REAL PRESENCE
Workshop internazionale per artisti emergenti
2001-2010
Belgrado, Serbia
A cura di Dobrila Denegri e Biljana Tomic

REAL PRESENCE, ormai celebre workshop per artisti emergenti ambientato fin dal 2001 e con cadenza annuale a Belgrado, a cura di Dobrila Denegri e Biljana Tomic, è giunto quest’anno alla sua decima e ultima edizione.
Dopo essere stata in Serbia ho chiesto a Dobrila Denegri di parlarne, raccontandone l’origine e le motivazioni, la sua evoluzione nel tempo e le caratteristiche che lo hanno contraddistinto e reso momento d’incontro e confronto sperimentale per la formazione di giovani artisti internazionali negli ultimi dieci anni.

Antonia Alampi: Ho pensato di iniziare questa conversazione chiedendoti il perché questa sia stata l’ultima edizione. Domanda che immagino sia legata proprio all’origine e alle motivazioni di REAL PRESENCE.
Dobrila Denegri: In effetti la conclusione è strettamente collegata alla nascita di questo progetto, che aveva a che fare con una situazione culturale/politica/economica/sociale ben precisa, che ha vissuto la Serbia negli anni ’90. Noi (Dobrila Denegri e Biljana Tomic, ndr) abbiamo iniziato REAL PRESENCE nel 2001, quindi all’inizio di un nuovo secolo, il che significava anche l’inizio di una nuova fase, la possibilità di una nuova era per un paese che per 10 anni è stato isolato, che ha vissuto un embargo culturale, e tutte le condizioni economiche e politiche che sono seguite alla dissoluzione della Jugoslavia e alla guerra sui territori della Bosnia e della Croazia.
Nel 2000 è avvenuto un cambiamento politico con la caduta del governo di Milosevic e l’inizio dei processi di democratizzazione. È stato un momento di grande euforia e di recuperata speranza. Credevamo che le cose sarebbero potute cambiare e trasformarsi in meglio anche sul piano culturale, ricollegando la Serbia con il resto del mondo. L’idea di REAL PRESENCE si è presentata veramente come un’esigenza ‘sine qua non’, visto che la Jugoslavia ha goduto di una vita culturale intensa, internazionale e molto aggiornata. Dopo una rottura decennale sentivamo il grande bisogno di ricostruire i ponti culturali storicamente presenti, ma soprattutto di affermare un’idea di apertura. In più, sentivamo il dovere di offrire alle generazioni emergenti, a coloro che si sono formati in un contesto opprimente e claustrofobico, l’occasione di conoscere più da vicino gli impulsi culturali esterni. Allo stesso tempo, attraverso una manifestazione veramente internazionale e aperta, volevamo contrapporci a tutti quei fenomeni di forte nazionalismo e xenofobia che la crisi degli anni ’90 aveva scatenato.
Su queste basi decidiamo, Biljana in particolare, di cominciare la ‘riabilitazione’ proprio da dove si erano arrestati i suoi impegni negli anni ’90. Lei aveva infatti lavorato per più di trent’anni in uno spazio che si chiamava proprio Centro Culturale degli Studenti (SKC, ndr) e che aveva sviluppato un programma di collaborazione con le accademie fin dagli anni ’70, già con Joseph Beuys che ha partecipato a un grande festival nel ’74, e che ha poi coinvolto l’accademia di Düsseldorf. Volevamo quindi riprendere questo rapporto con le accademie, che all’epoca si era fortemente consolidato; erano infatti venuti studenti che a loro volta erano diventati professori e che poi mandavano i loro studenti, quindi una specie di catena conclusasi proprio negli anni ’90. Nel ’91, prima della guerra, c’era stata l’ultima presenza di studenti stranieri, dalla Städelschule di Francoforte, che a quel tempo era diretta, insieme a Portikus, da Kaspar König. Ma da quel momento in poi tutti i rapporti internazionali ufficiali si sono chiusi. Per ricominciare abbiamo deciso di rivolgerci a tutti quelli che in qualche modo erano stati coinvolti da questi programmi a Belgrado e che a loro volta erano diventati insegnanti di diverse accademie europee. Per esempio Marina Abramovic, Jannis Kounellis che era a Düsseldorf, Michelangelo Pistoletto che era a Vienna in quel periodo, Klaus Rinke sempre a Düsseldorf, e dall’Italia professori dall’Accademia di Brera e così via. Abbiamo chiesto a questi nostri contatti di mandare gli studenti delle loro classi a Belgrado per un workshop, REAL PRESENCE appunto.

