche né definite una volta per tutte. Ognuno pensa in modi differenti dalle altre persone: proprio per questo ognuno deve essere libero di interpretare a suo modo le connessioni create da noi, ma anche di creare da sé i propri collegamenti.
Come afferma Howard Gardner nella lettera di risposta ad Andrighetto: “Non pensiamo tutti come Galileo, Aristotele, Andrighetto e Gardner, ed è probabilmente un vantaggio che sia così”. Ciò che rende interessante il confronto e la discussione tra le persone è, infatti, la diversità delle idee e delle opinioni. Per questo tale affermazione è diventata il simbolo emblematico della mostra ed è stata collocata fisicamente sui due pilastri centrali, legati tra loro attraverso una ragnatela di filo rosso, intricata ma sempre aperta, che accoglie i visitatori appena entrati.
I tavoli con i fogli sparsi, legati tra loro con il filo rosso come elemento sempre presente, rendono visivo e visibile l’intento da cui è partita questa mostra-laboratorio: tavoli di discussione intorno ai quali le persone si confrontano e discutono, espongono le proprie idee e cercano di portarle verso un punto di congiunzione per creare qualcosa insieme.
L’evento, infatti, non sta nel risultato espositivo raggiunto alla fine, ma in tutto ciò che è avvenuto tra di noi prima: la presentazione dei materiali, il confronto alla ricerca di idee sull’allestimento, ed anche la vera e propria fase di montaggio della mostra. Una mostra come processo, come scambio di idee, come costruzione progressiva, con possibili e continue variazioni in itinere. Ed è questo che abbiamo voluto rendere visibile attraverso il filo rosso, un oggetto semplice e comune che diventa simbolo e metafora delle motivazioni alla base dell’esposizione e dell’intero processo che ha portato ad essa.

5 tavoli al MLAC
di Diego Marchi

5 tavoli al MLAC è un progetto ideato da Aurelio Andrighetto eDomenico Scudero che prevede una rielaborazione, da parte di noi studenti del master in “Curatore di arte contemporanea” dell’università “La Sapienza”, dei materiali e delle idee di #3KBW(www.warburghiana.it).
La finalità di tale progetto è quella di creare nuove relazioni e nuovi collegamenti tra i dati preesistenti attraverso le nostre interpretazioni, seguendo il metodo warburghiano di accostamento per associazioni di idee.
Abbiamo così estrapolato frasi dai vari testi inclusi in #3KBW, estraendole dai loro contesti per creare nuove relazioni e concetti, dando nuove chiavi interpretative.
Oltre a queste frasi abbiamo utilizzato due video e vari still frame collegando il tutto tramite uno spago rosso, vero protagonista della mostra. Questo spago non è altro che il filo mentale che unisce le varie parti della mostra secondo la nostra visione interpretativa. Con tale spago abbiamo anche scritto sul muro la parola Ermeneutica, appunto la scienza dell’interpretazione, ciò che sta alla base di tutto il progetto.
Il fatto che in questo articolo non abbia accennato affatto ad alcune delle relazioni e delle associazioni di idee da noi stabilite non è un caso, poiché le interpretazioni sono personali e ognuno elabora i dati secondo la propria sensibilità e il proprio modo di vedere; proprio per questo abbiamo deciso di far cadere a terra da ogni tavolo dello spago rosso, così da invogliare il visitatore a fare le proprie di relazioni e connessioni e a dare la propria chiave interpretativa della mostra, perché come scrive Howard Gardner, “Non pensiamo tutti come Galileo, Aristotele, Andrighetto e Gardner, ed è probabilmente un vantaggio che sia così.”

5 tavoli al MLAC
di Laura Laruffa

Quando Andrighetto si è presentato a noi studenti cerando di illustrare il progetto che aveva in mente, nessuno si è reso conto di cosa esattamente dovessimo fare.
Ci è stato detto che dovevamo ri-combinare lavori di genere diverso (testi, video, musica, fotografie) nella forma di un allestimento; un progetto pensato come un laboratorio creativo che sarebbe terminato con la realizzazione di una mostra, la forma ultima di una sperimentazione collettiva, una specie di esperimento sociologico.

