Organizzazione – Se siete fra quelli che avete sofferto l’incubo della Biennale 2003, quella in cui Bonami si vendicava dello spettatore punendolo della sua supposta dittatura arrostendolo al sole, negandogli il rifugio di un bagno pubblico e un bicchiere d’acqua, adesso potete essere soddisfatti, e anch’io lo sono. La Biennale di Venezia ha fatto tesoro di alcune negligenze del passato. Se come me avevate giurato a voi stessi di non andarci più perché era troppo, potete ricredervi. Questa Biennale è organizzata alla perfezione. Ci sono chioschi con acqua potabile per non morire disidratati, bagni in perfetto ordine e ovunque giovani in divisa rosso blu impegnati a far funzionare la cosa nel modo migliore e sempre con un atteggiamento fermo ma disponibile. La hall della stampa è un mega impianto hi-tech dove non occorre aspettare e tutto riesce semplice. Per il resto a parte un’opera di Nauman montata al contrario, ma immagino il curatore se ne sarà accorto in tempo per rimediare, anche le installazioni sono praticamente corrette.

Mostra – I pochi con cui ho parlato della mostra hanno concordato nel dire che la Biennale del 2007 in realtà è stata già vista alcuni anni fa. Bisogna accordarsi con la datazione di questo deja-vu. Gli artisti propendono per situare questa mostra negli anni Novanta mentre i curatori ed i critici hanno idee più diffuse. A me è sembrato di essere formalmente calato dentro una foto di Documenta del 1955 o giù di lì per quanto riguarda l’uso degli spazi e il loro biancore. Nel (ex) padiglione Italia, sembrava di vivere in una cartolina d’invito di una mostra svoltasi negli anni Settanta. L’opera di Anselmo aveva la perfezione scenica di un falso, di un remake. In più era talmente raffinata nella sua finta grossolanità da sembrare una copia. Alcuni altri padiglioni erano le repliche esatte di mostre già viste, magari in altra dimensione volumetrica.

Ordine – Su tutto governa un ordine mai visto e sentito prima. Nessun lamento, nessuna alterazione. Un ordine ed un silenzio inquietanti. I nomi dell’establishment della New Media Art negli stessi giorni discutevano sul fatto che simili manifestazioni sono il lascito del passato e non vanno più nemmeno considerate arte contemporanea. Ma di questo e di ogni altra cosa a Venezia non si discute. O si ubbidisce o si svanisce. Si fa la fila per entrare nei padiglioni e in ordine si prende l’acqua. Nessuno discuta.

Protesta – A pochi chilometri di distanza tutto il Nord-est veniva bloccato dai No-global e Black bloc. Arrivare a Venezia dal Sud poteva essere difficile ma ancora più difficile era partire. Le stazioni erano presidiate da centinaia di celerini giganteschi, ma poi i No global invece di entrare dalla stazione hanno invaso i binari mentre i poliziotti sono rimasti immobili a farsi fotografare dai reporter e il traffico ferroviario si è bloccato sino al pomeriggio. Ai Giardini nessuna protesta. Nel 68 si innalzavano i cartelloni contro la Biennale del Poliziotto, nel 2007 dentro la Biennale c’erano tantissimi poliziotti in divisa inamidata che con aria interessata visitavano i padiglioni e scambiavano giudizi critici leggendo attentamente guide, depliant, brochure, cataloghini. Immagino presto un padiglione a cura della Digos. Dei No-global nessuna traccia. Nessuna protesta fuori dai cancelli. Il controllo è totale.

USA – Bush incontra il potere italiano e nelle stesse ore tutti gli americani di Roma se ne scappano a Venezia su consiglio dei loro guru. I treni la notte precedente la vernice e per tutto il giorno inoltrato traboccano di studenti e cittadini americani in fuga dalla Capitale. Che dire peraltro? This is their WASP Biennal of Venice, Italy.

Titolo – A me sembra assurdo che Storr passi per un anticonvenzionale; su di lui ho udito lodi sperticate per questa qualità. In realtà contesto la mostra già nel titolo. Ve l’immaginate davvero pensare con i sensi? Cioè motivare la prevaricazione per avere quello che si vuole, l’aggressione. Oppure sentire con la mente. Ovvero cancellare ogni emozione, capovolgere la storia e fare dal bene al male senza nessun contrasto. Moralismo il mio? Senso morale? No, soltanto constatare la fine del buon senso. Ma passeggiando pensierosi a Chelsea probabilmente simili infrastrutture mentali possono apparire seducenti, soprattutto anticonformiste.

No Global – Un’arte globale, una visione che rispecchi il presente, ma poi se vai a guardare bene ti ritrovi che la maggior parte degli artisti selezionati vive a New York, che sarà anche la capitale dell’arte ma come lettura del presente a Venezia mi sembra leggermente limitata e poi anche spocchiosa. Come dire che Pechino, Tokio, Sau Paulo, Città del Messico, Havana, Istanbul non esistano. Ok, davvero, mr Robert Storr, se passeggiassi un pò fuori dall’East Village forse capiresti che il mondo non termina lì. Ci sono anche i quartieri residenziali e le province a nord, mai sentito parlare di Rhode Island per svagarsi?

