Jenny Saville nasce nel 1970 a Cambridge, vive e lavora tra Londra, New York e Palermo. L’artista esordisce nei primi anni Novanta con tematiche legate alle teorie femministe. In questi anni i suoi monumentali ritratti e autoritratti raffiguranti il corpo femminile appaiono come traduzioni visive degli scritti di Luce Irigaray e Julia Kristeva. Sin dal suo esordio Saville elabora una poetica incentrata sulla manipolazione e trasformazione del corpo attraverso la chirurgia plastica. I suoi lavori sono una risposta alla mercificazione del corpo femminile e una protesta verso l’esasperazione del modello estetico imperante che vuole le donne belle, giovani e soprattutto magre. Negli anni successivi, le esigenze di raffigurazione vanno di pari passo con quelle di corpo in divenire, si pongono come il referto di una identità corporea che si risolve attraverso il dolore psichico e fisico e la sua arte fa emergere una “madre natura” oramai soppiantata da una “madre artificiale” chiamata a rimediare agli imprevisti formali tramite una nuova gestazione capace di dare una nuova identità attraverso la chirurgia. Nell’opera di Saville corpi sani e malati, corpi grassi e magri, carcasse di animali, fisici transgender, volti tumefatti, carni ferite e flaccide vengono messi in scena con pari dignità in qualità di soggetti. Saville rappresenta il soggetto/corpo come work-in-progress, facendo emergere la necessità di essere se stessi oltre la programmazione genetica, rivelando i disturbi di una psiche insoddisfatta e di una identità biologica inappropriata. Le immagini vengono tratte indistintamente dal repertorio di cronaca o dall’album di famiglia, dalle pubblicazioni medico-anatomiche o dai ritratti di amici. La spontaneità del suo sguardo “non giudica” ma guarda e trasmette questi “territori interiori o ai margini” nella maniera più schietta e cruda possibile. Saville, passando attraverso varie “etichette”, dapprima promessa della Young British Art, poi affermata erede della figurazione del secondo Novecento, vicino alle esperienze di Lucien Freud e Francis Bacon, conquista da subito il consenso del pubblico e della critica, raggiungendo quotazioni vertiginose alle ultime aste. Ottiene inoltre diversi premi internazionali e partecipa a diverse collettive e personali, tra cui British Institute Prize for Painting alla Royal Academy, Londra 1991, “Sensation: Young British Artists from the Saatchi Collection”, Londra 1997; “Territories” presso la Gagosian Gallery , New York 1999; “The Nude in Contemporary Art”, presso The Aldridge Museum of Art, Connecticut, 1999; “Ant Noises 2” Saatchi Gallery, Londra 2000, “Disparities and Deformations. Our Grotesque” presso la Quinta Biennale Internazionale di SantaFè, New New Mexico, 2004.
Palermo, 8 settembre. Sono le 19: quando arrivo, Jenny Saville lavora ancora nel suo studio. Suono alla porta e mi accoglie con un sorriso; è minuta, bionda, gli occhi celesti; mi riceve in tenuta da lavoro, ha i pantaloni imbrattati di colore (non ama ricevere le persone nel suo studio) – “Questo è il mio spazio, è privato”. Mi chiede di trasferirci nel suo appartamento, un piano sotto, le stanze sono una di seguito all’altra, ampi spazi dalle grandi finestre, e piccoli balconi che si affacciano sul quartiere di Ballarò. L’ambiente è molto spartano, ma mette in evidenza la bellezza decadente del palazzo, volte affrescate, stanze enormi, diversi tavoli pieni di roba, carte cd, tanti libri. Ci accomodiamo attorno al tavolo, mentre lei prepara un caffé. Mi chiede perchè ho voluto incontrarla e di cosa mi occupo, rispondo che studio arte e che nello specifico mi occupo d’arte al femminile. Si mostra interessata… Il caffé è pronto, iniziamo.
Barbara Galati: Il tuo lavoro sul corpo è stato sistematicamente accostato alle teorie di Luce Irigaray che sembrano aver trovato forma nei tuoi ritratti. Hai dipinto donne grasse, sfigurate, tormentate; tutto questo è simpatetico del femminismo. Ti ritrovi nell’essere definita un’ “artista femminista” ?
Jenny Saville: Si, ho letto molti di teoria femminista, il mio lavoro è stato spesso avvicinato al femminismo… Non ho problemi a dichiararmi femminista! Quello che mi preme dire è che il femminismo non è qualcosa di dogmatico, è un dialogo aperto, non è come il comunismo o qualsiasi altra ideologia: io non mi vergogno di dire “sono femminista”. Per me essere femminista è un modo di esprimere se stessi, è una comunicazione schietta, è un modo di essere.