Simbolo del lavoro di gruppo e spazio fisico su cui costruire, i nostri cinque tavoli nascono dall’idea del filo conduttorecomeespressione delle associazioni mentali, possibili a livello collettivo, ma identificabili davvero solo al livello del soggetto.

Le immagini di una macchina che, da puntino in mezzo alla neve, diventa soggetto della sequenza di still, sono inquadrate in una cornice di filo a cui è appeso l’audio, trascritto in parole.
Il suono, così, diventa sordo e si fa testo, continuando a mantenere un contatto con la forma originale, il lavoro di Ray Gander.
Il fil rouge ritorna poi, per legare le frasi di una mail, scambio di pensieri con uno studioso della mente come Gardner e passandoper il nome di Warburg, ci induce  a pensare che è solo una questione di punti di vista quella che riguarda i significati.
I giochi prospettici riguardano, ancora, le video proiezioni di Bruno Fornara, ombra dentro al film, mentre l’azione looppata dalle sequenza fotografiche di Jorge Molder regala movimento laddove ci sarebbe staticità e lascia spazio all’interpretazione dello spettatore  che si trova catapultato in una dimensione noir.

Quello che rimane è l’idea dei diversi punti d’osservazione all’interno di un range dai percorsi tortuosi e non sempre decifrabili, come quelli di una ragnatela.

5 tavoli al MLAC
di Simona Raho

L’allestimento della mostra ha interessato due gruppi di studio, il master di primo e secondo livello e, grazie al buon rapporto e alla complicità, il lavoro si è svolto in maniera veloce, facile e con un buon risultato finale.
Il lavoro è stato automaticamente suddiviso in alcuni punti fondamentali, primo fra tutti è la conoscenza di ciò che si voleva allestire per farlo nel migliore dei modi: abbiamo letto, sfogliato, osservato ed ascoltato il materiale che Andrighetto ci ha fornito, cercando una nuova lettura rispetto alle precedenti mostre, e cercando anche una chiave personale di rappresentazione.
Il secondo passo è stato la scelta del materiale: non tutto doveva essere esposto e soprattutto non tutto aveva bisogno di essere esposto, quindi in linea di massima il gusto personale ci ha fornito una rosa di idee, di cui le migliori sono state scelte per la mostra.
Quello che è stato concesso dal Museo Laboratorio è stato il luogo per l’allestimento, ossia uno spazio architettonico completamente bianco, come una tabula rasa dalla quale partire, una stampante, dei video proiettori e un bel po’ di filo rosso.
Il materiale a nostra disposizione consisteva in due video installazioni, immagini di opere e tante parole alle quali dovevamo dare un senso logico e logistico.
Il passaggio successivo, dopo la stampa di parole ed immagini, è stato quello della collocazione degli elementi: ragionando siamo riusciti a percepire che era necessario che qualcosa legasse questi elementi così diversi per materiale e senso logico (almeno apparentemente); bisognava trovare qualcosa che fosse comune a tutti, qualcosa che potesse creare un percorso.
La logica suggeriva la parola “ermeneutica” ma risultava un po’ scontata e banale; abbiamo cercato qualcosa che potesse divertire anche noi che stavamo lì a pensarci su e allora il filo rosso è tornato utile a tutti.
Posso dire personalmente che è a questo punto che la mostra ha iniziato a prendere “forma” perché attraverso i pochi materiali noi abbiamo creato un senso ed un’armonia delle cose che, arruffate tra loro, sicuramente non hanno.
Altro punto fondamentale è l’allestimento vero e proprio: il leit motiv della mostra è stato il filo rosso, il senso del collegamento e il percorso da seguire; ci siamo inventati una ragnatela tra i pilastri della struttura con una doppia funzionalità, quella di sorreggere l’opera e di incuriosire; abbiamo creato un ordine di alti e bassi con delle parole e dei pensieri posizionati sui muri, anch’essi collegati dal filo, che abbiamo lasciato morbido sul pavimento.
Questo ci è servito anche nella costruzione vera e propria della parola “Warburg”, ed è stato un utile collegamento tra le frasi sparse sui 5 tavoli che abbiamo allestito nel mezzo della sala.
La composizione finale del progetto ha previsto la sistemazione del materiale, delle video installazioni e dei tavoli.
Alla fine di tutto ciò, con buona sorpresa dei nostri professori del corso e con tanta soddisfazione, abbiamo pensato, costruito e realizzato il nostro primo progetto di gruppo.

