Note:

1. Marcella Anglani, Al ritorno da Venezia. Riflessioni e connessioni,”Undo.net”, 3 giugno 2013.

2. Video | Art, An interview with artist Alfredo Jaar at the 55th International Art Exhibition (National participation of Chile), http://www.labiennale.org/en/mediacenter/video/55-b45.html

3. Michelangelo Pistoletto, Leone d’Oro alla Biennale del 2003, spiega nel 2009 al pubblico la Performance della Rottura degli Specchi (Venezia, 2009).

4. Pablo Picasso, Guernica, 1937, olio su tela,cm. 349,3 x 776,6, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid, Sala 30

5. Arthur C. Danto, La destituzione filosofica dell’arte, 2008, Palermo, Aesthetica Edizioni (ed. originale 1986, New York, Columbia University Press)

6. Cfr. http://www.labiennale.org/en/art/news/13-03.html, Conferenza stampa e testi on line del presidente Baratta e del curatore Massimiliano Gioni.“55th International Art Exhibition – The Encyclopedic Palace”.

7. Massimiliano Gioni, On the ground Milan, in “Artforum”, dicembre 2006. Cit. in Lýdia Pribišová, La Quadriennale di Roma. Dall’Ente autonomo alla Fondazione, cap.V, p. 260 (Tesi di Dottorato, 2013, Sapienza di Roma).

8. Slavoj Žižek, Vivere alla fine dei tempi, 2011, Milano, Ponte alle Grazie (I° ed 2010, Verso ed.)

9. Rossella Biscotti su you tube laboratorio onirico, ed inoltre la visita e lezione nel carcere di Massimiliano Gioni, http://www.labiennale.org/it/mediacenter/video/55-b14.html

10. La mostra Fantastic Art, Dada, Surrealism si tenne nel 1936 al MOMA. Museum of Modern Art, a New York, a cura di Alfred Barr jr.

11. La mostra Magiciens de la Terre si tenne nel 1989 al Centre George Pompidou a Parigi, su progetto e cura di Jean Hubert Martin.

12. Dopo le critiche di Marcella Anglani, vi è un’altra intervista compensativa sullo stesso Magazine (“Undo.net”, 6 luglio 2013) a cura di Annalisa Cattani, e Gioni precisa punto per punto la sua idea: 1. dare delle opere che ci insegnano a guardare in maniera diversa; 2. far guardare e capire il mondo attraverso le immagini (cosa succede in un mondo come il nostro, in cui ci sono tantissime immagini sempre più artificiali e commerciali, e qual è il ruolo di queste immagini per gli artisti e per tutti noi?). La questione non può essere lasciata solo all’arte come intrattenimento visivo, ma deve tornare all’arte come conoscenza di sé stessi e del mondo; 3. C’è quindi una sorta di provocazione, una domanda tra le righe: “chi è l’artista e chi ha diritto di essere definito tale?” Andare oltre alla definizione attuale di artista come professionista. Alcuni esempi: il libro illustrato da Carl Gustav Jung (un celebre dilettante) e i disegni di Rudolph Steiner, arrivando a figure completamente marginali o marginalizzate come Arthur Bispo do Rosário che sta da tutta la vita in un ospedale psichiatrico; 4. La ragione di questa inclusione di figure eccentriche è duplice. Da una parte togliere l’arte dal piedistallo, non per dissacrarla, ma perché spesso quel piedistallo è quello del mercato. Dall’altra “diffondere un nuovo quanto generico interesse da parte del sistema dell’arte mainstream nei confronti dell’“altro”; 5. Quando la metti in dialogo con altre forme di creatività l’arte torna ad essere viva. Questo processo rinnova il potere di affabulazione e fascinazione delle opere d’arte, che diventano racconti di vissuto esistenziale e visioni del mondo.  Dare una lezione all’arte? 6. Dall’altra parte questa è una mostra di allucinazioni e di modi di comprendere il mondo; 7. Mi sembrava importante mostrare che il modo di vedere il mondo di Bruce Nauman è tanto legittimo quanto quello di un illustre sconosciuto guidato da una passione che, a volte, diventa quasi ossessione e che gli fa realizzare delle opere che ci insegnano a guardare in maniera diversa.

