Dal 7 al 28 marzo 2002 il Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università “La Sapienza” di Roma ospita la mostra Ombra Luce dell’artista veneziana Sara Campesan, a cura di Simonetta Lux. Nella sala superiore del MLAC spicca la suggestiva installazione che dà il titolo alla mostra: una serie di dischi in perspex, sospesi a diverse altezze e legati a un controsoffitto in legno con filo di nylon trasparente.

L’opera occupa l’intera parete di fondo e ne segue la curvatura, per una lunghezza di circa 22 metri. Dalla metà degli anni ’60 Sara Campesan sperimenta l’uso di materiali quali il plexiglas e il perspex, “…confacenti ad una restituzione di quelle vibrazioni di luce/colore e movimento”, caratteristiche del suo habitat lagunare: un pavimento fatto d’acqua, animato “…dal continuo inter – riflettersi del solido e del mobile nelle ore del giorno, o nel variare delle luci e delle ombre”. (1)

La forma elementare del cerchio, che si moltiplica nello spazio propulso dalla sua ritmica modulare, intercetta la luce in un caleidoscopio di trasparenze, proiezioni, riflessi. L’immagine, liberata dai vincoli coercitivi del quadro – finestra, sconfina nello spazio circostante, che non è più una categoria a – priori, isolata nella sua immutabile autotrasparenza, ma dimensione dell’Aperto e orizzonte del possibile. Al contempo, le ombre proiettate sulla parete evidenziano l’integrazione dell’opera al suo contesto ambientale e attestano la definitiva crisi della forma, “…quale meccanismo infallibile di rappresentabilità del visivo attraverso la tela”. (2)

L’esigenza di smarginare dalla gabbia illusionistica del dipinto, per tuffarsi nel turbine incessante dell’esistenza, evidenzia una chiara influenza dell’Informale. L’esordio artistico di Sara Campesan data, infatti, agli anni ’50 e le opere di quel periodo rivelano un’attenta ricerca sulla “materia” della pittura. La superficie della tela si nutre di un impasto spesso e duro, scalfito da incisioni profonde, graffiti, spaccature; la sua crosta caratterizzata indica la possibilità di un attraversamento, che si profila oltre la fibra sfaldata del supporto. L’idea di un’arte processuale ed eventica è rafforzata dall’intento di analizzare la struttura autonoma del segno grafico, duttile strumento a disposizione dell’artista, funzionale a “scrivere” e non, semplicemente, a “descrivere”… Tali riflessioni aprono una fase di fervida sperimentazione che culmina nella realizzazione del Quaderno Campesan (1971): il libercolo, composto da quindici tavole, si basa sul modulo della tripla spirale a quattro punti. La tradizionale prassi di lettura è letteralmente scardinata e, in alternativa alla scansione sequenziale delle pagine, la Campesan propone una loro, simultanea, aggregazione. Un foro praticato all’interno di ciascun foglio consente, infatti, di osservare lo svolgersi continuo dell’immagine nei fogli successivi. I segni si coordinano a costruire una catena ininterrotta che, nell’ultima pagina, è tagliata in corrispondenza del margine, ma continua nello spazio, virtualmente all’infinito. I dischi ritagliati dal Quaderno Campesan sono, successivamente, utilizzati per un’originale creazione: l’Alfabeto di Sara. I moduli grafici, desunti dalla spirale, sono associati alle lettere nell’intento di operare una visualizzazione della parola mediante il segno. L’esito più sorprendente di questa ricerca consiste nel realizzare una precipua consonanza tra la struttura metrica del verso e l’iterazione dei segni.

È come se l’artista mettesse in rima le immagini! Altro, non meno audace, tentativo quello di posizionare piccoli frammenti concavi sui righi e tra gli spazi di un pentagramma. La rispondenza, questa volta, è tra segno grafico e segno udibile, ma non si dispiega, sempre, con rigorosa esattezza. Alcuni tratti “…non corrispondono, infatti, alla perfezione e alla chiarezza che esige una scrittura musicale vera e propria, in quanto occupano, in parte, lo spazio del pentagramma e, in parte, il rigo creando difficoltà di lettura. Questo tipo di ambiguità lascia spazio all’interpretazione e all’improvvisazione”. (3)

La programmazione della texture non esclude, dunque, l’intervento del caso che legittima la licenza poetica dell’artista e consente al destinatario di risolvere quegli scarti “calcolati”, ispirandosi al suo “libero arbitrio” etico – estetico. Operatore e fruitore instaurano, così, un dialogo intersoggettivo, indispensabile alla progettazione di un mondo compossibile. La componente della casualità si può, inoltre, rintracciare nella Struttura con filo (1997): qui, una corda tiene insieme dei tubi di plastica, solitamente impiegati nelle tubature idrauliche. L’oggetto trovato, depistato dal binario della sua, quotidiana, utilizzabilità, assume una diversa funzionalità estetica. La Struttura, appesa alla parete, si scompone nello spazio in modo imprevedibile, per effetto della forza di gravità. Compete all’artista deciderne lo svolgimento, che non è meccanico, ma personalizzato: basta, infatti tendere il filo e si ottiene una diversa distribuzione dei tubi. L’artista, come il musicista, può sottoporre la sua partitura a continui riarrangiamenti: per farlo ha bisogno di pochi segni elementari, ma gli occorrono, al tempo stesso, inesauribile capacità inventiva e una fine conoscenza dell’ars combinatoria!

 

Maria Egizia Fiaschetti

 

note

  1. Luigi Serravalli, in “Sara Campesan 1950-1986″, catalogo della mostra (Fondazione Bevilacqua La Masa, Sala Espositiva d’Arte – Mestre, 30 Ottobre – 30 Novembre 1986), pp. 27, 29.
  2. Simone Viani, Sara Campesan 1950-1984, Ed. Baglioni & Berner e Associati, Firenze 1984, p.9.
  3. Raffaella Falomo, Sara Campesan 1950-2000. Essenza dello spazio e chiarezza delle forme, ed. Mirano-Venezia, Febbraio 2001, p.

 

    

  

Dettagli dell’installazione