A.A.: Che non a caso immagino, ha un significato molto semplice e diretto, presenza reale.
D.D.: Esatto, essere veramente presenti, venire fisicamente a Belgrado, oltrepassare confini che erano fisici ma allo stesso tempo anche simbolici, era questo il compimento del nostro progetto.

A.A.: Il vostro invito era anche aperto, privo di selezione sulla base di curriculum o portfolio.
D.D.: Sì, abbiamo voluto lasciare aperto questo invito perché ciò che si è immediatamente palesato come problema per i nostri studenti, era il non poter uscire e non avere adeguate possibilità di sviluppare i loro potenziali creativi nelle accademie dove studiavano. Ma la stessa difficile condizione accadeva di fatto anche nelle accademie occidentali, anche loro si confrontavano con un sistema sempre più chiuso e complicato. Il farne parte stava diventando sempre più difficile e quindi l’idea di non dover selezionare a priori, di creare un tipo di sistema senza esclusioni significava molto. Il progetto voleva fin da subito essere inclusivo, affrontando quindi non solo il problema della questione politica della Serbia ma anche del resto dei partecipanti, senza alcun rapporto gerarchico.

A.A.: Nell’organizzazione eravate solo tu e Biljana?
D.D.: Sì, una situazione organizzativa totalmente elementare che includeva noi due, un computer e due telefoni.

A.A.: Quasi 300 studenti già dalla prima edizione. Vi aspettavate un tale numero di partecipazioni?
D.D.: Diciamo che quando sono iniziati ad arrivare i primi studenti abbiamo realizzato veramente l’entità del progetto. La cosa che ci ha assolutamente sconvolte è stata la partecipazione di tanta gente che conoscevamo già, e con cui avevamo collaborato in passato, ma anche di molti nuovi. Inoltre per inaugurare questo evento abbiamo invitato come ospite d’onore Harald Szeemann, che allora era direttore artistico della Biennale di Venezia, e aveva inaugurato la sua seconda edizione, intitolata Platea di Umanità. Il workshop si svolgeva in diversi spazi, ma quello principale era l’ex museo di Tito, un grande complesso espositivo con le caratteristiche architettoniche tipiche del modernismo e con un tetto piatto che assomigliava proprio a una platea. Come ‘hommage’ a Szeemann, ma anche come il miglior modo per affermare la presenza di un grande numero di giovani artisti internazionali, abbiamo fatto una performance collettiva: ci siamo arrampicati sul tetto del museo che da quel momento in poi era diventato “il luogo dell’arte” aperto 24 ore su 24. Questa immagine è diventata poi il nostro logo. In quel momento salire sul tetto oltrepassando i militari che sorvegliavano la residenza di Milosevic situata subito dietro il museo, era il miglior modo per mettersi a confronto con due dimensioni temporali: il passato ed il futuro. Incluse tutte le implicazioni politico-culturali che esse comportavano.
Realizzare questo ‘melting pot’, questo luogo d’incontro di tantissimi giovani da tutto il mondo significava realizzare un modello di quello che si auspicava la vita culturale potesse essere nuovamente a Belgrado. Non un progetto curatoriale di stampo classico, ma una manifestazione che avesse in sé una forma di attivismo culturale, proprio perché rispondente ad una necessità, quasi un’urgenza, in linea con un’idea dell’arte e della cultura come campo aperto. Nel corso dei dieci anni ci sono state varie trasformazioni pur rimanendo coerenti con il progetto e con la struttura. Oggi finalmente la Serbia esce dal sistema dei visti, da questo regime; ora anche per i Serbi è possibile uscire senza dover passare attraverso iter burocratici che erano non solo complicati ma anche umilianti. Per tornare quindi alla tua prima domanda, visto che il contesto specifico che fino ad ora ha determinato l’invito alla partecipazione è cambiato, è giunto anche il momento d’iniziare qualcosa di diverso.

A.A.: Mi ha particolarmente colpito, visitando l’ultima edizione, il format stesso del workshop, l’autorganizzazione chiesta agli studenti non guidati da professori. Il che s’inserisce nel discorso della non gerarchizzazione, cioè l’assenza d’imposizioni, di un qualcuno che diriga, che dia le linee guida, che decida e prenda una posizione a priori.
D.D.: Sì, in effetti fin dall’inizio l’idea era di trattare questi studenti veramente come artisti, avendo anche fin dall’inizio per i workshop spazi che erano poi gli spazi delle mostre. Li abbiamo sempre messi nella condizione di doversi confrontare con un ambiente nuovo, uno spazio specifico, sceglierlo e decidere da soli cosa fare e come organizzarsi gli uni con gli altri. Il workshop consiste di fatto in due momenti. Una parte di elaborazione d’idee e produzione della mostra finale della durata di un solo giorno, e che quindi è un gesto quasi simbolico, una sorta di grande festa finale, una conclusione catartica. L’altra parte consiste invece di presentazioni aperte e lectures, che poi possono diventare anche altro, acquisendo spesso anche la forma di performance. Dimensione anche questa molto importante perché tutti potevano conoscersi attraverso il lavoro e mostrare l’operato e le metodologie delle proprie accademie, evidenziando diversi modelli educativi, le sintonie e le differenze.