13. Il sito http://www.artslant.com/ew/articles/show/35403 cita di Federico Florian il primo Diario #01 dei 4 Diari (Biennale Arte 2013 Diario #01
Biennale Arte 2013 Diario #02. Arsenale
Biennale Arte 2013 Diario #03. Giardini
Biennale Arte 2013 Diario #04. Padiglione Italia)
, del 17 luglio 2013 da “KLAT association of ideas” art magazine (http://www.klatmagazine.com/about).  Federico Florian attraversa il labirintico Palazzo Enciclopedico, dando un ordine in 4 possibili attraversamenti trans.storici: 1.Failure.2.Nostalgia.3.Literature.4.The unconscious. Gioni, egli scrive, ha posto la specie umana al centro del mondo. Sarebbe ciò che l’arte non fa? O sarebbe ciò che l’Istituzione o Sistema dell’Arte non legittima?

14. Simone Verde, Intervista a Massimiliano Gioni: “Vi presento la mia Biennale d’arte”, “L’Huffingtonpost”, 29/05/2013.

15. Denis Diderot, Enciclopédie ou Dictionnaire Raisonné des arts et des Métiers, voce Beau, Paris, vol.1, 1752.

Il Palazzo Enciclopedico: ART ATTACK

55th International Art Exhibition, 55° Biennale di Venezia: ci devo tornare, mi sono detta nei giorni del vernissage che hanno preceduto l’inaugurazione avvenuta l’1 giugno 2013, tornare è stata una necessità come per numerosi altri critici (1) di fronte all’estensione delle partecipazioni (150 artisti solo per il Palazzo Enciclopedico). Palazzo Enciclopedico è il nome dato dal curatore Massimiliano Gioni alla mostra e alla sua azione teorico/critica/curatoriale che voleva essere anche teorico/critica, rispondente a una domanda: “Cosa metteremmo oggi nell’epoca della fine della storia in un contenitore Enciclopedico e non storico lineare di ciò che si è detto o si dice essere arte e non arte?”.

Nel turbine di emozioni, scoperte (che ci sono sempre) e delusioni critiche o mie trascuratezze o impossibilità di arrivare a vedere, mi dicevo: tornerò. Ma avevo spesso inserito, nel mio taccuino di appunti di viaggio, richiami a artisti o Padiglioni Nazionali: “Libano”, “Kosovo”, “UK: Deller” come “ il vincente”, “padiglione Angola”? assegnato ad Angola il massimo Premio della Biennale, il Leone d’Oro?

L’impatto primo della Biennale era stato quello di una dissoluzione, nei fatti, della formula irreparabilmente invecchiata di ottocentesca Esposizione Universale promossa da Stati/Nazione – in via dissoluzione nella attuale filosofia finanziaria del mondo globalizzato. Filosofia di rappresentanza nazionale caduta, di fatto sia nel mondo dell’arte, sia – qui a Venezia – nei modi e negli scambi tra un padiglione e l’altro, nella onnidiffusione di artisti cinesi, nella presenza in più locations di uno stesso artista/simbolo – come nel caso di Ai Wei Wei): una dichiarazione espressamente presente nella drammatica opera dell’artista cileno Alfredo Jaar (2) che ha detto in sue interviste di non essere qui come artista cileno, né rappresentante della nazione Cile, da cui aveva dovuto fuggire negli anni della dittatura per diventare “artista”, e artista transnazionale tout court, artista universale, come l’arte pretenderebbe ancora di essere. Significativa in tal senso anche la azione di distruzione dello specchio operata dal Michelangelo Pistoletto nel 2009 di fronte al un pubblico che rideva nervosamente (3). Certo nella storia si è dato un segnale preciso e drammatico di una situazione di crisi quasi sempre politica, o di una grave condizione di vita dell’uomo contemporaneo, ogni volta che un artista ha negato la sua stessa opera (come nella Biennale del ’68, quando gli artisti girarono i quadri al muro, per non fare vedere l’immagine), o quando si è presentato su un palcoscenico internazionale dell’arte, spostandosi da quello deputato nazionale ad un altro o scegliendo quello più significativo politicamente, come nel caso di Guernica di Picasso (4) esposto nel 1937 alla esposizione Universale di Parigi al Padiglione della Repubblica spagnola, contrapponendosi al Padiglione franchista fascista aperto entro quello Vaticano.

Lo sappiamo, questa crisi c’è e naturalmente appare nell’arte, nel mondo dell’arte, luogo del criptico, peculiare e irrepetibile velamento/svelamento di ciò che in altri modi è detto e noto. E tuttavia ciò che l’arte dice è non visibile immediatamente nell’opera né nella sua immagine. Né attraverso ciò che fa l’arte si muta la realtà di cui l’arte ci dice. La quale se non può mutare il mondo, può mutare il modo di vederlo e di pensarlo. Ciò che non è in una progettualità dell’arte, ma che l’arte fa.

