Incautamente in equilibrio tra circospezione, verso romantico e rivoluzione reale. Così si può sintetizzare la ricerca di Pasquale Altieri.

Utopia Patetica” è una sorta di canto: c’è il verso, il simbolo/pietra, il ritmo generato dalla ripetizione e dall’intermittenza, la volontà del pubblico che, sottoponendosi all’esperienza ed alla visione, subisce la trappola dello specchio, realtà ribaltata dove solo il riflesso di un corpo vivo può resistere.

Spiega l’artista: “Il mio procedere in arte si compone essenzialmente di due binari: uno è una sorta di minimalismo che appare come scelta di un codice estetico estremo e primario, l’altro è la “sedimentazione”, un occhio fisso sul problema della produzione di memoria; scorie, derive esistenziali, tracce di storia, passione e morte…”.

Pasquale Altieri nasce a Matera il 1 Agosto 1966, vive e lavora a Viterbo. Attivo come artista dal 1981, inizia il suo percorso nell’ambito della multimedialità agli inizi degli anni ’90, con la realizzazione di ambienti fruibili teletrasmessi come Portrait (Palazzo degli Alessandri, Viterbo, 1990) e Iperluogo (Galleria Tempo Reale, Calcata, Viterbo, 1991). Nel 1996, approda alla performance, organizzando l’esposizione di un falso Van Gogh, con tanto di vigilantes a protezione (Vigilantes, Vigilantes, Explorer Coffee Gallery Roma – con Maddalena Gnisci). Nell’ultima parte degli anni ’90 la ricerca artistica di Altieri volge all’introspezione, culminando con un lavoro sulle wunderkammer, Ritrosia (Galleria Miralli Viterbo, 1999). Gli anni Duemila si aprono con un ritorno alla realizzazione di ambienti, il cui filo conduttore è, questa volta, la ricostruzione biografica di personaggi, siano essi immaginari o reali. Parallelamente si apre un nuovo ciclo di lavori, che accompagnerà Altieri per tutto il decennio, basato sulla dicotomia tra la morbidezza e la futilità del peluche, usato come rivestimento, e la durezza intrinseca (sia essa materiale o concettuale) degli oggetti rivestiti. Attualmente mantiene collaborazioni permanenti con le gallerie Art Up di Viterbo e Trecinque di Rieti, presso le quali sono stati presentati i suoi ultimi lavori. Inoltre, collateralmente all’attività artistica, numerose sono state le sue collaborazioni in ambito teatrale.

L’evento fa parte del ciclo espositivo del MLAC diretto da Simonetta Lux e curato da Domenico Scudero, in collaborazione con l’associazione per l’arte contemporanea L. H.O.O.K., realizzato con il contributo della Regione Lazio per la ricerca “Applicazione nuove tecnologie multimediali”, e con il sostegno della Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università La Sapienza.

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Pasquale Altieri, Utopia patetica
di Alessandra Caldarelli

Ventisette elementi identici giacciono immobili nel silenzio. Quel tempo, che sembrerebbe fermo, rarefatto, scorre invece a passi dal ritmo incalzante, inesorabile, seguendo questa ripetitività lineare che sdoppia l’identità del singolo elemento nelle sue copie.
L’uno e i suoi uguali, in una riproduzione estetica ed estenuante.
Dopo aver lavorato a lungo sul minimalismo, Pasquale Altieri crea delle opere che parlano con il loro misticismo, intatto dentro una teca di vetro: la materia, l’elemento puro ed estremo si manifesta in tutta la sua essenzialità, nudo a dimostrare se stesso.
Quella teca è, innanzitutto, restituzione della propria immagine, del proprio “io” rinchiuso fra le quattro pareti ricoperte di velluto blu.
Nel cuore del vetro quelle parole (“UNIVERSUM AD AMOREM ERUDIRE”), che saltano all’occhio come un monito e, allo stesso tempo, una speranza; lo spettatore, spaesato nel vedersi dentro la verità del proprio riflesso, non può fare a meno di ricondurre lo sguardo a quella frase.
L’artista inserisce l’elemento primo ed essenziale della pietra, per la precisione dei sampietrini, da lui raccolti in giro per Roma, che ci parlano dell’uomo, di un’umanità numerosa e variegata.
L’autore torna a parlare di quelle che lui stesso definisce “scorie”, resti e testimonianze dal mondo, che spesso si sente invincibile e che Altieri porta a vedersi inscatolato in quella che sembra una bara.
Memoria, identità, amore, morte si incontrano in un connubio che spinge a riflettere, a interrogarsi; viene da domandarsi se effettivamente l’umanità sia disposta a raccogliere questo invito, se sia disposta realmente ad educare all’amore. È questa la vera sfida, che viene incontro allo spettatore nella trasparenza e leggerezza del vetro con la forza di un fulmine che irrompe nel vuoto, nel silenzio.
Esiste questo amore? Cos’è questa “utopia patetica”?
Sembra rimandare a un duplice significato: se, da una parte, c’è la speranza di un sentimento (patetica come pathos) che sia in grado di vincere su tutto il resto, dall’altra ci troviamo davanti un’illusione sciocca, ingenua, irraggiungibile, patetica.
Chissà che, in sottofondo, non si sentano già vetri in frantumi.