A.A.: Quindi rappresentava un confronto e un aggiornamento sui modelli educativi, anche per professori o futuri tali…
D.D.: Sì, e la possibilità per gli studenti di rispondere meglio alle loro esigenze.

A.A.: Quest’anno ho visto moltissime lectures, e molti professori e artisti professionisti invitati a partecipare.
D.D.: Essendo la decima e ultima edizione, questa è stata una ‘summa’ di tutto ciò che è stato fatto; quindi l’esigenza di ampliare il programma di conferenze con alcune partecipazioni straordinarie: Angela Vettese (direttrice della Facoltà di Design e Arti, IUAV), Stephan Schmidt-Wulffen (rettore dell’Accademia delle belle arti di Vienna), Tobias Rehberger (Vice rettore della Städelschule di Francoforte), Mans Wrange (Rettore del Royal Institute of Art di Stoccolma), Friedeman Malsch (direttore di Kunstmuseum Liechtenstein, Vaduz), Rainer Fuchs (vice direttore di MUMOK – Stiftung Ludwig di Vienna), Joa Ljungberg (curatrice del Moderna Museet, Malmo) come anche di artisti: Thomas Bayrle e Helke Bayrle, Simon Thorogood, Janos Sugar, Seppo Salminen, Ido Bar-El, Hannes Brunner, Richard Ross, Jean-Sylvain Bieth e molti altri… in tutto abbiamo avuto, oltre alle conferenze di questi 30 ospiti speciali, circa 150 presentazioni di artisti, moltissime performance, in tutto 11 mostre, la partecipazione di circa 90 artisti delle edizioni precedenti e 150 studenti dalle accademie più prestigiose per il workshop.
In passato il numero di professori o ospiti speciali era inferiore proprio perché i protagonisti principali erano i giovani artisti partecipanti al workshop. La cosa fondamentale è sempre stata il confronto generazionale e con un ambiente che dava forti input. La cosa più importante era estendere questa rete di contatti, non limitandosi soltanto alle accademie d’Europa ma aprendosi anche verso l’Africa, l’Asia, le Americhe. In dieci anni abbiamo veramente avuto studenti provenienti da tutto il mondo.

A.A.: Il decennio trascorso è connotato dalla possibilità di viaggiare a basso costo, quindi di spostarsi fisicamente con facilità, ma anche caratterizzato dall’annullamento dei rapporti umani, il momento d’internet, della virtualità, che ha fortemente cambiato il confronto fisico e diretto. Riflettendo quindi nello specifico sul titolo non posso che pensare a questi due aspetti.
D.D.: Anche il titolo infatti è nato proprio in risposta a questa dimensione di virtualità. La generazione di Biljana viveva un confronto reale, di presenza dell’artista, da noi si diceva ‘parlare in prima persona’ cioè l’artista si assumeva un ruolo di attivista culturale, seguendo le orme della ‘scultura sociale’ di Beuys.
Oggi veramente viviamo un momento in cui la tecnologia offre tantissime possibilità ma allo stesso tempo toglie o annulla questo tipo di relazioni più dirette.
Il titolo è stata un’idea di Biljana, proprio come controbattuta rispetto a quella che era ed è la tendenza, che non è di per sé né positiva né negativa. Ma per molti versi, o per lo meno quelli che noi abbiamo sentito in quel contesto sociale e politico, questa dimensione di virtualità, come per esempio il sistema mediatico, creava moltissimi preconcetti e distorsioni. È stato importantissimo da un lato portare il mondo dentro e dall’altro anche mostrare a questo mondo che una situazione come quella di Belgrado, della Serbia, non era solo quella che si vedeva attraverso i media.
Inoltre questa collaborazione fisica tra giovani, e di cui mi ricordo anche Szeemann aveva parlato come tra i più bei ricordi di When attitudes become forms, crea tra gli artisti una forte solidarietà, la volontà di fare qualcosa insieme, il che chiaramente quando un artista cresce e si afferma diventa più problematica, essendoci molta più autonomia e competizione.