Non sapevo perché, durante il viaggio ai primi di ottobre verso Venezia, ciò che mi innervosiva più di tutto il resto, riguardava proprio il Palazzo Enciclopedico: ma non erano gli artisti e le loro opere già scesi dal piedistallo che l’estetica da Platone in poi aveva creato collocandole fuori del palazzo del potere e della conoscenza? Non saranno da scardinare o almeno delegittimare i piedistalli attuali di Sistema?

Il progetto del curatore, che si dava e sembrava come un “nuovo aperto” (l’evviva di Achille Bonito Oliva: “sembra di essere tornati al mio “Aperto” di 20 anni fa”!), pare poi in verità il suo contrario: un vero e proprio Art Attak – certo involontario? – di Massimiliano Gioni. “Art Attak” mi era venuto di pensare, ricordando il titolo Art Attaks dato da Arthur C. Danto (5) a un suo ennesimo intervento, dopo il suo saggio del1984 sulla destituzione filosofica dell’arte, sulla “deprimente condizione dell’arte” connessa a tutti quegli atti critici e teorici di neutralizzazione e depotenziamento dell’arte stessa.

Il progetto di Gioni è accolto come una didattica dal Presidente Baratta (una Biennale di Ricerca ed Educational) (6), ma è la didattica della stabilità. Vi è l’idea: a. di proporre un dialogo del pubblico con opera d’arte e opera non-d’arte, che consenta di desiderare andare oltre ciò che ci si aspetta dall’arte; b. di far dimenticare il carattere agonistico ed antagonistico dell’arte di avanguardia, e indirizzare a leggere l’opera d’arte contemporanea come si legge un’opera di non-arte: sogno, ossessione, bizzarria, fuga dal mondo e sogno di un’altra realtà; c. (con Gioni) di insegnarci a sfuggire al flusso delle immagini cui siamo sottoposti, a farsi catturare dai sistemi rappresentativi, cioè di organizzazione di conoscenza, di eccentrici, scienziati, scrittori, carrozzieri eccetera, per vedere come sia impresa disperata il progetto di strutturare la conoscenza in sistemi all-inclusive (la visione di Auriti di includere tutto e accettare tutto è buona perché non ha una prospettiva di visione critica, né una prospettiva di azione trasformatrice); d. rendere equivalenti la realtà dell’immaginazione dell’uomo e la funzione dell’immaginazione per l’uomo (come dire: sia chi è dentro sia chi è fuori del mondo dell’arte soffre, si ossessiona, si masturba, progetta: è questa emozione individuata che si viene invitati a osservare e a cui partecipare; e. essere voyeurs dell’infinita ricchezza e varietà del mondo creato e del mondo rappresentato dall’uomo: attraversatelo disarmati (unharmed), “as Moses did in the Red Sea”. Come se gli artisti contemporanei non lo avessero fatto già o non lo facessero più, contrapporli (e ce ne sono di molto interessanti in mostra) ai non artisti, uomini che dalla propria autobiografia o campo di esistenza o di sapere, hanno sognato altri mondi e bizzarramente disegnato realtà altre da quella vissuta.

Il nuovo rapporto col pubblico più vasto estraneo al mondo dell’arte, pubblico con cui l’Istituzione Biennale quest’anno vuole principalmente rivolgersi, è fondato su quello che è il sogno non dichiarato più diffuso: buttare giù l’arte dal suo piedistallo.

Gioni argomenta questa condivisione di point of view popolare e diffuso.

Ci sono due ragioni opposte per voler buttare giù l’arte dal suo piedistallo, come si è proposto Gioni, nel lanciare il suo Palazzo Enciclopedico, struttura espositiva clou della 55°Biennale Internazionale d’Arte di Venezia: o perché quel piedistallo è elevato da poteri istituzionali dell’arte negativi e regressivi: allora si sarebbe dovuto buttare giù il piedistallo (e non l’arte, come è avvenuto poiché le opere estraniate dalla loro matrice umana e rivelatrice sono state di fatto distrutte in quanto arte); oppure perché quel piedistallo è stato elevato/abbassato da un mondo dell’arte non regressivo, interessato e convinto del paradigma culturalmente trasformatore dell’arte, insieme agli artisti stessi, contrapposto ai quei poteri negativi istituzionali dell’arte.