Ci sono poi altri nomi (artisti fuori sede) e quando li vai a guardare bene ti accorgi che hai già visto le loro opere nelle precedenti Biennali nel mondo, da Istanbul a Dakar, da Havana a Sydney. Insomma la mostra di Storr è stata realizzata conversando nel suo quartiere e durante le vernici di altre biennali dove il curatore ha selezionato alcune opere come al supermercato. Compattato tutto insieme abbiamo la mostra per gli italioti. Gli italioti sono coloro che credono che far curare la mostra ad un newyorkese riscatti la loro creatura dal declino.

Lingua italiana – The WASP Biennal of Venice, Italy, forse è foriera di una secessione e successiva annessione a stelle e strisce delle isole lagunari. Non ci sorprenda quindi se i cartelloni didattici all’interno del padiglione Venezia siano stati tradotti malamente dall’inglese all’italiano e non viceversa, probabilmente da un americano o comunque da qualcuno che non conosce perfettamente la lingua italiana. C’è una possibile spiegazione. Se così non fosse, se ovvero non si stesse preparando una Venezia liberata dall’italiano, nuova stella della bandiera americana, allora qualcosa di molto brutto è successo. Ovvero, siamo stati usurpati anche della nostra lingua, chiamiamola più pertinentemente dialetto o idiotismo. Ve lo immaginate un pannello di francese fasullo in Francia, di inglese maccheronico in USA o di spagnolo anglofono in Argentina? Diciamocelo francamente. Siamo talmente esterofili da esserne istupiditi.

Padiglioni – Superato lo slalom dell’USA Commercial Pavilion (Ex Padiglione Italia) col suo carico di defunti allestiti nella sala più chiusa e spenta, si comprende quale sia il tema reale delle istallazioni ai Giardini. La morte dell’autore e la nascita delle Fondazioni come f-autori. Usciti dall’USA Commercial Pavilion troviamo la strada per il Padiglione Americano e ritroviamo lo stesso spirito mortuario. La mostra di Felix Gonzalez-Torres è un’allucinazione. Se la presenza dell’artista faceva funzionare in un dato modo le opere da condividere, in sua assenza e sotto l’egida di una fondazione che decide cosa e come mostrare tutto ha il sapore del plagio. In ogni caso centinaia di frammenti dell’opera di Felix, accaparrati dal pubblico bramoso sono rimasti materia da discarica per i netturbini perché di difficile trasporto e quindi abbandonati in ogni dove. Immagini di un saccheggio.

Il padiglione Francese e quello Russo festeggiano la tecnologia anche se dal sapore poliziesco, mentre l’Austria tradisce la sua vocazione innovativa con una mostra di pittura banale. Ridicole le condizioni per la pubblicazione delle foto del padiglione francese, quindi per Sophie Calle niente foto. Pallidi gli altri padiglioni, alcuni, come quello canadese, in piena allucinazione divistica. Il padiglione olandese di Aernout Mik era davvero interessante, però sembrava la copia esatta dello stesso padiglione olandese del 2003.

Finti padiglioni – Proliferano i finti padiglioni come quello africano, all’interno del quale, bisogna anche dirlo, si trovano alcune fra le opere più interessanti. Gli eccessi e lo snobismo di questa Biennale si registrano con l’opera gigante dei Kabakov e il minuscolo francobollo di Chris Ofili esposti entrambi negli spazi delle Corderie e con lo stesso aplomb disincantato, della serie “Ci sono ma non mi importa esserci”. La prima conclude l’asettica opera curatoriale di Storr la seconda fa da epicentro alla poetica dell’alterità che non guasta mai, soprattutto se l’alterità la riempie chi sa fare scalpore dentro le migliori piazze espositive e in compagnia WASP.

WASP – We Aspect So Pretty (things from you) Biennal è concepita nella parte curatoriale come un immenso hangar ordinato per volumi simmetrici ed in cui nessuna contaminazione può esistere fra i singoli lavori. Robert Storr ha metodo e lo applica in maniera ragionata. Molti studenti apprezzeranno. Gli altri aspettano significati più densi e una chiave davvero logica per leggere il presente.

Artisti italiani – il meno che ci si possa aspettare da una Biennale di Venezia, in territorio contaminato dalla lingua italiana è che siano presentati in modo adeguato protagonisti dell’arte che abbiano i natali in territori di lingua italiana. Non molti ma un paio sì. Le rassegne internazionali mancano del tutto di informarci su questo argomento e forse Venezia potrebbe ovviare, grazie al suo prestigio. Ma probabilmente anche in virtù della voce Lingua Italiana (cfr) ritroviamo alcune sorprese. Anche a Venezia l’arte italiana non si vede ma i pochi rappresentati hanno in comune, per caso, la residenza newyorkese. Ergo: sono artisti italiani coloro che nati lo furono e si trasferirono in quel di Nuova York dove incontrarono un tale Robert Storr che passeggiava. Forse in ciò l’enigma di Buvoli ed il suo orrido carrozzone di segni, e di Canevari che quando stava a Roma non se lo filava nessuno e se ne scrivevi ti censuravano e adesso sbanca alla grande.