A.A.: Oggi poi in particolare è anche un momento d’individualismo sfrenato, i movimenti non esistono più…
D.D.: Sì, di grande competizione e materialismo ricalcato su ogni cosa, nel mondo dell’arte come in qualsiasi altra sfera. Ma anche in questo periodo di forte alienazione, creare occasioni di riunione, anche se solo brevi e temporanee, eventi culturali con questa specifica forma e durata, permette a questi giovani anche di trovare forme per autorganizzarsi. Ho visto nascere molti gruppi, collettivi e progetti collaborativi e cose del genere. Pur non essendoci più grandi movimenti come prima, c’è comunque un sistema dinamico, dove gruppi si fondono e si dissolvono di continuo. Le persone gravitano con molta più facilità da un gruppo all’altro, non identificandosi probabilmente in maniera ortodossa come prima, ma in maniera più fluida. I paradigmi del resto devono cambiare, e succede di volta in volta. Stiamo vivendo anche un momento di crisi, le grandi strutture cadono, tutto ciò ha incentivato una nuova forma di organizzazione. Tantissimi artisti, soprattutto italiani, mi hanno scritto che dopo Belgrado si sono organizzati da soli. Vedo che cercano alternative a gallerie, vogliono rendersi indipendenti, inizia una forma di protesta da parte degli artisti ma anche dei curatori. Forse anche tu la condividi come giovane curatore.

A.A.: Assolutamente. È un momento di nuovo ripensamento delle stesse forme e sistemi espositivi, nuove gallerie si trasferiscono in appartamenti privati, esposizioni sono realizzate sempre più spesso in luoghi transitori, momentanei e non istituzionali. Ricordo di aver letto non troppo tempo fa anche del fenomeno di accordi tra artisti e agenzie immobiliari a New York, loro danno il luogo e gli artisti il pubblico. È una necessità delle nuove generazioni di affermare il proprio modello di lavoro.
D.D.: Sì, mi sembra che sia una generazione che prova ad organizzarsi in piccoli gruppi momentanei che magari poi si trasformano velocemente anche in altro. O gli stessi artisti spesso fanno parte di molti e diversi gruppi.

A.A.: In effetti mi chiedo, avendo lavorato con giovani artisti per un decennio, hai notato differenze rilevanti nell’approccio, nel modo di vedere l’arte, di organizzarsi, di produrre, di esporre?
D.D.: Le differenze sono molte. Strano da dire ma ci sono. Per esempio il primo anno, nel 2001, abbiamo avuto una generazione che aveva un’incredibile energia dirompente. Cosa probabilmente dovuta anche al contesto di una città che era ancora evidentemente molto ferita, con i palazzi ancora bombardati e distrutti, con tutte le cicatrici di guerra ancora aperte. Ma comunque avevano personalità molto forti, non bisognava guidarli affatto, sono arrivati con dei progetti “folli” che noi abbiamo cercato di rendere realizzabili. Mentre la generazione di adesso si è dimostrata meno pronta a captare questa condizione di “libertà” o perlomeno di mancanza di precise linee-guida tematiche. Una generazione insomma molto più abituata a essere guidata, o per lo meno con questa aspettativa, quindi con un altro tipo di atteggiamento nei confronti di ciò che si presume sia l’istituzione. Anche nei tipi di lavoro realizzati si sono notate tante differenze, di anno in anno si poteva davvero cogliere uno spirito del tempo. Era incredibile come gente proveniente dai contesti più disparati, anche lontanissimi, trovasse poi fortissime affinità nel lavoro. Per esempio un anno forme come il fumetto, i graffiti, la street-art erano molto presenti e condivise da giovani artisti che venivano da Stoccolma, da Istanbul, da Singapore… un altro anno invece molti erano spinti a intervenire dentro il contesto urbano, a operare in spazi che non erano quelli assegnati come espositivi, andavano nelle case dei cittadini di Belgrado, immergendosi totalmente nell’ambiente.
Forse proprio il fatto di non avere a priori un tema ha incrementato l’emergere spontaneo di nodi e problematiche contemporanee nei lavori, nonostante le esposizioni finali siano sempre state più schizzi, sorta di bozzetti che gli artisti avrebbero sviluppato in seguito.
Quindi opere che funzionavano come una sorta di prisma attraverso cui leggere le trasformazioni sociali e culturali della Serbia e del resto del mondo. Inoltre man mano che la situazione cambiava a Belgrado, s’instauravano diversi tipi di dialoghi tra i giovani artisti e questo contesto, che per loro diventava come una palestra, uno studio, un database dal quale uscire con qualcosa. Per esempio una volta hanno fatto diversi progetti sul turismo, creando proprio ‘touristic points’: Matteo Rubbi aveva tradotto alcuni menù nei ristoranti come suo lavoro. Questo ci ha spinto a riflettere sulle loro motivazioni e a percepire la situazione quasi paradossale di Belgrado come una capitale che in molti aspetti manifesta una forte volontà di apertura verso l’Europa, però allo stesso tempo è priva delle strutture adibite ad aiutare lo straniero, tutt’ora ad esempio le strade sono scritte in cirillico. Quindi alcuni interventi artistici ci hanno aiutato a inquadrare meglio la situazione del luogo.