A chi altro voleva rivolgersi Massimiliano Gioni, ai sostenitori di un’arte di intrattenimento? o ai propulsori di un’arte che nella sua unicità di intenzione e di costituzione ci indirizzerebbe verso una nuova o condivisa esperienza del mondo? Egli stesso in un saggio del 2006 individuava come un non valore e un valore i due indirizzi dell’arte contemporanea (7). Ma forse l’interrogativo è sfasato, rispetto all’intenzione del curatore: se tutti noi, come le opere d’arte, siamo sistemi di rappresentazioni, siamo modi di vedere il mondo, tutti i sistemi di rappresentazione sono opere d’arte? Non è questa la questione, direbbe Gioni. Ma l’infinita, millenaria, produzione di rappresentazioni o visioni del mondo – nel Palazzo pseudoEnciclopedico di Venezia – non rompe la circolarità negativa dell’identificazione di ciò che è Arte, da parte del Mondo o Sistema dell’arte. Sottraendo opere, di artisti o autori non riconosciuti tali, al loro contesto e alla loro intenzione.

Volendo “dare a pensare”, Gioni non fa che “dare a vedere”.

In un’era tutta dispiegata in immagini esteriori, come dare spazio ad immagini interiori, pur sempre immagini e non processi – come sono ? In un mondo divenuto sempre più “immagine”, che si presenta come immagine e non ci svela strutture di funzionamento e loro conseguenze su di noi ancora umani, perché farci vedere altre immagini con cui proporre ancora una volta una immagine del mondo, pensato come Palazzo, come Enciclopedia?

La verità è che Gioni non riesce ad avviarci – come avrebbe voluto – verso il processo oltre l’immagine, al di là del flusso delle immagini esteriori che noi viviamo di secondo in secondo, al di là di questa condizione storica, al di là e nel backstage della globalizzazione e del vivere “alla fine del tempo” (8).

La verità è che ormai tutto è svuotato e depotenziato, le parole, le immagini, quello che fai e dici ti rendi conto che non è ascoltabile, percepibile…, le parole vengono usate, si cerca di fare con l’arte quello stesso svuotamento che si è fatto sulle parole… e sulle persone…

Smemorare…

De radicare…

Nomadismo… Fuggire…

Oggi è giusto chiedersi: ma l’arte fa veramente qualcosa?

Che cosa mostra l’arte quando e come si mostra?

Rossella Biscotti, I dreamt that you changed into a cat… gatto… ha ha ha, 2013. Particolare dell’Installazione in compost, Arsenale. 55. Esposizione Internazionale d’Arte, Il Palazzo Enciclopedico, la Biennale di Venezia

 

Ci sono tante opere di artisti realizzate anche in questa Biennale – cito solo alcuni nomi, le cui opere ho amato particolarmente:Rossella Biscotti (9), Jeremy Deller, Akram Zaatari, César Meneghetti il cui progetto I/O IO E’ UN ALTRO è stato curato con Alessandro Zuccari da chi scrive e fanno ciò che non fa la non-arte autistica e irrelazionata alla realtà. La loro opera è un frammento di un processo relazionale con altri e con la realtà vissuta. È solo parte o frammento di una più estesa azione in corso che è compiuta da un insieme di altri uomini e altre forze specifiche (quelli che vengono chiamati campi o discipline di azione o ricerca), col concorso soltanto delle quali altre forze l’atto di rappresentazione, conoscenza e trasformazione può compiersi.

Per questo è in genere difficile trovare “la capacità di trasmettere vita, suggerire una dimensione davvero reale dell’arte, insieme a emozioni, intuizioni, aperture e connessioni che rivoluzionano, indagano e aprono nuove prospettive sulla realtà contemporanea”: e non si trova qui nel modo di presentarsi di questa Biennale. L’uscita dell’arte da confini cristallizzanti ed estetici è compiuta da un paio di secoli. C’è già realizzata la storia non lineare dell’arte da Van Gogh a noi. Scrivere questa storia è la questione.

Diciamo che far scendere opere d’arte dal piedistallo mettendo loro alla pari opere e visioni di dilettanti, non è questo che può farle “vivere” nel loro processo sconfinato aperto a campi infiniti, trasformatrice e produttrice di visioni nuove e accorte della realtà in cui viviamo. Se è vero che questa difficoltà di comunicarsi e relazionarsi con l’altro è una difficoltà ontologica dell’arte contemporanea, ben diverso è oggettualizzare, equiparando vuoti e pieni.

Solo se la tensione ermeneutica si fa racconto in forma nuova di una storia e di un processo creativo, si crea una alternativa al flusso indistinto delle immagini nel mondo della interconnessione globale.