Un laboratorio curatoriale: i 5 tavoli al MLAC
di Ersilia Rossini

Premessa
La mostra/laboratorio 5 tavoli al MLAC, a cura di Aurelio Andrighetto e Domenico Scudero, allestita presso gli spazi del Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea, è un’esposizione sperimentale, nel senso che il tempo della sua durata ha coinciso con quello della sua realizzazione. Punto di partenza della mostra è il rapporto stretto che deve sussistere tra cura e critica d’arte. La cura di un’esposizione non è soltanto mettere insieme e mostrare una o più opere di uno o più artisti, ma soprattutto trasmettere significati, saperi, conoscenze. Materiali di varia natura, sia veri e propri lavori artistici che scritti critici, già riuniti in # 3KBW (1), sono stati messi a disposizione dei visitatori e degli studenti del “Master in Curatore d’Arte Contemporanea”, i quali, nel corso della durata della mostra, hanno avuto modo di “assemblarli” e ordinarli secondo una propria interpretazione.

Metodo di lavoro e risultato finale
Innanzitutto si è fatta una selezione del materiale a disposizione. Si è scelto di utilizzare opere e scritti che potessero trasmettere nuovi sensi e significati, o che comunque potessero semplicemente far riflettere, se accostati l’uno all’altro. I lavori sono stati selezionati per i nessi, espliciti o nascosti, che è stato possibile rintracciare tra loro; si è cercato di “ascoltarli”, di farli “parlare” e poi, in base a ciò che essi esprimono, si è dato loro un ordinamento. Tra i lavori artistici scelti per l’esposizione vi sono le serie fotografiche Timeline di Jorge Molder e Is this guilt in you too? (Study of a car in a field) di Ryan Gander e il lavoro, intitolato Senza titolo, di Mariella Bettineschi. Per quanto invece riguarda gli scritti sono stati selezionati Vetri del critico d’arte Elio Grazioli, Fine all’inizioCommento alla prima fotografia di Rosso della storica dell’arte Paola Mola, Contemporaneo di Marco Belpoliti e la replica di Howard Gardner, professore di conoscenza ed educazione alla Harvard Graduate School of Education, ad un quesito di Aurelio Andrighetto. È stato inoltre inserito il video Bacio d’ombra, in cui il critico cinematografico Bruno Fornara dà una sua personale lettura di una scena di un film.

Ciò che unisce tutti questi materiali apparentemente così eterogenei – e anche quelli che non sono stati infine selezionati per l’esposizione – è il concetto di ermeneutica, di interpretazione: con le parole di Aurelio Andrighetto, «la ricerca ermeneutica del significato nascosto nel testo visivo, il rapporto di reciproca interpretazione tra immagine e parola, l’anacronismo storico, l’accostamento di argomenti disparati» (2), tutti peraltro «espliciti richiami all’opera di Aby Warburg» (3).

Le modalità scelte per l’esposizione delle opere sono varie, come d’altra parte gli stessi materiali. I lavori artistici veri e propri, principalmente opere fotografiche, sono stati o proiettati o stampati e poi fissati al muro. Per gli scritti l’operazione è stata più complessa. Innanzitutto si è scelto di utilizzare sia la versione italiana che quella inglese; poi sono stati selezionati i brani più significativi che sono stati infine stampati e assemblati, l’uno dopo l’altro, inglese e italiano, a creare nuovi sensi. A legare tutti questi elementi, fotografie, video e parole, un vero e proprio filo rosso, metafora dei nessi e delle relazioni che è possibile allacciare tra idee e materiali; tale filo ha inizio con il nome di Warburg, all’opera del quale si riferisce la ricerca alla base della stessa mostra. Infine, in primo piano, appena entrati, la citazione del professore Howard Gardner, tratta dalla sua risposta ad Aurelio Andrighetto – «non pensiamo tutti come Galileo, Aristotele, Andrighetto e Gardner, ed è probabilmente un vantaggio che sia così» – ci ricorda quanto le diverse e personali interpretazioni siano un’ancora di salvezza in una società oggi, purtroppo, sempre più omogenea e globalizzata.