Aprile 2010

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“Il vuoto che colpisce: l’opera di
Pasquale Altieri”
di Claudia Fiasca

L’istante prima e l’attimo subito dopo è quello che rimane nell’assestarsi dell’io verso infiniti spazi.
Non poi così infiniti, se si ritrova la propria immagine rinchiusa in un perfetto rettangolo blu con i bordi vellutati.
È proprio quella stoffa così seducente al tatto che taglia l’orizzonte e vincola l’osservatore ad osservarsi, giungendo all’io più intimo.
Una costrizione fastidiosa quindi, ma nello stesso tempo imprescindibile.
Che fine ha fatto il Narciso che si nasconde nell’uomo del XX secolo?
Perché tanta paura, tanta vergogna nel trovarsi al centro di quello spazio?
L’artista prevede questa sorta di “senso di colpa”, tanto che scrive sopra lo specchio: “Universum ad amorem erudire”.
Quale senso più profondo di questo? L’amore è proprio la pietra mancante lì davanti a noi, quel rimorso che logora la nostra Umanità.
Una confessione a cui non ci si può sottrarre e che emerge dalla nostra stessa immagine riflessa.
Niente di più psicologico e morale, niente di più storico e reale.
La risposta sembra essere proprio davanti, o meglio, dentro di noi e nel nostro passato.
La Storia si fa educatrice morale e madre benevola dell’Umanità, colei che accoglie pietosamente anche i peggiori misfatti e ripensa con il suo dire all’Amore.
Un’immagine questa che potrebbe contrastare con quanto si vede, soprattutto se ci si sofferma sul sampietrino poggiato nella bacheca.
Isolato, cupo e maestoso nella sua forma e nella sua massa, quasi a volersi imporre davanti a chi cerca e ri-cerca se stesso davanti allo specchio.
È lì che ritroviamo il senso della Storia, dell’Antichità in un riflesso continuo e fluttuante verso di noi.
In un moto nostalgico e violento la Storia ci riporta a sé.
La visione è duplice: potremmo vederlo come l’elemento che richiama la Classicità dell’antica Roma imperiale, la potenza della “Res publica” nelle sue opere architettoniche monumentali segno di un potere epico; altrimenti, ricontestualizzato in epoche rivoluzionarie, in primis fra tutte la Rivoluzione Francese del 1789, quella fatta per la riunificazione d’Italia, quella a noi più vicina del 1968, gli anni della protesta giovanile sensibile al disagio sociale determinato dal benessere (finto e banale) negli anni del boom economico.
Quale elemento più adatto per un inno alla rivoluzione?
Ma nella logica dell’arte di Altieri, questo elemento così violento si cela e diviene concettualmente un inno alla rivoluzione all’Amore.
Quasi a dire che il male e l’odio sono così radicati nel mondo e che solo qualcosa di così forte potrà sradicarli.
È proprio il sampietrino che “agitatore dell’anima”, diviene con noi il “vero protagonista” della rivolta.
Il dialogo che si apre tra lo spettatore, l’artista e l’opera diventa intrigante ed enigmatico se ci si sofferma sulla nostra stessa immagine (che nell’opera viene a far parte della stessa).
Se volessimo “interrogare le immagini” come ci suggerirebbe Mitchell, non si farebbe altro che giungere all’obiettivo dell’artista: interrogare noi stessi. Confermando così la teoria del filosofo, che proprio quello specchio non attende altro che la nostra immagine riflessa e probabilmente la stessa sta lì “a desiderare” che le sia chiesto “cosa voglia”.
Avviene quello che potremmo chiamare un “processo di seduzione” che ci attira e nello stesso tempo ci inquieta.
Ma dobbiamo pensare che, ancora una volta, tutto ruota attorno al nostro essere; ciononostante, si deve esser consapevoli che quell’immagine non potrebbe dire proprio nulla.
Come avrebbe detto Lacan: “Il desiderio di non mostrare desiderio (da parte dell’immagine) è anch’esso una forma di desiderio.”

Roma, 16 Aprile 2010

Foto: Domenico Scudero