Dire oggi che l’arte rende visibile l’invisibile non è più possibile: vedere l’immagine/opera/azione è oggi come vedere la scritta entry/exit. Dall’opera d’arte oggi puoi entrare nell’opera condivisa/collettiva, in quel senso/azione di conoscenza, visualizzazione e trasformazione altrove avvenuta, a più mani, con più apporti. Che fa l’artista, se non assumere su se stesso il compito di lanciare razzi, tracce raccolte e passate al setaccio della sua interiorità?

Da questi SOS lanciatici da luoghi deputati e non, comunque siamo catturati a un percorso al di là dell’opera cristallizzata in segno/oggetto/immagine: come Caronte, l’uomo/artista ci traghetta nella realtà, il non-artista vi affonda e vi si reclude. L’artista ci offre strumenti di ogni tipo, o ci obbliga a cercarli, per ripercorre insieme o da soli, al di là dell’oggetto, quel senso/azione di conoscenza, visualizzazione e trasformazione di cui egli è stato parte e uno degli attori.

Ma ciò non può avvenire in un Palazzo nel suo chiuso.

Se riduci l’arte a una serie di immagini/oggetti, in verità stai compiendo un processo di distruzione, depotenziamento, o solo esibizione, di un messaggio di per sé non sorprendente: entry/exit. Non è qui realizzata una contro-storia, una storia non-lineare e quindi rivoluzionaria se fosse fatta. È invece depotenziato il potenziale dell’arte ritenuto “pericoloso” per il mondo/mercato globalizzato a base finanziaria: se raccontata, estetizzata, omogeneizzata nella cornice fatiscente e irreparabilmente invecchiata della Biennale di Venezia. Che è ormai ben diversa e lontana da esposizioni periodiche come la Biennale di Berlino ad esempio, rinnovatesi a metà del ‘900, prendendo atto di ciò che gli artisti stessi hanno ipotizzato e realizzato, inviandoci a sconfinare in tutti quei campi che mettono in gioco la condizione dell’uomo contemporaneo nella società industriale avanzata e poi in quella globalizzata.

Ciò che gli artisti hanno fatto, nel Palazzo Enciclopedico è “disciplinato”, omogeneizzato con ciò che dilettanti e altri senza finalità hanno realizzato: al “mondo o sistema dell’arte” si propone di espungere da sé anche l’arte, sbatterla nella cosiddetta vita individuale, facendo dell’indubbio e permanente “disagio della civiltà” un disagio individualizzato, espresso autisticamente e irrelazionalmente “strutturato”. L’azione di depotenziamento e di omogeneizzazione dell’arte, facendola sfuggire per la tangente dell’eccentrico, dell’ossessivo, del bizzarro non è un fatto nuovo, sia in Europa che in US: togliere credito all’azione critica e politica implicita ma avvertibile, come è avvenuto con la mostra Fantastic Art, Dada and Surrealism (New York, 1936) (10), che appiattiva e svuotava la carica eversiva del progetto surrealista di 10 anni prima, era rivolta al mondo dell’arte americano per tranquillizzarlo (come ricorda la Anglani, alcuni artisti surrealisti rifiutarono di esporre, per non appiattirsi nella fatuità del bizzarro di tutti i tempi). O come avvenuto in Francia dove in Magiciens de la Terre (Centre Pompidou, Parigi,1989) (11) si accostavano culture emergenti e culture occidentali avanzate, estetizzando, facendo emergere piuttosto il collezionismo degli ambasciatori e la finanziarizzazione di voci marginali. Fenomeni nati allora da esigenze di equivalenza creativa, e quindi di stabilizzazione, oggi che l’esigenza di stabilità è divenuta pretesa globale per il funzionamento dell’economia globalizzata, il Palazzo Enciclopedico è il massimo dell’enunciazione di una stabilità. Aderente a tradizionali valori e stereotipi, di un pubblico inidentificato e sottovalutato. “E così anche Steiner e Jung diventano semplicemente illustrazioni più o meno fantastiche”, ha annotato la Anglani.

In nessuna delle interviste rese da Gioni a arts magazines o a newspapers gli intervistatori si sono domandati perché sempre egli abbia sempre detto e concluso chiaramente i suoi scritti programmatici e comunicati stampa affermando essere la sua un’impresa delirante e destinata al fallimento, “è una mostra di allucinazioni e di modi di comprendere il mondo” (Intervista ad Annalisa Cattani, “Undo.net”, 6 giugno 2013) (12). Né alcuno si è chiesto – con l’eccezione di Federico Florian (13) che ha dedicato uno dei suoi quattro paragrafi a Failure – perché Massimiliano Gioni dopo aver messo sul tappeto un universo non ordinato di creazioni/opere di tutti i tempi e di tutti i paesi  abbia corretto la sua pessimistica previsione affermando che tutto quanto offerto alla nostra percezione sensibile, alla nostra mente e per alcuni noi alla nostra memoria – poteva costituire soltanto la apertura ad interrogativi ed esplorazioni a venire.