A.A.: Una manifestazione che ha investito sul futuro e creduto sui e nei giovani anche per interpretare il presente. Quello che idealmente bisognerebbe sempre fare.
D.D.: Infatti, non è certo investimento perso, ma ti assicuro è sempre stato molto difficile da far capire nel momento delle richieste economiche.

A. A.: Dimostra la volontà di avere uno sguardo lungimirante.
D.D.: Dare fiducia, crederci, dare la possibilità di viaggiare e sperimentare altrove, fare network, nuove esperienze, confronti, amicizie.

A.A.: E il vostro rapporto con l’amministrazione locale? Era un progetto ben visto o considerato scomodo? Siete sempre riuscite ad appoggiarvi a istituzioni pubbliche?
D.D.: Sì, anzi all’inizio paradossalmente era più facile di ora perché partivamo da una situazione in cui la vita culturale di Belgrado era meno complessa. Trovare i fondi allora era molto più facile e poi anche i prezzi erano molto più bassi. Ma un progetto dalla forte dimensione educativa col tempo trova molte difficoltà. La scena si stratifica e si crea maggiore richiesta di cultura rappresentativa, più affermata ed ‘established’. Per noi è diventato sempre più complicato sia dal punto di vista finanziario che mediatico.

A.A.: Il vostro progetto comunque è anche uscito fuori da Belgrado e dalla Serbia.
D.D.: Abbiamo cercato di capire cosa potessero diventare questi semplici formati di workshop anche al di fuori del contesto della città. Siamo stati invitati prima a Francoforte, dove abbiamo fatto parte di “Gasthof” organizzato nel 2002 da Daniel Birnbaum, Jochen Volz e Dirk Fleischmann. Avevano trasformato la Städelschule in una sorta di albergo puntando proprio sul concetto di ospitalità, prendendo spunto da Fluxus e in particolare dalle celebri lezioni di cucina di Peter Kubelka che insegnava lì negli anni ’80 e ’90.
Poi l’idea che si è sempre più palesata era che tutti questi workshop costituivano una fase intermedia tra la formazione in senso stretto e la successiva, quando si comincia ad essere attivi come artisti professionisti. L’esperienza di REAL PRESENCE diventava una sorta di ponte sempre più importante per i giovani artisti, gli dava curriculum, esperienza. Abbiamo riflettuto su cosa significasse essere in questo stato intermedio tra l’Accademia e le aspirazioni dell’artista professionista, come l’essere invitato alla Biennale.
Siamo poi stati invitati a partecipare al programma ufficiale della Biennale di Venezia nel 2005, con un progetto realizzato con Angela Vettese e lo IUAV, e poi anche alla Biennale di Istanbul (2007) e al Castello di Rivoli (2008). Queste iniziative hanno rappresentato un altro tentativo di mettersi a confronto con un diverso momento del lavoro degli artisti, cioè il confronto con il museo e le grandi manifestazioni. E sono state tutte davvero esperienze straordinarie. Rivoli si era trasformato in un gigantesco laboratorio, a Venezia i partecipanti hanno addirittura realizzato uno “sbarco di artisti clandestini” non avendo un reale spazio fisico a disposizione.

A.A.: Contenta del risultato di quest’ultima edizione di chiusura?
D.D.: Molto! Grazie anche alla partecipazione di un grande numero di artisti affermati per celebrare questo finale, devo dire che finalmente ci si è resi conto dell’importanza di questa esperienza, e del fatto che sia stata veramente una sorta di fenomeno culturale… e non soltanto un’esperienza giovanilistica di alcuni stranieri che passano per Belgrado.

Dall’alto:

1. 2001 > Real Presence Plateau, Museum 25th of May, Belgrade

2. Christiane Loehr, Untitled, 2001

3. Julia Waidner, This is a Man’s World, 2006

4. Bertrand Leroy and Estelle Fonseca, Tank, 2010, private garden in Belgrade

5. Christian Sievers, Sheltered Life, 2010, Gallery of Students Cultural Centre

6. Eelco Wagenaar, Coloured Sky, 2010, Museum of Jugoslav History