B.G.: Il tuo lavoro con le donne è anche un’esperienza introspettiva. Una donna può diventare lo specchio di un’altra donna… Tu riusciresti a trovare la stessa empatia con un uomo?
J.S.: È complicato rispondere… non saprei. All’inizio come ti ho detto mi ha affascinato molto l’ideologia femminista. Prima vedevo il mio lavoro come un dialogo tra donne, credevo che le donne capissero il mio lavoro molto più degli uomini, perché, non so, sono una donna, ho un certo ideale di rappresentazione, di interesse visuale, non riesco a separare le due cose… non so.
B.G.: Molte artiste sentono il peso di un’“etichetta” e avvertono questa come una minaccia alla loro autonomia creativa. Tu sei stata spesso “etichettata” come femminista, come YBA, come erede di una figuratività vicina a Bacon e a Freud, mi sembra che in realtà tutto questo non ti ha creato dei limiti…
J.S.: No, in realtà questo peso non lo sento, la questione è più complicata: penso che la buona arte non sempre ha a che fare con una dottrina; se hai una connotazione politica o sociale o ideologica … rischi di fare altro, quello che fai diventa denuncia, teoria, propaganda… ma, non sempre tutto questo è buona arte! Penso ad esempio alle Guerrilla Girls: la loro arte è stata davvero importante in quel momento, ma mi chiedo di fronte alla longevità dell’arte, non so davvero dire quanto il loro lavoro rimarrà nel tempo. È guardando alla “distanza” dell’arte che cerco di creare, non m’interessa affermare che la chirurgia estetica è giusta o sbagliata, che qualcosa è bello o brutto o che la bellezza è questa piuttosto che qualcos’altro. Io lavoro sulle contraddizioni, metto assieme le dissonanze, il mio è un lavoro incentrato essenzialmente sulle dicotomie dell’esistenza. Non voglio dare giudizi con il mio lavoro… non mi interessa.
B.G.: Probabilmente è per questo che non ti lasci condizionare a tua volta !
J.S.: Sono leale, cerco di dire le cose cosi come stanno a costo di essere cruda.
B.G.: Sei stata spesso accusata di avere deliberatamente brutalizzato le donne… perché tanta violenza? Perché auto-rappresentarti e rappresentare una femminilità cosi tormentata?
J.S.: Da sempre si associa la corporeità maschile alla brutalità, si accompagna la violenza all’uomo più che alla donna e si rimanda l’immagine della femminilità ad una sorta di corporeità estetizzata, ma se prendi un corpo femminile, questo è un corpo estremamente violento, se pensi che ogni mese ogni donna sanguina, è come uno stato animale. Il corpo femminile rappresenta appieno la sofferenza, pensiamo alla gravidanza, al cambiamento fisico che avviene in una donna, al dolore del parto: tutto questo è più vicino alla violenza di quanto si possa realmente pensare.
B.G.: Sicuramente la tua analisi non è sbagliata, ma c’è chi ha rappresentato tutto questo in maniera meno drammatica: dice la Irigaray: «Forse le donne che per tanti secoli hanno interiorizzato contro se stesse la violenza patita, hanno bisogno di farla uscire, di manifestarla esteriormente… Capisco questa necessità, ma temo che fermarsi all’identificazione con l’oppressore non possa essere il modo per acquisire una vera autonomia… »
J.S.: Sì, capisco a cosa ti riferisci, in effetti, questo può essere pericoloso nella vita, rivendicare la violenza che si è subita può diventare auto-lesionistico, ma nella rappresentazione questo assume la valenza di denuncia. Se guardiamo alla storia dell’arte c’è molto più peccato e senso di colpa nella rappresentazione della donna, c’è una sorta di dualità che identifica la rappresentazione femminile, tutto è incentrato o sulla purezza o sulla colpa e, si sa, il peccato è qualcosa di socialmente costruito. Io non mi limito a rappresentare la violenza attraverso le donne, piuttosto sono attratta dalla corporeità, mi piace celebrare il corpo senza preconcetti e senza convenzioni. Sono attratta dai i corpi in stato di trasformazione, che sia attraverso la ferita o la chirurgia. Del resto oramai la rappresentazione della violenza sta dappertutto, basta guardare un telegiornale o aprire un quotidiano: la violenza non fa più clamore, è diventata un fatto quotidiano.