Anche le domande nelle interviste a Gioni sono fuori misura, come nell’“Huffington Post” del 29 maggio 2013 (14) attribuendo impropriamente al curatore intenti classificatori ed aprioristici, come la posizione di una formula estetica su cui basare l’ordinamento: “Il suo “Palazzo Enciclopedico” – gli si chiede – è una summa di tentativi, il più delle volte con esiti disperati, di riassumere la complessità del mondo in una formula estetica e intellettuale. Pensa sia riuscito nel suo intento classificatorio? O anche la sua raccolta si è conclusa nell’impossibilità di ricomprendere il mondo?”

Gioni risponde: “Era ovvio dall’inizio che si trattava di un tentativo destinato a finire nel paradosso, o meglio non creato con l’intento di centrare l’obiettivo dell’esaustività ma di intraprendere una strada per poi investire nella scoperta di nuove vie. Non si tratta di una mostra razionalista, infatti, e la tassonomia non è il suo linguaggio. Piuttosto, quello che mi interessava era esporre tentativi di mappature interrotte, ricostruire i tentativi di rintracciare un senso complessivo, sapendo che erano senza possibilità di successo, come un romanzo nel romanzo (…)”.

Il fallimento del suo stesso “delirio di comprendere e sapere” è previsto, come previste le obiezioni incentrate su punti di vista aderenti alle regole dell’attuale sistema finanziario attuale dell’arte, regole che costruiscono termini e costituzioni dell’arte che sono: 1. incentrate su selezioni limitate di valore – secondo la regola del valore economico incentrato sul paradigma ad excludendum –, 2. rivolte ad oggetti e a cose e non a uomini (il cui sguardo e costruzione di immagini e sistemi di osservazione del mondo si trascina fino a noi da millenni).

Gioni conosce bene questi punti di vista, se nello scrivere nel 2006 distingueva i due mondi del mondo dell’arte: quello volto all’intrattenimento, rovesciato sul consenso, quello volto alla conoscenza e all’azione critica trasformatrice. Credo che il problema fosse inconsciamente quello di avere dal mondo dominante dell’arte di intrattenimento la committenza a dire il suo sapere. Solo una certa sua cauta cultura e gentilezza d’animo – che sono di Massimiliano Gioni – hanno tratto in inganno il committente ed aperto a Gioni incongruamente le porte del sistema dell’arte (di cui la Biennale Internazionale d’arte di Venezia è una delle istituzioni/matrice), cui Gioni vorrebbe contrapporre un altro mondo, o un’altra parte del sistema dell’arte.

Lo scandalo c’è, sì, anche questa volta, nella 55 Biennale, ed è nei suoi errori che sono anche la sua verità: il curatore ha chiamato arte e artisti anche chi e ciò che non è entrato nei diversi “sistemi dell’arte” (resta dell’enciclopedismo illuministico l’idea non illuministica di Diderot della relatività del Bello e dell’Arte, affermata appunto nella voce Beau dell’Enciclopédie) (15) e ha denaturato l’arte; ha messo in visione – senza profondità –elaborazioni, disegni di sistemi, tracce e appunti grafici e visuali, plastici e pittorici, in cui – al di fuori di norme e regolamentazioni estetiche vigenti o non più vigenti – delle persone hanno tracciato in immagine la loro interiore visione e sofferenza del mondo esteriore (uomini comuni, uomini non comuni, scienziati, psicanalisti, viaggiatori, carrozzieri, ragazzi depravati, donne escluse. Pazzi, paranoici, ciechi, carcerati, ma anche artisti).

È la caduta della Cornice, la fine della storia, l’annullamento del tempo. Non stiamo più nella cornice della Biennale, spicchio del mondo dell’arte.

Esporre così, svuotate, le tracce di cosmologie del mondo millenarie o tracciati di sistemi interiori, significa uccidere tutto e privare le opere di tutto quello che c’era di potenziale per il risveglio delle coscienze.

L’argomento a favore di questa operazione è invece che comunque con essa si riafferma, come avvenuto nel romanzo finto che Gioni racconta all’origine, che noi tutti – colti o non colti che siamo, sapienti e non sapienti che siano – globalmente interconnessi, ci troviamo in un flusso di immagini di per sé incontrollabile ed inestricabile ed insensato la cui profondità è inaccessibile in quanto flusso.

