Mi ero sempre chiesta dove fossero le menti migliori di quella generazione mentre nelle città in cui viviamo, appena fuori dal salotto buono del centro storico e da ogni ipotesi di pianificazione regolata, venivano perpetrati abusi e condoni in libertà, con esiti curiosamente corrispettivi a certi interni piccolo borghesi letteralmente spaccati in due: la stanza di rappresentanza e facciata spesso vuota e chiusa, dove i bimbi non possono giocare, e il resto della casa, dove la vita e le sue urgenze riprendono il sopravvento. Oltre le periferie meritano menzione anche i litorali prospicienti il mare, utili per le vacanze dallo stress cittadino e per questo sommersi da colate di cemento a più piani su cui si invocherebbe, previa evacuazione dei residenti, la giusta nemesi di un altro tzunami.
Dov’erano dunque costoro mentre per esempio a Roma era l’età d’oro del “palazzinaro”, leggi imprenditore dedito al perseguimento del proprio massimo profitto e dotato di eccellente copertura politica? In assenza di committenza illuminata, si dedicavano perlopiù all’architettura picta, oppure applicando la legge di equivalenza universale tra macrocosmo e microcosmo, trovavano qualche chance come disegnatori di cucchiaini invece che città, per citare una mostra milanese dei primi anni ottanta che intendeva invertire i termini del percorso.
Ho trovato una risposta al mio quesito nella mostra Arti e architettura del ‘900 curata da Germano Celant, anche supervisore artistico sull’intera manifestazione Genova 2004 Capitale Europea della Cultura. L’assunto dell’intreccio indissolubile tra le arti trova dimostrazione con un semplice atto di giustapposizione che colloca una accanto all’altra sul medesimo piano modalità espressive pittoriche, plastiche, architettoniche, nonché cinematografiche, aventi denominatore comune in ciò che il curatore definisce come l’impatto dell’iconico. Le argomentazioni a sostegno sono date in ottocento pagine di catalogo in due tomi, per dotare la prospettiva dello sconfinamento di solidi fondamenti storici che vanno da Boccioni “noi futuristi abbiamo riassunto le ricerche pittoriche e scultoree … abbiamo creato … la forma unica e dinamica che crea la costruzione architettonica della continuità ” (1914), a Debord “la possibilità di un’attività creativa unitaria e collettiva si annuncia già nella dissoluzione delle singole arti … il programma minimo dell’Internazionale Situazionista comprende il tentativo di una compiuta arte spaziale che si deve estendere in un urbanesimo unitario … fondamento indispensabile per una società libera” (1958).
Nella seconda parte della mostra sono declinati i modi, i tempi e i luoghi in cui tutto questo avviene, lo spartiacque è fissato nell’anno 1968, con una posticipazione di circa un ventennio rispetto alle periodizzazioni canoniche da manuale. Lasciamo i soffitti argentati dei sotterranei allestiti da Gae Aulenti, per salire al piano nobile di Palazzo Ducale e qui è consigliato prendersi una pausa caffè, considerando che non siamo neanche a metà della metà dell’intero percorso e già abbondantemente in overbooking da stimolazione visiva. Mancano ancora circa 20 interventi sparsi nella città, “oggetti d’emozione” frutto dell’accoppiamento tra le arti fuori dai perimetri ad esse deputati, che invadono le strade, le piazze i cortili e ogni spazio praticabile nel tessuto urbano, entrando nella vita di tutti, consenzienti o meno. E poi c’è la sezione Billboard, una campagna affissioni in 50 gigantografie fotografiche sei metri per tre disseminate in zone decentrate e reperibili col naso all’insù o mediante mappa in dotazione.
Per essere sostenibile la visita andrebbe spalmata comodamente su più giorni, non disponendo del tempo necessario si finisce con l’impressione della grande abbuffata e una figura in mente, si chiama Erminia, è la moglie e compagna di sventure di Alberto Sordi nel film Dove vai in vacanza?, un tour de force che culmina con la visita alla Biennale di Venezia e in particolare nella scena in cui lei esausta si siede sulla prima sedia che trova, che chiaramente non è una sedia bensì un’opera d’arte e in quanto tale non può essere usata per riposarsi. La Biennale cui si riferiva il film era quella del 1976 curata, guarda caso, dallo stesso Celant.