B.G.: Sicuramente questa “abitudine” alla visione della brutalità ha anestetizzato gran parte della gente, ma come si fa a tradurre una tale abbondanza di violenza in fatti estetici?
J.S.: Tradurre un fatto brutto in un evento estetico… immagino sia facile per me… Se voi vedete una ferita e io vedo la materia, vedo del colore, è la stessa cosa per me, mi interessa la patologia della pittura, il fatto di produrre qualcosa di brutto e renderlo desiderabile. Io riesco a rappresentare solo ciò che vedo… se vado giù a comprare le sigarette e passo dal mercato di Ballarò, la carne è esibita, l’esposizione della morte è ovunque, se vuoi comprare della carne a Palermo, vai per strada e il corpo dell’animale è lì, appeso, che sanguina. Se invece vivi a Londra e vuoi comprare della carne, la trovi al supermercato completamente impacchettata e non ti rendi conto che è un animale: tutto questo è ipocrita!
B.G.: Riesco a capire ciò che tu intendi perché sono nata qui, una città piena di contraddizioni in cui è facile rintracciare una certa passionalità sanguigna, del resto ogni popolazione deve fare i conti con la propria storia: noi abbiamo un passato fatto di tante dominazioni, conflitti e occupazioni e sicuramente tutto ciò ha una grande influenza sulle persone e sul modo di vivere…
J.S.: Questo è esattamente quello che amo di Palermo… Per me che sono un’outsider tutto questo è grandioso! Quello che mi affascina di Palermo è il modo in cui è attraversata da un senso di finitudine, da una sorta di magnificenza decadente ovunque tu ti trovi sei estremamente consapevole della morte. Qui il rapporto con la morte è più presente che in qualsiasi altra parte d’Europa. Un posto come le catacombe dei Cappuccini non potrebbe esistere in Inghilterra. E poi nella città c’è un’ibridazione affascinante, forse perché è stata assoggettata tanto spesso. Hai sempre un piede nella storia.
B.G.: Cosa ti ha portato a Palermo?
J.S.: Beh… circa due anni fa avevo organizzato una mostra nel mio appartamento di New York, così le stanze erano tutte occupate ed ero alla ricerca di un altro posto dove poter lavorare. Volevo però concedermi anche una pausa, ma non sapevo bene che fare, soprattutto non sapevo se tornare a Londra o prendermi una vacanza, così sono andata con degli amici a Favignana e in quella occasione ho visitato Palermo. Mi è stato mostrato questo palazzo meraviglioso… un grande corpo decadente, straziato, di cui è ancora possibile rintracciare la straordinaria bellezza. Palazzo Cutò reca in sé i segni del tempo, segni che però non ne hanno offuscato il fascino. E’ stato per me un colpo di fulmine, ho trovato quest’appartamento ed ho pensato di rimanerci. Inizialmente pensavo di fermarmi circa 4 mesi poi, invece, ho deciso di rimanere più a lungo. Se riuscirò a lavorare bene a Palermo potrei rimanerci più a lungo. Qui mi concentro bene, sarà per la luce della città, sarà per la magia decadente del luogo, anche se a volte è frustrante: ad esempio capita di non trovare sempre i materiali di cui ho bisogno o una segretaria che parli bene inglese diventa difficile… E poi devo dire che anche la privacy qui non è del tutto considerata. Quando sono a Londra o a New York c’è tanta di quella gente che per forza di cose io “divento” anonima, invece quando sono a Palermo non è proprio così (ride) …
B.G.: Penso che sia un’ invadenza benevola, un segno d’affetto …
J.S.: Piuttosto rumorosi! (si riferisce ad un gruppo di bambini che giocano a pallone per strada). Tutto questo è bellissimo, ma non ci sono abituata, diciamo che “non è molto inglese!”. Nel palazzo, tutti sanno cosa accade ogni giorno, se vado a Londra… se sono qui… se viene qualcuno a trovarmi…
B.G.: Torniamo al tuo lavoro, da quando sei in Italia ti sei avvicinata al tema del sacro, reputi questo tipo di rappresentazioni fuori da quelle “convenzioni”di cui hai parlato prima?