Ma il flusso non è solo di immagini, la interconnessione è tra soggetti/uomini, idee, progetti.

Nel vuoto un pieno tutto da usare.

Marino Auriti (1891-1980)  fotografato accanto all’ ENCICLOPEDICO PALAZZO DEL MONDO (The Encyclopedic Palace of the World), all’incirca nel 1950 in Kennett Square (Pennsylvania), photo American Folk Art Museum Archives, New York.

L’opera di Marino Auriti è realizzata in legno, vetro, plastica, metallo, pinzette per capelli ed elementi da kit per modelli. Fu donata all’American Folk Art Museum nel 2002 dalla figlia Colette Auriti Firmani in memoria del padre.

Marino Auriti si dedicò per oltre tre anni alla creazione del suo Museo, patented in 4 lingue (Encyclopedic Palace per gli United States, Palazzo Enciclopedico per l’Italia, Palacio Enciclopedico per la Spagna, e Palais encyclopédique per la Francia) quando chiuse il suo negozio di carrozziere, agli inizi degli anni ’50.

Costruì una teca a forma di piramide per il suo modello museale, che avrebbe dovuto contenere tutte le scoperte dell’umanità di tutti i tempi e paesi “dalla ruota al satellite”. Delle scritte sul coronamento del colonnato dorico esprimevano la sua concezione della vita: “Forgive the First Time”, Do Not Abuse Generosity”, “Do not abuse generosity”, “Use a budget for everything”, “No one will take away your sins. Don’t commit them”, “The less you desire the greater is your happiness”, “Enjoy liberty but don’t hurt anyone”, “Love your neighbors”. Alto 136 piani, ne realizzò il modello in scala 1:200 e se realizzato, come egli desiderava, al Centro di Washington, sarebbe stato il più alto edificio del mondo a quell’epoca.

Auriti dopo vani tentativi per la sua realizzazione, e dopo essere stato esposto due volte nella metà degli anni ’50, lo chiuse in un magazzino per alcuni anni. Due anni prima della sua morte fu intervistato e disse del suo desiderio che il modello fosse esposto in un Museo o in un edifico pubblico.

L’opera di Marino Auriti fu smembrata e per una ventina di anni la figlia tentò di farla acquistare da diversi Musei, tra cui il Metropolitan Museum. Nel 2003 la sua proposta fu accolta dal Folk Art Museum di New York.

Marino Auriti, Il Palazzo Enciclopedico (detail), c. 1950s, wood, plastic, glass, metal, hair combs, and model kit parts, 11 x 7 x 7 ft. Collection American Folk Art Museum, gift of Colette Auriti Firmani in memory of Marino Auriti, 2002.35.1

Marino Auriti accanto al Palazzo Enciclopedico sotto la teca di vetro. Collection American Folk Art Museum

Il Palazzo Enciclopedico smontato. Collection American Folk Art Museum. Riprodotto in : Stefany Anne Golberg, The Museum of Babel. With no one to sponsor him, Marino Auriti’s dream museum became the stuff of legends,”The Smart Set” From Dexel University, http://thesmartset.com/article/article05241301.aspx

Il Folk Art Museum, fotografato da Ozier Muhammad per Exibart: http://www.exibart.com/notizia.asp?IDCategoria=204&IDNotizia=39812

Come ricorda l’articolo su “Exibart”, il Folk Art Museum è considerato una tipologia architettonica interessante per l’uso museale di piccoli spazi e Andrew S. Dolkart, direttore del Dipartimento di Conservazione alla Columbia University, ha definito “sconcertante” il progetto di smantellamento architettonico del museo “perché non in linea con le facciate a vetri del MoMA”. Eppure il direttore del MoMA, Glenn Lowry, non ha imputato le motivazioni alla qualità dell’edificio. “Vittima del desiderio di espandersi – si nota nell’articolo su “Exhibart” – il Folk Museum era “sotto” di 32 milioni di dollari, e per questo concesse il proprio corpo alla macchina-MoMA un paio di anni fa. Il futuro? Sarà in un edificio più piccolo, su Lincoln Square,  West 66th Street”.

Gli architetti TOD WILLIAMS BILLIE TSIEN (cfr. http://www.twbta.com/#/2646) realizzano nel 2001 il FOLK ART MUSEUM di New York. Nasce accanto al MOMA un nuovo museo a New York dopo decenni. Mentre mi studio Marino Auriti, per entrare nel progetto di Massimiliano Gioni, e vado a vedere il Museo che lo ha accolto, mi imbatto appunto nell’articolo uscito su “Exhibart” il 12 aprile 2013, dal titolo: Abbattere il Folk Art Museum per far spazio al MoMA. Una storia choc che arriva da New York, dove l’intellighenzia culturale è sul piede di guerra.

