Un passo o due soltanto

Simonetta Lux

Ripropongo, con lo stesso titolo di allora, uno scritto fattomi riscoprire pochi giorni fa dall’artista stesso.

Allora, era destinato a spiegare per noi il senso di un’opera che mai fu realizzata. Sì trattava di un intervento asimmetrico nello spazio antistante di uno degli ingressi di Corviale, concepito come alterazione di uno dei tre quadrati disposti a rombo di fronte ad esso: dal lato destro del portale/colonna/scala del­ l’ingresso diparte il quadrello di acciaio corten a un’altezza appunto che consenta il passaggio ad un uomo in piedi al di sotto di esso, e poi si piega in un movimento a spirale “quadrata” che arriva fino all’altezza di quindici metri. Un passo, solo un passo, come alternativa libera alla “rivelazione” di una struttura abitativa che una intera società (e non certo Mario Fiorentino), la nostra, non è riuscita a far decollare adeguatamente. Aver rivelato questo, a noi che oggi pensiamo di poter trovare delle soluzioni sociali degne di questo nome, far esplodere l’inquietudine di un luogo deserto, che l’artista non sapeva ancora che lo sarebbe stato, deve essere stato un grande peso per Magnoni, ma anche una idea di libertà affidata alla persona che era chiamata ad agire con le sue strutture elementari. Alle due opere degli inizi degli anni 80 qui riproposte, si può ben rivolgere di nuovo quel testo, che ripercorre la genesi della sempre attuale filosofia della scultura di Magnoni.

 

“Basta solo che rileggiamo quella bella presentazione del 1969 alla sua mostra personale alla galleria Florio di Firenze, scritta dal poeta e massimo tra i critici di quegli anni cioè da Cesare Vivaldi. Con la consueta acutezza Vivaldi scriveva infatti che una peculiarità dell’allora giovane scultore Teodosio Magnoni era un’arte “severamente mentale’ — prefigurata, tanto da non pretendere, se non qualche volta, la realizzazione, dandosi in una infinità di progetti   realizzati fin nel minimo dettaglio, ma anche in “semplici   disegni” e “schemi costruttivi”. Ora questa progettualità diventava una variante delle inquietudini del non finito dell’informe (conclusesi, apparentemente, una decina d’anni prima), essendo indicata infatti da Vivaldi come una pseudo progettualità, estranea alla serie e al design o all’esecuzione impersonale e industriale.

 

E questo era tanto vero, in quanto a Magnoni – diceva Vivaldi a ragione – stava a cuore “il fatto stesso di una possibilità di misura, più che la misura medesima”.

Perché a un artista, anzi a un pittore fattosi a un certo punto e assai presto scultore doveva stare a cuore la semplice “possibilità di misura”? Si, è vero, questo andava bene nel 1969, quando era ormai svanente il senso drammatico del male incommensurabile, proprio degli uomini del dopoguerra {che nel mondo dell’arte aveva voluto dire: “l’informe”, la non-non-forma, la “difficoltà” della figura), ma era qualcosa di più rispetto al trend di neo-progettualità e neo-costruttivismo – anzi di meno, quasi un understatement: MISURARE, darlo come possibile, ma è un misurare già DEBOLE.

Anche quell’aprirsi così assurdo delle geometrie dipinte e poi squadernate a terra come un albatros degli anni sessanta […] rientra in questa interpretazione.

Questo squadernamento e come un disossamento della   geometria è un fatto molto importante nella storia particolare di questo scultore: serve cioè a capire che senso avrà il suo concetto di scultura e di conseguenza il fine delle sue installazioni, che sono qui presenti a partire da quella a mio avviso molto importante anche se non realizzata di Corviale.

Cioè fin da questo momento, quando Magnoni sta per intraprendere l’uscita dalla pittura per svolgerla in scultura e in concomitanza con questa intrapresa, egli appare uno che sa quello che non vuole più ed agisce di conseguenza.

Magnoni certamente non vuole più la collocazione e funzionalizzazione simbolica di un oggetto in un luogo, non gli interessa più il classico raccogliersi dello spazio intorno alla scultura, né quella valorizzazione del banale in eccezionale che le macchine immaginarie delle avanguardie e delle neoavanguardie sapevano fare cosi

Bene.

Si fonda su gesti pseudo-costruttivi che sono in verità gesti di frattura, di distorsione, di frammentazione, di perdita di unitarietà del linguaggio, combinazioni di figure astratte tanto semplici da apparire ridicole.

Questa provocazione già postmoderna possiamo rileggerla col senno del poi come integrale disinteresse per le retoriche costruttive   e presentative della scultura storica – antica o moderna: colla semplicità degli elementi linguistici e del gesto combinatorio che perseguirà negli anni 60-73 circa, prima delle installazioni vere e proprie, la problematicità e la inconcludibilità del gesto stesso espunge la scultura anche dalla tensione e combinabilità coll’architettura.

Fin dal suo stato nascente è elegantemente affermata, e per sempre, la diversità di un fatto dì spazio-architettura da un fatto di spazio-scultura.

A qual pro? perché la scultura risponda di nuovo a quella totale esigenza di comunicazione tra uomini, persa tra le pieghe della simbolicità e ritrovabile nella problematicità di ogni evento conoscitivo, ritrovabile nella scultura concepita come modello di comportamento, anzi come processo di conoscenza dell’intorno (dello spazio, del­ l’ambiente) e simultaneamente delle incertezze ed inconcludenze del sé.

Fa costruire allo stesso osservatore (come a  sé, d’altronde) figure e nuove geometrie attraverso il proprio movimento nel luogo, introducendo inquietanti dissonanze peraltro già annunciate dall’uso poco praticato e già per questo dissonante anch’esso (e comunque inedito, se si esclude Duchamp} di materie come l’elastico e il nastro adesivo in simultanea col ferro corten ed il disegno su pareti. L’opera “misuratrice” e “rivelatrice” misura in verità l’essenzialità di quanto poco ci occorrerebbe per vivere ed abitare. Un passo o due soltanto: cosi – se realizzata – avrebbe riassunto il senso e non-senso dell’insediamento di abitazioni popolari di Corviale dell’architetto Mario Fiorentino”

Così nel ’99 racchiudeva in una spirale di quadrello d’acciaio alto 38 metri la potenzialità semplice del passo da compiere e mai compiuto, ribadendo il messaggio, l’invito, la prefigurazione ad agire della serie degli anni 80 “Abitare i luoghi” “Aprire i luoghi”.

Come si poteva sapere che dopo oltre trenta anni saremmo stati ancora fermi alla prefigurazione ad agire?

Simonetta Lux

Roma 1999, Libreria del “Manifesto”

Roma, 2017, Galleria La Nube di Oort

 

 

 

 

 

Simonetta Lux nello studio di Teodosio Magnoni a Sutri. Foto Cristian Stanescu


Video di Luisa Galdo.
La mostra
Teodosio Magnoni
Abitare lo Spazio
a cura di Simonetta Lux
Testi di Simonetta Lux
Cristian Stanescu
Roma, Galleria La Nube di Oort, di Cristian Stanescu,
26 Ottobre – 14 Novembre 2017.
In occasione del Finissage la mostra viene sonorizzata con una composizione di Fausto Razzi, OPer Piano 2 (1989)

1, 2, 3, Foto della mostra Giorgio Benni

4, 5, 6, 7, 8, Foto dell’allestimento di Daniele Statera