J.S.: Sì, nel mio lavoro recente “il sacro” è divenuto un problema centrale e questo nonostante io non sia stata educata cristianamente. Tutte le immagini che avevo usato in precedenza, i corpi tumefatti, le mani sanguinanti, i volti straziati, improvvisamente hanno acquistato un significato religioso Ho lavorato molto sull’immagine della deposizione del Cristo morto, credo che la crocifissione sia in assoluto una delle immagini più straordinarie che esistono. Nei miei frequenti viaggi in Italia e in particolare a Roma, ho scoperto le opere dei grandi maestri del passato, ho cominciato a guardare con maggiore interesse l’opera di Caravaggio, di Bernini, di Michelangelo. Li ho osservati costantemente, ho notato che incorporano qualcosa che riguarda non solo la cristianità; mi ha colpito quella corporeità vissuta…un canone estetico affascinante cui ho cercato di ispirarmi. Le immagini che rappresentano il martirio dei Santi, hanno creato in me una fascinazione particolare. Nelle chiese e a Palermo in particolare ci sono immagini incredibili proprio per la loro “semplice” quotidianità.
B.G.: Vivendo a Roma, ho avuto modo di vedere il trittico per la Cappella Bilotti, mi ha molto colpito il Pannello n. 3, Atonement Studies, quello che rappresenta l’uomo sul letto d’ospedale…
J.S.: Davvero… perché?
B.G.: In realtà non so, forse perchè era un uomo e perché era la prima volta che vedevo su un tuo dipinto una tale perizia descrittiva: hai rappresentato “altro” oltre al corpo, hai mostrato il tormento durante, non dopo… Hai descritto il fatto, hai dato le coordinate spaziali, si sono viste le macchine cui quell’uomo era costretto per sopravvivere. Mi sono chiesta chi fosse e quanto contava il soggetto in quest’opera.
J.S.: Lo studio per il dipinto nasce circa 12 anni fa in ospedale ed è stato preso dalle immagini di un uomo a cui tenevo molto. È stata un’esperienza molto complessa, inusuale, c’era qualcuno che moriva davanti ai miei occhi, le persone in ospedale erano arrabbiate con me e non volevano che facessi le foto, pensando che fosse irrispettoso per quel corpo morente… Parte dell’interesse che avevo per quel corpo era che poteva sopravvivere solo grazie ad una macchina e la sua carne era estesa oltre il suo corpo… era lì, ma anche la macchina era presente, erano diventati una sola cosa, la carne cambiava… era come se il suo corpo fosse sempre più fuori dal mondo. Ho tenuto le foto perché un giorno avrei voluto farne un dipinto, ma non sapevo quando o perché. L’intera situazione è stata particolare per me, fino ad allora per i miei lavori avevo usato il mio corpo perché era il mio e non volevo avere dei giudizi su di esso… credevo fosse più onesto, mi sentivo più a mio agio ed ero più libera di agire. Quando si tratta del corpo di un’altra persona, ed è un corpo che soffre, è un soggetto molto più difficile da trattare, perché è come se tu ne percepissi anche il dolore. Come ti ho detto io volevo usare quelle foto già da anni… è un dipinto molto importante per me, non tanto perché era una commissione per una cappella, ma quanto per il fatto che avevo trovato una commistione tra San Sebastiano e quell’uomo: i tubi come frecce gli attraversano il corpo, era il martirio che guardavo, il suo corpo soffriva e io ero lì a percepirne il dolore…
B.G.: Perché nei tuoi precedenti lavori il corpo rimane sempre isolato, non sappiamo nulla del soggetto ritratto e spesso i tuoi corpi sembrano tratti da un archivio di medicina patologica? Perchè il soggetto ha l’aspetto di un reperto anatomico, sezionato, anatomizzato dal tuo sguardo chirurgico senza un passato, senza un futuro?
J.S.: Di solito non amo rappresentare altro che non sia il corpo, uso le fotografie per registrare le informazioni che poi intendo dipingere. È come fare degli schizzi, prendo appunti sul soggetto. Ma quello che m’interessa realmente, tutto ciò di cui parlo è limitato alla rappresentazione della carnalità di quel corpo. Quando ritraggo qualcuno, lo isolo come se lo chiudessi all’interno di uno spazio circoscritto ritagliando tutto quello che c’è attorno per focalizzare l’attenzione su un unico particolare, la carne. Rappresento quei corpi isolandoli: non m’interessa l’aspetto narrativo della figurazione, non m’interessa raccontare la loro storia, non so in che dimensione vivano, l’ambiente che li circonda diventa relativo. Il corpo rappresenta tutto ciò che ciascuno di noi possiede, le esperienze, i fatti ti lasciano dei segni ravvisabili proprio attraverso la corporeità, questo mi basta. Cerco di trattare il soggetto come corpo nudo, come nei ritratti di travestiti che ho dipinto, come in Passage o in Matrix ritratto di Del La Grace Volcano ,un corpo carnale estremamente moderno; Il corpo transgender è al tempo stesso artificiale e organico, come l’architettura contemporanea, un corpo che trent’anni non sarebbe potuto esistere, oggi è attuabile grazie alla chirurgia, agli impianti di silicone. Ma se avessi dipinto accanto al soggetto una tenda, un tavolo, un oggetto insomma, ciò lo avrebbe reso specifico del suo tempo, e non è quello che voglio, voglio che sia la nuda carne a essere il suo tempo.