Recensione dalla serie B – Dopo vent’anni ho avuto anch’io la mia retrocessione. Serie B. Inappellabile quanto inaspettata. La Biennale di Venezia, programmata da ordini gerarchici astrusi sul filo della ragione del dominio americano ha imposto nuove regole. Una di queste ha deciso scansioni d’ingresso per curatori, stampa etc. Serie A e serie B non si sono così incontrate. Nessun grande curatore o collezionista ha dovuto aspettare per visitare un padiglione e non si è dovuto scusare per evitare di rispondere ai convenevoli fortuiti che possono nascondere tranelli e ingannevoli richieste. Il terzo giorno poi sono saltati i controlli e una marea di vagamente addetti ai lavori (serie C e dilettanti) ha invaso il campo. Ma si sa questa è la regola della struttura gerarchica.

Check-List Luanda Pop – Fernando Alvim e Simon Njami hanno curato il padiglione Africano, ovvero una parte delle corderie e ne è risultato uno dei più gradevoli allestimenti con opere che dicono qualcosa e non sono muti simulacri di manierismi scolastici.

Opere – Adel Abessemed e il suo Exil/exit in luce al neon, non è un lavoro nuovo ma fa sempre il suo effetto. Nedko Solakov riesce a distinguersi come sempre, d’altra parte usa l’unico metodo che oggi funziona: un mitra puntato sul cranio di chi deve ascoltare, vedere, dare o rispondere. Yukio Fujimoto e la sua cancellazione dei Beatles, opera simpatica e concettualizzata e non troppo minimal. Premio fotografia a Tomoko Yoneda per il suo scenario di spazi transitori, ipnotici. Premio arte italiana a Paolo Canevari per il suo video fra l’orrido e il grottesco di un bambino che gioca ansimando fra le macerie calciando un teschio. Premio installazione video ad Alfredo Jaar.

Rivelazioni – Joshua Mosley, artista americano, confeziona delle video storie con giochi tridimensionali elaborati da modellini e studi di natura. Il risultato è un racconto estatico in cui l’alta tecnologia sembra secondaria all’evocazione del tempo passato. Shaun Gladwell, artista australiano, compone sequenze in spazi pubblici e ne fa sculture d’immagini in movimento dalle dense atmosfere metropolitane.

Delusioni – Daniel Buren, che probabilmente non è lo stesso Buren ma un omonimo, un clone psichedelico. Jenny Holzer col suo lavoro color canarino, Pierre Huyghe oramai disincantato e ozioso e Lawrence Weiner in formato grafica Tour Operator.

Foto Ufficio stampa la Biennale di Venezia.                         Ufficio Stampa Padiglione Russo

Dall’alto:

Adel Abdessemed, Exit, 1996. Neon blu / Blue Neon. 11 x 26 cm, Courtesy the artist. Photo Marc Domage. © Adel Abdessemed.

Paolo Canevari, Bouncing Skull, 2007. Video, Cortesy; Paolo Canevari, Galleria Christian Stein, Milano

Alexander Ponomarev, Arseny Mescheryakov, Shower, 2007, view of installation. Courtesy of the Multimedia Art Centre

Alfredo Jaar, Muxima, 2005. Video digital artwork, 36′. Courtesy of the artist

Chris Ofili, untitled, date unknown. Drawing on paper, dimension 4 x 3 cm  (without frame), Courtesy Sindika Dokolo African collection of contemporary art

Yinka Shonibare MBE, How to blow up two heads at once, 2006. Installation. Dimension Overall: 175 x 245 x 122cm. Courtesy Sindika Dokolo African collection of contemporary art

Yukio Fujimoto, Delete (The Beatles/Please Plaese me) 2007, Ready-made Object 30x30cm. Photo Kiyotoshi TAKASHIMA, Courtesy the Artist and Shugoarts

Kara Walker “… the angry surface of some grey and threatening sea” 2007, Pellicola da 16mm trasferita su DVD, colore, muto; compensato dipinto/16mm film and video transferred to DVD, color, silent; painted plywood trees 9’10”, Vista dell’installazione al /Installation view at The Walker Art Center, Minneapolis, Courtesy Sikkema Jenkins & Co

Tomoko Yoneda, Sniper View – View from Christian sniper position overlooking no man’s land, Beirut, 2004
Stampa a colori / C-Type Print 106x125cm ©Tomoko Yoneda, Courtesy of the artist and Shugo Arts