 Ho intitolato ART ATTAK  il mio pezzo sulla mostra di Massimiliano Gioni IL PALAZZO ENCICLOPEDICO. Gioni ci ha indirizzato verso un altro Architecture Attak

Scopro la bellissima architettura del Folk Art Museum di New York , che confina proprio con il MOMA e un altro ATTAK  in corso, questa volta non implicitamente filosofico ma intenzionalmente reale.

Lo si vuole distruggere (o forse solo riusare, cambiandone la destinazione ?), trasferendone la collezione di arte popolare (o non-arte, come io sostengo) con una forma di gentrificazione rovesciata o come di dice di certe bombe, sporca: mentre in genere si parla di gentrificazione quando si espelle da un sito urbano la sua popolazione locale residente, per valorizzare- come si dice sublimando- cioè per fare una speculazione edilizia incompatibile con il livello economico degli abitanti originari. La gentrificazione urbana è in atto in tutto il mondo globalizzato, a partire da Berlino, già avvenuta a Roma, in pieno corso ad Istanbul in Turchia e in moltissime città della Cina, eccetera eccetera: e si serve in genere della maschera dell’arte. In un vecchio quartiere si svuota qualche edificio, vi si invitano a risiedere intellettuali e artisti con studi e gallerie, il luogo diventa cool, si ricacciano via gli artisti ( a meno che non appartengano al Sistema finanziario dell’arte, e divenuti perciò ricchissimi), e si ricostruisce, restaura, cosmetizza il quartiere, che viene così adeguato e normalizzato. Nulla deve rompere l’incanto della sporca cosmetica urbana! L’incanto e l’armonia del gusto, tanto criticato da Lionello Venturi, fondatore della disciplina stessa della storia dell’arte contemporanea: la istituì ponendone le condizioni di possibilità dal suo esilio antifascista parigino. Dico gentrificazione rovesciata , per tre ragioni, che comunque hanno tutte a che fare con il sistema finanziario dell’arte e con il ruolo dell’architettura al suo interno. Prima ragione: la collezione museale è evidentemente considerata cosa morta, che può essere spostata a piacimento, dato che essa ha perso – se ne aveva-  la essenza originaria e la contestualità di origine: quindi può spostarsi ovunque . Questa ragione si aggrava se la collezione non è legittimata dal sistema di valori del mondo dell’arte. Seconda ragione: la architettura museale di cui si tratta, soggetta a minaccia, è di per sé un’opera d’arte – oggetto da archistar tipico dell’architettura museale attuale- arte essa più dell’arte o della non-arte contenuta –  di fatto estranea al suo contenuto, quindi essa può tranquillamente mutare di destinazione  e i suoi begli interni possono tranquillamente trasformarsi in bar restaurant o in servizi aggiuntivi per il MoMA appunto, una volta che sia stata tranquillamente svuotata. Terza ragione: questa architettura del Folk Art Museum che mi pare una bellissima opera d’arte architettonica è sovrastata dal giudizio di gusto della cosmetica urbana, le sue strutture polimateriche contrasterebbero con le nuove strutture vetrate del MOMA.

Allora mi chiedo, ho tutto sbagliato, identificando il progetto di Massimiliano Gioni come un ART ATTAK? Forse l’ART ATTAK è altrove?

E in quell’altrove abbiamo forse a che fare con un ARCHITECTURE ATTAK, cui Massimiliano Gioni voleva farci arrivare, come attraverso un labirinto? Massimiliano Gioni ha ideato e scelto il nome del suo progetto espositivo proprio durante le sue camminate a New York dove vive, proprio entrando nel Folk Art Museum, proprio vedendo il Palazzo Enciclopedico lì, in quella architettura, in quel bel allestimento.

Per farci arrivare labirinticamente a guardare con occhi aperti quello che già vediamo e sappiamo, almeno un utile ripasso di ciò che non accettiamo: la prassi sbrigativa che caratterizza l’esercizio del potere – di creare, distruggere, mandare in rovina, dimenticare e far dimenticare – potere finanziario tipico del cosiddetto Sistema dell’arte.

Resistere non serve a niente? potremmo dire recitando il titolo del libro (Milano, RCS Libri S.p.A, 2012) di Walter Siti cui quest’anno in Italia è stato assegnato il prestigioso premio Strega?

Raccontare può servire, forse? A un altro servire.