B.G.: E oggi cosa è cambiato? Cosa ti a portato a dare delle coordinate rispetto al soggetto? Perché il tuo sguardo è cambiato?
J.S.: Suppongo sia un’esperienza diversa perché se lavoro su foto mediche o su foto tratte dalla cronaca allora il mio sguardo è più distante. Dipingendo, guardando immagini di corpi tratte da questo repertorio non so quanto diretto era il mio interesse. Lavorando con questi soggetti non m’interessava dire chi fossero: per esempio dipingendo il volto di una donna dilaniato da uno sparo, non sapevo chi fosse, non aveva personalità e, a parte l’interesse per la sua corporeità, per la sua carnalità, non c’era altro. Prima operavo senza coinvolgermi emotivamente, oggi invece tutto è diverso. Nel lavoro di San Sebastiano questo è evidente: io ero preoccupata per quel corpo, volevo bene a quell’uomo e sapevo che stava per morire, questa forma emotiva credo si evinca. Questa emotività mi ha coinvolto anche nel rappresentare il corpo femminile e la ragazza cieca di Atonement Studies . Non sono molto soddisfatta dei singoli lavori, ma mi piace molto l’idea del trittico… mi piace questo modello, l’equilibrio del trittico.
B.G.: Ma come sono nati questi Atonement Studies? Vedendo Rosetta 2 alla mostra Eretica mi ha colpito il fatto che tu l’abbia rappresentata da sola, abbandonata senza i suoi Santi…
J.S.: Si, è vero, l’ho lasciata sola! Senza i suoi santi. Ho trovato l’idea del trittico molto romantica, il mio lavoro è un po’ più sentimentale da, quando vivo in Italia. Gli studi per la redenzione prevedevano una centrale e due immagini laterali che raffiguravano due corpi, uno maschile e uno femminile. Questo trittico era ispirato inizialmente ai Santi Ciechi. L’idea di rappresentare lo sguardo dei ciechi era nei miei progetti già da un po’ di tempo. E’ stata una poesia di Giacometti ad incuriosirmi. Non mi sono mai dedicata completamente a questo tema finché non è arrivata la commissione per la cappella e l’incontro con Rosetta, una donna cieca che vive a Napoli. Rosetta è una figura molto romantica, ecco perché ho deciso che il pezzo protagonista del trittico, quello centrale, sarebbe stato il suo. Il volto di Rosetta racconta sofferenze lontane dalla retorica, riesce a guardare all’interno dell’anima. Il suo sguardo cieco ha una forza non comune. Rappresentare Rosetta è stato difficile, un modo così diverso di dipingere. Normalmente quando osservi un volto sono gli occhi che ti catturano, lo sguardo che ti coinvolge e con Rosetta dovevo dipingere un vuoto, dovevo catturare l’attenzione dipingendo il nulla. Come ti ho detto, era da tempo che volevo dipingere un “osservatore cieco”, Rosetta non ha mai visto nessun’immagine, è cieca dalla nascita, non vede, ma ti guarda: la sua è una presenza estremamente potente. Rosetta è uno strano territorio che ti porta a guardare indietro nel tempo, un riflesso, uno specchio che ti porta a guardarti dentro, come una contemplazione. Per me è stata un’esperienza nuova anche perché fino a quel momento il mio lavoro non aveva nulla di contemplativo.
B.G.: Dalle tue parole mi sembra di capire che hai messo in discussione anche il tuo modo di vedere, come se Rosetta ti avesse messo una sorta di soggezione addosso, un’impossibilità di prendere una posizione…
J.S.: Non so. La gente pensa che i ciechi possano comunque vedere qualcosa, o qualcosa che va oltre lo sguardo e questo mi interessa, perché il mio lavoro non è sul giudizio ma è sullo sguardo. Ho anche passato del tempo con Rosetta ed era affascinante capire come percepiva il mondo. Lei non poteva mai vedere cosa stavo per rappresentare e quando la fotografavo. Mi accorgevo che veniva giudicata “visivamente” ma lei “visivamente” non poteva giudicare nessuno.
B.G.: Rispetto alle altre figure del trittico, Rosetta, donna elevata a santa, con la sua immagine riesce a trasmettere dignità e calma, non si percepisce la sofferenza, piuttosto si rintraccia una serenità estatica.
J.S.: Era quello che volevo. Ma se la incontrassi non lo diresti, ci ho messo due giorni a trovare la sua serenità, quando l’ho incontrata era molto nervosa, dovevo spiegarle perché volevo ritrarla, non potevo mostrarle i miei lavori per spiegarle cosa volevo fare con lei. Se avesse avuto occhi normali non, mi sarei interessata a lei, ed è stato molto coraggioso da parte sua voler posare per me. È stato davvero un onore dipingerla. Ho visto in lei una grande dignità e questo mi ha colpito, una cosa che non volevo era il senso di pietà. Ma una cosa molto interessante è che l’ho trovata bellissima sia fisicamente che nella personalità, mentre lei pensa di essere un mostro orribile con gli occhi bianchi, terribili occhi bianchi. Nei due giorni in cui l’ho fotografata il suo atteggiamento, è cambiato completamente, finalmente era stata capace di emanare una bellezza da tempo trattenuta.
B.G.: Quanto ti rimane addosso di tutto questo?
J.S.: Non so davvero come rispondere a questa domanda. Non ho mai avuto un contatto cosi intimo con una modella. Qualcosa di simile l’ho provato a Londra lavorando con i corpi di donne molto grasse: ho avvertito lo stesso disagio, lo stesso sentimento di vergogna e solo dopo un lungo processo fatto attraverso la fotografia e il ritratto loro si sentivano riabilitate… era come ammettere al mondo la loro esistenza. Ho trovato queste esperienze piene di responsabilità, ma mi sembra ovvio dire che non è questa la ragione per cui lavoro, non faccio questo lavoro per far sentire meglio questa gente, non è la mia motivazione, è solo qualcosa che ho notato nel corso degli anni, ma è una conseguenza che in certi casi ha cambiato anche me e il mio modo di vedere.
B.G.: Perché hai scelto la pittura?
J.S.: Perché si è da soli, è tempo passato con se stessi. Se fai una foto hai bisogno di una macchina, così quando giri un film; quando dipingi invece è solo la tua mano a operare, è così intimo, primitivo… è come cucinare, è vita in sé. Quando dipingi, percepisci la velocità del tuo corpo, hai una relazione carnale, corporea, umana con lo spazio che ti circonda. Per me la storia dell’opera è l’opera stessa. Io lavoro su grandi superfici: per esempio, quando ho dipinto un maiale rosso, ci ho messo quasi 3 anni, c’era sempre qualcosa che non andava, eppure proprio queste difficoltà hanno reso il risultato estremamente potente. Poter fare un lavoro del genere, per me, è qualcosa d’importante. Quello che mi piace nel dipingere è la capacità di trattenere il tempo e la sua superficie completamente unica e se tu hai esperienza del tuo corpo, della tua carne, la tua carne deve essere di fronte alla carne del quadro, ed è questo che è così magico per me, è questo che mi spinge a farlo. È come incontrare un altro corpo, è molto più che vedere immagini sullo schermo di un computer o un’altra persona la cui rappresentazione sia un’immagine piatta. Il confronto tra me e un’opera è un confronto con il momento presente, anche se vecchio di 300, 400 anni. Quando guardi un Velázquez tu confronti lo spazio dove Velázquez stava in piedi e tu sei di fronte al dipinto dove era Velázquez. Trovo tutto questo una straordinaria esperienza umana.
B.G.: A cosa stai lavorando in questo periodo?
J.S.: Ad un po’ di cose. Sto proseguendo la mia ricerca sul rosso. Sto lavorando al volto di una mia amica di Londra, con un’ombra sul viso e a quello di una ragazza con un occhio più grande dell’altro: di questa ho fatto 7 versioni… sto finendo questo lavoro per adesso. È un buon momento per lavorare perché la temperatura è buona e la luce chiara, quindi è facile. A Palermo, da aprile ad ottobre lavoro molto bene, c’è la luce migliore, pulita, ma non dura molto, in inverno alle quattro è già finita. A dicembre tornerò a New York per partecipare ad una grossa mostra organizzata da Linda Nochlin, sulle donne e la relazione con il corpo.
Palermo 8 settembre 2006